Salute mentale in Italia

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Il 25 e 26 giugno scorso – promossa dal Ministero della Salute – si è tenuta in streaming la Seconda Conferenza Nazionale della Salute Mentale dal titolo Per una salute mentale di comunità.

Il titolo di per sé ha indicato la scelta di campo – culturale innanzi tutto – di volersi prendere cura delle persone con disturbi mentali dentro le loro relazioni sociali e affettive, nei luoghi della loro vita quotidiana, assumendo la comunità degli uomini e delle donne accanto a loro quale primario contesto vitale e sanante di riferimento, impegnandosi a garantire, a tutto ciò, un supporto multiprofessionale di specialisti organizzati in équipe espresse e radicate nei territori.

Una situazione insoddisfacente

L’Italia, con la riforma dell’assistenza psichiatrica del 1978 – prima al mondo – ha chiuso i cosiddetti manicomi diventando il punto di riferimento internazionale per le politiche della salute mentale.

Tuttavia, la situazione ad oggi è tutt’altro che soddisfacente, poiché sono molte, troppe, le criticità del sistema – rispetto alla desiderata cultura della cura – e, per ciò, sono molte, troppe, le persone affette da disturbi mentali che da tempo non ricevono risposte adeguate, ovvero non ottengono alcuna risposta.

Sono infatti circa 850 mila le persone seguite dai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM), ma l’Istat stima in oltre 3 milioni il numero di adulti che necessiterebbero di una “presa in carico”, o meglio, di cura: le criticità riguardano le profonde diseguaglianze fra regione e regione – specie dopo la riforma del titolo V della Costituzione – oltre che all’interno delle stesse regioni.

Le criticità stanno nell’insufficiente sviluppo dell’assistenza territoriale e nella nuova centralità di carattere economicistico assunta dalle aziende ospedaliere o dalle residenze psichiatriche, rese prettamente sanitarie; stanno nelle carenze di organizzazione dei servizi, in particolare dopo i numerosi accorpamenti territoriali – di sempre maggiori dimensioni – tra Dipartimento e Dipartimento; stanno nella scarsa attenzione dedicata alle nuove forme di disagio, enormemente crescenti specie fra adolescenti e giovani adulti.

Devo evidenziare che i Dipartimenti hanno subito, nel corso degli anni, un progressivo depauperamento di risorse economiche e professionali; così come devo aggiungere che l’emergenza da COVID-19 ha aggravato le difficoltà con la dilatazione delle distanze fisiche e relazionali tra pazienti e operatori, tra pazienti e pazienti, tra operatori e operatori, accrescendo le sfere di disagio: con effetti diretti – quali il timore per la salute, la restrizione, il lutto – e indiretti, quali conseguenti alla crisi economica e sociale prodotta dalla pandemia.

Salute mentale e territorio

La Conferenza ha dunque posto in discussione lo stato e le prospettive dei servizi di salute mentale nei territori.

Le otto sessioni di lavoro sono state dedicate rispettivamente: alla riqualificazione ed organizzazione dei servizi in vista della salute mentale della comunità; alla salute mentale dei minori, degli adolescenti e dei giovani adulti attraverso nuovi servizi sanitari, la famiglia e la scuola; alle azioni preventive e di presa in cura delle persone migranti e nei contesti custodiali più difficili (vedi carceri); al lavoro di équipe con relative funzioni professionali e formazione attiva; al sistema informativo e di valutazione delle attività dei servizi di salute mentale; ai percorsi di presa in carico con valutazioni obiettive delle buone e delle cattive pratiche; al lavoro dei pazienti, alla loro casa, al sostegno alla loro vita indipendente: vettori fondamentali e strumenti della inclusione sociale; al ruolo delle associazioni di utenti, di familiari e di volontari – in concorso di risorse – in tutti i servizi dedicati.

È stata ribadita – e non era, a mio parere, cosa scontata di questi tempi – la primaria responsabilità pubblica delle politiche di cura, per garantire, in modo uniforme sul territorio nazionale, il diritto e l’inclusione, ovvero la prevenzione della solitudine e dell’abbandono.

Il Ministero della Salute si è impegnato, in coerenza con quanto previsto dal Piano di Azioni Nazionale per la Salute mentale, a privilegiare la metodologia che “parte dal basso”, andando a valorizzare le buone pratiche esistenti a livello locale, assumendo come riferimento, appunto, la “psichiatria e neuropsichiatria infantile di comunità”, ossia promuovendo e rilanciando il protagonismo del lavoro degli attori del territorio.

Si è convenuto che non si tratti solo di integrare al più presto gli organici dei professionisti dedicati – medici psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali, educatori professionali -, ma anche di adeguare i percorsi e i contenuti del sistema formativo specialistico, di promuovere l’aggiornamento e la formazione continua in itinere del personale, di monitorare attentamente la qualità delle “prese in carico” dei pazienti e l’esito dei trattamenti somministrati.

Alcune parole chiave indicate per la nuova sanità post pandemica – quali appunto comunità, territorio e domiciliarità – fanno di nuovo ben sperare in un significativo recupero dei propositi del passato e quindi in un rinnovamento della cultura e dell’offerta assistenziale, a beneficio sia delle persone con esperienza di sofferenza che degli stessi operatori in condizione di superlavoro e di stress.

Polemiche interne

Ho tuttavia notato come – anche in questa Conferenza – sia risultato del tutto marginale il tema della salute mentale delle tante persone migranti presenti nel nostro Paese – regolari e non – provenienti da varie aree geografiche del mondo e portatrici di culture, concezioni di salute/malattia e sintomi caratteristici che la biomedicina occidentale “atlantica” fa fatica a riconoscere e a rispettare: è una questione che ha messo e continua a mettere in difficoltà gli operatori dei DSM, senza che sia stata posta in essere ancora una vera strategia.

Debbo purtroppo aggiungere che alla Conferenza ministeriale non ha polemicamente partecipato la Società Italiana di Psichiatria, compagine che rappresenta i professionisti che non si sono riconosciuti nell’enfasi posta su una “salute mentale di comunità”, quindi contrapposta o alternativa a modelli assistenziali fondati su un approccio prevalentemente clinico, ovvero sul ricovero ospedaliero e sul farmaco.

In tal modo la SIP si è mostrata – a mio parere – assai poco sensibile, se non indifferente, agli obiettivi di sanità pubblica che – specie dopo e durante la vicenda pandemica – appaiono in bella evidenza nel lavoro di molte équipe, insieme alla diffusa percezione di dover contenere l’uso dei farmaci invalidanti, oltre che di superare l’uso delle contenzioni che provocano ulteriore sofferenza in luoghi di per sé deputati ad una cura affabile.

Debbo pertanto concludere che la discussione resta purtroppo aperta fra chi, nel settore, intende ridurre la terapia ad un rapporto “a senso unico” tra curante e curato e chi ritiene invece di dovere e di poter privilegiare la reciprocità, lo scambio affettivo – mentale – alla pari, con tutti.

Disconoscere la dimensione della qualità della reale vita quotidiana significa negare l’umanità più propria delle persone pazienti nei percorsi di resilienza alla loro sofferenza e con ciò compromettere gli autentici processi di “guarigione” possibile dal male.

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