Prigionieri di un’immagine

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secolarizzazione epidemia
Secolarizzazione come epidemia

Della pandemia di Covid-19 non resteranno solo il senso di stupore per un cambiamento di vita che nessuna persona sana di mente avrebbe potuto prevedere solo pochi mesi fa o l’angoscia collettiva di fronte a una minaccia vaga e insidiosa, ma anche alcune immagini che hanno turbato le coscienze di quanti, per evocare Max Weber, hanno conservato un orecchio religioso a dispetto dell’apparentemente inarrestabile processo storico di disincanto del mondo.

Alcune di queste immagini sono già passate alla Storia.

Fotografare il vuoto

secolarizzazione epidemiaLa più evocativa è quella di papa Francesco che il 27 marzo, in occasione della benedizione «Urbi et Orbi», in una piazza San Pietro deserta e sferzata dalla pioggia, ha riassunto con queste parole il senso di spaesamento che affligge cristiani e non cristiani dall’inizio della pandemia: «Come i discepoli del Vangelo siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda».

La seconda immagine ha una data che precede di qualche giorno quel venerdì di fine marzo e ha per protagonista sempre papa Francesco. In questo caso la fotografia lo ritrae frontalmente mentre procede a testa china a Roma, in una via del Corso spettrale, attorniato dalle guardie del corpo. La meta dell’insolita comitiva è la chiesa di San Marcello al Corso dove il pontefice pregherà per la fine della pandemia.

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Fin qui uno potrebbe pensare che l’immaginario religioso pungolato dall’epidemia sia solo quello dell’Occidente secolarizzato.

secolarizzazione epidemiaLa verità, tuttavia, è che nemmeno in Arabia Saudita le autorità religiose hanno atteso a lungo prima di prendere provvedimenti drastici per arginare il contagio.

Così dall’inizio di marzo hanno cominciato a circolare sui giornali le foto del luogo più sacro dell’islam senza le decine di migliaia di fedeli che normalmente stazionano attorno alla Kaaba, l’edificio a forma di cubo al centro della grande moschea della Mecca.

Ma l’immagine che forse più di ogni altra è sembrata avvalorare la tesi di chi pensa che durante l’epidemia di Covid-19 «pietas l’è morta», è la foto tristemente celebre della colonna di mezzi militari, in sosta in via Borgo Palazzo, a Bergamo, mobilitati, date le condizioni di saturazione della camera mortuaria cittadina e dell’impianto di cremazione, per trasportare verso altre province 486 bare di morti di coronavirus.

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In questo caso a colpire l’immaginazione di credenti e non credenti è stato un fenomeno religioso solo in senso lato. Lo spettro evocato dall’inusuale corteo funebre è infatti il collasso repentino delle pratiche sociali che, in condizioni ordinarie, funzionano da schermo che separa il dominio artificiale della civiltà da quello che il costruttivismo politico moderno ha dipinto fin da Hobbes come lo «stato di natura»: un luogo da lupi in cui dignità, valori, morale, memoria, senso, cultura, rispetto, non possono avere per definizione cittadinanza.

Pietà l’è morta

Dev’essere stata un’associazione mentale di questo genere a spingere un filosofo raffinato come Giorgio Agamben a rimproverare duramente la Chiesa cattolica per avere abdicato durante l’epidemia al suo ruolo di argine della profanizzazione universale.

«Poiché ho accusato le responsabilità di ciascuno di noi – si legge nel suo elzeviro del 14 aprile intitolato Una domanda –, non posso non menzionare le ancora più gravi responsabilità di coloro che avrebbero avuto il compito di vegliare sulla dignità dell’uomo. Innanzitutto la Chiesa, che, facendosi ancella della scienza, che è ormai diventata la vera religione del nostro tempo, ha radicalmente rinnegato i suoi principi più essenziali. La Chiesa, sotto un papa che si chiama Francesco, ha dimenticato che Francesco abbracciava i lebbrosi. Ha dimenticato che una delle opere della misericordia è quella di visitare gli ammalati. Ha dimenticato che i martiri insegnano che si deve essere disposti a sacrificare la vita piuttosto che la fede e che rinunciare al proprio prossimo significa rinunciare alla fede».

Lo sfondo teorico di questa ramanzina, che potrebbe apparire ingenerosa tenuto conto dei 111 sacerdoti che hanno perso la vita durante il picco dell’epidemia di Covid-19, va cercato in una precedente meditazione del filosofo romano, resa pubblica lo stesso giorno della benedizione «Urbi et Orbi» di papa Bergoglio, in cui compare uno dei capisaldi della sua critica del Moderno: il concetto di nuda vita.

«Un’altra cosa che dà da pensare – si legge alla fine di un monologo di 500 parole intitolato Riflessioni sulla peste – è l’evidente crollo di ogni convinzione e fede comune. Si direbbe che gli uomini non credono più a nulla – tranne che alla nuda esistenza biologica che occorre a qualunque costo salvare. Ma sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata».

Durante l’emergenza sanitaria Agamben si è assunto con malcelato gusto il ruolo del guastafeste nella conversazione globale in cui siamo tutti risucchiati quotidianamente. Non è però solo lui ad avere maturato il dubbio che la principale vittima di Covid-19 siano state non tanto le persone contagiate, quanto piuttosto quella risorsa scarsa che i malati, i loro cari e più in generale gli uomini moderni tendono a sottovalutare a proprio rischio e pericolo, ossia la fede paradossale in un bene che vada oltre la vita.

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Allargando la cerchia dei dissenzienti, non ho in mente primariamente i leader politici che di punto in bianco hanno cominciato a tuonare contro la chiusura delle chiese per evidente opportunismo elettorale. Penso piuttosto a quei pensatori che, pur sforzandosi di rendere giustizia alla frammentazione e fragilizzazione degli orizzonti morali moderni, che l’attuale emergenza sanitaria non ha certo creato dal nulla ma ha solo contribuito a magnificare, hanno nondimeno condiviso la diagnosi impietosa di Agamben.

Un esempio per tutti. In un articolo intitolato La religione a porte chiuse, Italo Testa, probabilmente il più colto e talentuoso tra i filosofi della mia generazione, ha avanzato dubbi analoghi a quelli articolati con minor tatto dal filosofo romano, prendendo anche lui spunto dalla passeggiata solitaria di Bergoglio in via del Corso.

«L’immagine di papa Francesco – così comincia la sua riflessione – che percorre a piedi le strade deserte della città eterna, circondato dalla scorta che si tiene a debita distanza, mentre richiama ex negativo i fotogrammi di Habemus papam […] è forse anche il simbolo vivente di quell’eclissi della religione cui, tra le altre cose, sembra di assistere in questi giorni».

Il termine «eclissi» non è utilizzato qui a caso. Testa, in effetti, è non meno severo di Agamben nel registrare l’«abdicazione volontaria», il «silenzio», la «liquefazione», «diserzione», «ritirata», «capitolazione», non solo della Chiesa cattolica, disponibile a rinunciare persino alla somministrazione dei sacramenti per rispetto della salute pubbliche, ma di tutte le religioni organizzate, lasciate ai margini anche della gestione della dimensione simbolica della crisi sanitaria. Così, mentre più o meno tutti hanno dato per scontato che i centri commerciali dovessero restare aperti per il rito collettivo della spesa settimanale (soffusa ora addirittura di un’aura sacrificale per via dell’incombente rischio di contagio), battesimi, matrimoni, comunioni, cresime, festività consacrate, oltre all’eucaristia domenicale e ai funerali sono stati immediatamente estromessi dalla vita pubblica, o quantomeno relegati nell’ombra, quasi senza proteste.

La religione sotto esame

Ma stanno veramente così le cose? Possiamo davvero accontentarci di questa diagnosi liquidatoria?

Nella mia condizione privilegiata di studioso che negli ultimi dieci anni si è occupato quasi a tempo pieno del nuovo dibattito sulla secolarizzazione, quando incappo in questo tipo di ragionamenti, quale che sia il loro spessore teorico, la prima immagine che mi passa davanti agli occhi è diversa da quelle che hanno monopolizzato la nostra attenzione nelle ultime settimane.

Assomiglia piuttosto all’immagine evocata da Ludwig Wittgenstein in un celebre paragrafo delle Ricerche filosofiche: il 115. In quella breve notazione, come qualcuno sicuramente ricorderà, il filosofo austro-britannico fa balenare l’idea che interi sistemi di pensiero, apparentemente impeccabili da un punto di vista logico, possano in realtà essere prigionieri di un immaginario non all’altezza del compito, che si annida e riproduce nelle pieghe stesse del loro linguaggio.

Nello specifico, l’immaginario che intrappola oggi le riflessioni sulla presunta eclissi della religione al tempo della pandemia non è diverso da quello che la faceva da padrone ai tempi d’oro della teoria classica della secolarizzazione. È sempre l’idea-forza, voglio dire, del gioco a somma zero tra fede e incredulità: l’acqua e l’olio della storia umana che non si mescolano mai e fanno anzi continuamente a gara per stratificarsi nel modo rispettivamente più vantaggioso. E insieme a essa a dominare la scena è l’immagine di una religione costantemente sotto esame, tenuta a dimostrare di essere all’altezza sia del tempo presente sia delle proprie glorie passate.

Al contrario, il recente dibattito sulla secolarizzazione ci ha insegnato una lezione opposta, che riassumerei così. Le religioni sono da sempre realtà anche secolari. E lo sono a maggior ragione le fedi e i culti che, dopo la nascita delle religioni soteriologiche, hanno interpretato il nocciolo invisibile ed enigmatico dell’esistenza umana nei termini della negazione del primato di quella che Alfred Schutz chiamava la realtà prominente del lavoro, della fatica, del problem-solving ingegnoso, della frustrazione dei desideri, della morte. Detto in parole più semplici, credere che al mondo non spetti l’ultima parola non significa affatto ritenere che il mondo stia sempre dalla parte del torto.

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Per una religione accettarsi come realtà (anche) immanente significa allora prima di tutto fare fino in fondo i conti con il mondo per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse. Non può stupirci, perciò, apprendere dal bel libro di Frank Snowden Epidemics and Society che, a seguito del trauma della Peste nera, la risposta di tutte le nazioni europee alle epidemie è stata, senza eccezioni e a prescindere dalle differenze culturali e religiose, una progressiva centralizzazione della gestione dell’emergenza sanitaria sotto la guida di Magistrati della Salute che si facevano guidare esclusivamente dalla massima latina salus populi suprema lex esto (il benessere della popolazione sia la legge suprema).

Pur in assenza di spiegazioni scientifiche affidabili delle cause dell’epidemia, le strategie di contenimento escogitate per prime dalle città rinascimentali italiane (chiusura dei confini, rarefazione delle attività economiche, quarantena, isolamento dei contagiati nei lazzaretti, lavaggio periodico delle strade ecc.) obbedivano infatti, pur con i tentennamenti che la natura umana sembra incapace di evitare, a vincoli razionali a cui la quasi totalità degli Stati si è sottomessa anche durante l’attuale pandemia.

Tutto sommato, non si può dire che le comunità religiose se la siano cavata peggio di molte agenzie secolari (i governi, i partiti, la Federazione Italiana Giuoco Calcio, gli Assessorati del Turismo ecc.) quando all’inizio dell’emergenza sanitaria si è trattato di venire a patti con la robustezza dei fatti nella vita di ogni giorno. Questi ultimi, durante le catastrofi naturali o sociali, si manifestano non di rado nella forma apocalittica di un collasso della socialità ordinaria.

Nel caso estremo dell’epidemia di peste del 1656 che causò la morte di quasi metà della popolazione napoletana la catastrofe è stata descritta da Snowden con queste parole raggelanti: «Ogni attività della vita normale cessò tra la serrata dei negozi, la disoccupazione e la fame. Come recita un detto fin troppo noto in tempi di pestilenza, i sopravvissuti erano troppo pochi per riuscire a seppellire i morti. I cadaveri venivano perciò abbandonati al chiuso e all’aperto. A conti fatti, le cronache del tempo lasciano intendere che decine di migliaia di cadaveri vennero bruciati e altre migliaia gettati in mare senza cerimonie».

I sommersi e i salvati

L’esperienza del «si salvi chi può» in cui viene spazzata via ogni traccia di civiltà non è quindi un monopolio dei moderni. Certo, in passato simili esperienze non suscitavano le ondate di dubbi iperbolici sulla rilevanza dell’esperienza religiosa di cui siamo testimoni oggi.

Ma il nocciolo di verità della tesi della secolarizzazione risiede esattamente nella constatazione e metabolizzazione del carattere radicalmente innovativo della comparsa simultaneamente pratica e teorica della laicità come forma di vita compiuta. In altri termini, ciò che è cambiato con l’affermarsi in Europa della opzione secolare – quella che il filosofo Charles Taylor ha descritto nei suoi lavori come una Cornice Immanente – è precisamente la trasformazione in una banale opportunità della possibilità un tempo riservata soltanto alle élites di viversi come persone complete anche al di fuori delle agenzie e delle visioni del mondo religiose.

Se prima della svolta moderna, cioè, le religioni potevano realisticamente rivendicare il diritto esclusivo di gestire simbolicamente e praticamente le esperienze limite  da cui nessun essere umano è dispensato (nascita, ingresso nell’età adulta, sessualità, paternità/maternità, invecchiamento, lutti, morte), da un paio di secoli in qua la ricerca personale di una vita buona è diventata una sfida di tutti contro tutti in cui chi dovrebbe fungere da arbitro si avvale di un regolamento contestato senza eccezione da tutti i contendenti, che fanno del loro meglio per sfruttare con lestezza e ingegnosità la nuova situazione.

Questa sfida è anche uno scaltro gioco di specchi. Non stupisce, perciò, che oggi, di fronte a un’epidemia che ha colto tutti in contropiede, qualcuno possa attendersi maliziosamente dalle religioni una sorta di mistica autosufficienza.

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Come ho detto, però, c’è qualcosa di sleale o quantomeno anacronistico nella pretesa che esse non modulino il proprio comportamento adattando creativamente il loro senso dell’indisponibile ai poteri e ai saperi che, nelle diverse circostanze storiche, consentono alle persone di navigare nel mondo con relativo successo. Non è così che funziona l’esistenza di una persona che cerca di mantenersi in equilibrio precario tra due realtà che rivendicano per sé la prominenza assoluta.

Ciò a cui siamo stati posti di fronte in queste settimane drammatiche non è dunque una diagnosi di morte inappellabile. È piuttosto un altro interessante episodio di quella storia incerta che si è dischiusa con le Rivoluzioni moderne e il cui tratto più tipico è proprio il dinamismo. Meglio aspettare, perciò, prima di dare per defunte le religioni per mano del Covid-19. Molte di esse sono anziane, è vero. Hanno dalla loro parte, però, anticorpi efficaci. In particolare custodiscono una fiducia granitica nel fatto che la morte, la sofferenza, in una parola il male, non possano avere mai l’ultima parola, nemmeno quando sembrano celebrare i loro trionfi più esaltanti.

E, se una cosa si può dire con certezza fin da ora di questa pandemia, è che non si tratta affatto di un trionfo incontrastato del Male. La barca su cui ci siamo radunati, insomma, galleggia e, pur tra alti e bassi, si sta muovendo in direzione del porto. E sebbene nessuno possa dire con certezza in che cosa consista esattamente quel porto, sperare non ha perso di senso e le persone continueranno a farlo anche in futuro dosando, come hanno sempre fatto da che mondo è mondo, realismo e desideri smisurati.

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