Sanità: il folle e la sicurezza

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follia

La tragica morte della collega Barbara Capovani, − medico psichiatra di Pisa −, ad opera di un paziente in cura, ha fatto riesplodere la discussione sulla pericolosità per sé e per gli altri quale attribuito della malattia mentale e quindi sulle questioni rimaste irrisolte dopo la chiusura dei manicomi  a seguito della legge 180/78, nonché sulle garanzie quotidiane di sicurezza degli operatori  sanitari: non solo quelli dei servizi di salute mentale, ma anche nei Pronto Soccorso, in corsia, negli ambulatori.

Prima delle riforme del 1978, all’assistenza psichiatrica erano attribuiti compiti e responsabilità non solo di cura, ma, anche e soprattutto, di custodia, in ragione, appunto, della presunzione della pericolosità sociale associata alle diagnosi psichiatriche. Questo assunto aveva effetti anche sul versante del Codice Penale, per il quale non era – come non è tuttora – possibile riconoscere e punire l’autore di un delitto, se persona con diagnosi psichiatrica, proprio perché incapace di intendere e di volere, ritenuta irresponsabile delle proprie azioni e quindi non punibile.

Ne conseguiva che il paziente autore di reato non era condannato a una pena in carcere, bensì costretto a una misura di sicurezza da realizzarsi in appositi istituti − gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) − potenzialmente anche per tutto il resto della vita, al di là della rilevanza o meno del reato commesso.

Il nodo da sciogliere

La non-imputabilità del reo folle e le misure di sicurezza sono rimaste nel Codice Penale vigente anche dopo la chiusura degli OPG, avvenuta, nel 2015, generando un doloroso nodo da sciogliere per legge.

É quindi − ora più che mai − divenuto doveroso ed urgente riconoscere l’imputabilità del delitto all’autore dello stesso, anche se questi è riconosciuto folle, nonché il suo diritto a difendersi in processo e, se condannato, il suo dovere di scontare la pena prevista. Ma una tale riforma − da tempo attesa − deve essere accompagnata da un ben diverso impegno da parte dello Stato nell’assicurare il diritto alla salute e alle cure psichiatriche alla popolazione che sovraffolla le nostre carceri.

Quanto all’assistenza psichiatrica nel suo complesso, essa ha il compito della cura dei disturbi mentali. Il che significa seguire e accompagnare, anche per lungo tempo, le persone che ne sono affette, caso per caso, situazione per situazione, con attenzione e valorizzazione del ruolo delle famiglie, delle relazioni sociali e delle comunità locali. Tutto questo abbisogna della presenza diffusa e dell’opera quotidiana di squadre di operatori dei Dipartimenti di salute mentale (DSM), strutture aperte e operative 24 ore su 24 e dotate di organici adeguati.

Purtroppo − anche in tale ambito sanitario come in tutti gli altri − ci troviamo oggi di fronte ad una seria carenza di operatori per numeri e per competenze, andata enormemente ad accrescersi nei più recenti anni. La riduzione del personale ha perciò obbligato a concentrare le risorse professionali nei servizi di emergenza, sguarnendo il lavoro nei territori, benché questi siano di importanza fondamentale per la buona riuscita delle cure e per la prevenzione degli esiti maggiormente indesiderati.

Il dato di fatto evidente è che sui servizi di emergenza-urgenza e sugli operatori della salute mentale a ciò dedicati, si sono andate scaricando grandi responsabilità, con conseguenti rischi, senza che siano state messe a disposizione le risorse del caso: una situazione non più accettabile e a cui è urgente porre rimedio.

Se non si procede celermente nella direzione indicata dalla legge, l’alternativa è il ritorno alle condizioni precedenti la riforma del 1978, al tempo in cui, la risposta alla persona sofferente e alla sua domanda profonda di aiuto era soltanto «toglierla di mezzo» dai luoghi della vita quotidiana per isolarla da qualche parte: nel solito manicomio.

Qualità degli ambienti di cura

Dopo la tragica uccisione di Barbara Capovani, il documento del coordinamento dei direttori dei Dipartimenti di Salute Mentale, riguardo alla sicurezza nei luoghi di cura, ha, ancora una volta, messo in evidenza l’importanza della qualità degli ambienti della cura, della formazione e del numero degli operatori, della necessaria interazione tra personale sanitario e forze dell’ordine sulla base di una formazione comune, ma con ben diverse competenze.

Gli operatori della salute mentale non possono trasformarsi in tutori dell’ordine pubblico: i sanitari rifiutano la delega della gestione dei comportamenti aggressivi e chiedono di poter contare sulla piena collaborazione delle forze dell’ordine nei casi di comportamenti violenti.

L’affermarsi di una deriva custodialistica e securitaria nella gestione dei dipartimenti di cura non farebbe altro, purtroppo, che alimentare lo stigma nei confronti dei cittadini con patologie psichiatriche e continuare ad impoverire la qualità delle cure. Ciò costituirebbe una ferita mortale per il lavoro della salute mentale rischiando di aprire la strada ad un acritico ritorno ai tempi più cupi della concezione psichiatrica, cancellando anni e anni di impegno e di umana civiltà.

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Un commento

  1. Gian Piero 4 maggio 2023

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