Dopo l’Ucraina: un groviglio di interrogativi

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 “La guerra di solito mostra ciò che cerchiamo di ignorare per molto tempo, la guerra è un momento di domande scomode e di risposte difficili.”

«A volte sembra che il mondo, guardando a ciò che sta accadendo in Europa orientale negli ultimi mesi, utilizzi un vocabolario e delle definizioni che, da tempo, non spiegano più nulla di ciò che sta accadendo. Infatti, cosa intende il mondo (…) quando parla del “bisogno di pace”? Sembrerebbe che si tratti della cessazione della guerra, della fine del conflitto armato, del momento in cui l’artiglieria tace e arriva il silenzio. Sembrerebbe che questa sia la cosa che dovrebbe portarci a una comprensione. Dopotutto, cosa vogliamo, noi ucraini, più di tutto? Certo, la fine di questa guerra. Certo, la pace. Certo, la cessazione dei bombardamenti. Personalmente, come uno che abita al diciottesimo piano nel centro di Kharkiv, dove dalle finestre in alto si può vedere il lancio dei missili da parte dei russi dalla vicina Belgorod, desidero con tutto il cuore, appassionatamente, la fine degli attacchi missilistici, la fine della guerra, un ritorno alla normalità, alla naturalezza dell’esistenza. Allora, cosa mette in guardia spesso gli ucraini rispetto alle dichiarazioni degli intellettuali o dei politici europei sulla necessità della pace? Certo, non si nega la necessità della pace. Si tratta piuttosto di capire che la pace non arriverà solo perché la vittima dell’aggressione ha deposto le armi. La popolazione civile di Buča, Hostomel’ e Irpin’ non aveva armi. Ciò non ha salvato queste persone da una morte terribile. Anche i residenti di Kharkiv, verso cui i russi sparano regolarmente e caoticamente con i razzi, non possiedono armi. Cosa dovrebbero fare, secondo i sostenitori di una pace rapida ad ogni costo? Dove tracciare per loro il confine tra il sostegno alla pace e il non sostegno alla resistenza? Secondo me, quando oggi si parla di pace, nel contesto di questa guerra sanguinosa, drammatica, scatenata dalla Russia, alcuni non vogliono notare un semplice fatto: non c’è pace senza giustizia» (Serhiy Žhadan).[1]

Dopo nove mesi, la guerra in Ucraina procede e ancora non si intravedono serie prospettive di pace. Tra le parti in conflitto sembra di essere precipitati all’anno zero della comunicazione. Ciò, anche se si intuisce che, dietro le quinte di una diplomazia esplicita ormai catatonica, tentativi per saggiare il terreno e ammorbidire le posizioni ci sono e forse si accentueranno ora che le elezioni americane di midterm sono trascorse.

Nel frattempo crescono nei nostri ambienti – sembra di capire – le posizioni di quanti, anche tra coloro che inizialmente apparivano disponibili a sostenere militarmente la difesa ucraina, si sentono ora portati a dire che “al punto in cui siamo arrivati, bisogna chiuderla con questa guerra”, con ciò intendendo “costi quello che costi”.

Le ragioni, del tutto comprensibili, per cui questo atteggiamento trova crescente consenso sono due: l’altissimo costo in termini di distruzioni e di vite umane (ormai valutabile nell’ordine delle centinaia di migliaia); i rischi di allargamento del conflitto e di un ricorso ad armi “non convenzionali” con conseguenze imprevedibili.

Quale diplomazia?

In coincidenza inoltre con la manifestazione di Roma del 5 novembre, e anche in seguito ad essa, le posizioni che fin dall’inizio invocavano un ricorso più deciso alle vie della diplomazia si sono sentite rafforzate. Senza però, a mio avviso, che si chiarisca per quali ragioni oggi tali vie potrebbero essere più efficaci, se non alla condizione, in genere non esplicitata, di convincere l’Ucraina ad accettare, chilometro più chilometro meno, il nuovo statu quo creato dall’invasione russa, facendo capire ai cittadini di quel Paese che gli aiuti militari potrebbero finire, o venire calibrati in rapporto all’esigenza di far cessare rapidamente il conflitto.

Ciò lascerebbe, in definitiva, del tutto non risolta e nemmeno affrontata la questione della “pace giusta” sollevata da Serhiy Žhadan, come da molti altri. Ovviamente, non ci si può permettere di essere così ingenui da pensare che sia possibile far tornare tutto come prima.

Come sappiamo, la situazione è tale per cui non si può far “vincere” Putin, oltre che per il rispetto degli ucraini, per le conseguenze che ciò potrebbe avere sugli equilibri mondiali, ma non si può nemmeno umiliarlo del tutto, per i rischi che ciò potrebbe comportare, fintantoché la sua leadership continua a essere sostenuta all’interno della Federazione Russa e per le implicazioni che potrebbe avere anche un’implosione non guidata di quel Paese.

In un quadro del genere, la pace che verrà, anche nella migliore delle ipotesi, sarà probabilmente caratterizzata da quote variabili e incomplete di “giustizia”; si tratterà di una pace in parte almeno “sporca”. Il “quanto” sarà, in questo caso, decisivo per capire “quanta” pace vi sarà.

E la domanda cui gli ucraini dovranno rispondere prima o poi, ma non solo essi, è: quanta sporcizia ci possiamo permettere senza che ciò riapra il conflitto il giorno dopo, magari in forme non direttamente controllate dagli stati nazionali?

La nostra consapevolezza

Ma non è questo il punto che vorrei mettere al centro di queste riflessioni, che provo a proporre non certo per chiudere le controversie. Nel discutere le posizioni che stanno emergendo, vorrei piuttosto andare in una direzione diversa e la introdurrei proponendo una premessa metodologica, che potrà sembrare ovvia, ma che proprio scontata non mi pare essere.

Essa dice più o meno così: che noi qui, persone che avvertono la comprensibile esigenza di chiarirsi su cosa sarebbe più giusto avvenisse in questo difficile frangente, la pensiamo nei modi appena descritti o diversamente da essi, che scriviamo documenti alla Cacciari and Co., che sbraitiamo a destra e a manca, non conterà assolutamente nulla per la questione in sé. Sarebbe, dunque, saggio riconoscerlo e tenerlo sempre a mente.

Tutto ciò vale anche per chi, invece, ritiene che la significativa e partecipata manifestazione di Roma abbia cambiato il quadro, rimettendo nelle mani dei cittadini una qualche capacità di influenza. Se leggo le dichiarazioni di Andrea Riccardi a “Mezz’ora in più”, penso che esse siano volonterose, mosse da buone intenzioni, ma illusorie: quale sarebbe la piattaforma cui allude Riccardi come uscita dalla manifestazione “che è importante per la sinistra, per la politica estera italiana, per la politica europea?”; come immaginare di rispondere all’indicazione “l’Italia deve assumere l’iniziativa…”, senza cadere nel ridicolo? In virtù di quale miracolo l’Europa dovrebbe uscire d’emblée dal suo “nanismo diplomatico”?

Perché una qualche speranza di influenzare i decisori politici che contano potesse manifestarsi, sarebbe stato necessario che vi fossero, in modo diffuso e ripetuto, nelle capitali europee, grandi manifestazioni di massa, come avvenne ai tempi della seconda guerra irachena. Fu in quell’occasione – era il 2003 – che, in aperto contrasto con “una invasione unilaterale contraria al diritto internazionale” – si diceva anche allora – si manifestò per la prima volta un’“opinione pubblica europea” che Habermas e Dérrida, non senza qualche ottimismo, salutarono come una sorta di rinascita dell’Europa[2].

Dette manifestazioni dovrebbero essere caratterizzate oggi da obiettivi chiari, non semplicemente orientati a dire “Pace” e capaci di influire sulla situazione interna alla Russia, almeno nel senso di far capire da quelle parti che i popoli europei, e non solo i governi, sono con l’Ucraina e saranno capaci di opporsi all’espansionismo russo.

E, in una prospettiva che cerca di proiettarsi oltre il conflitto attuale, esse dovrebbero porsi scopi ricostruttivi dell’ordine mondiale invocando, pur con tutte le comprensibili, enormi difficoltà, il rafforzamento di istituzioni che possano regolarlo.

Un sentire diviso

Andrebbe oggi riconosciuto, invece, che, nelle attuali circostanze, qualcosa del genere non è avvenuto e che ciò molto probabilmente dipende dal fatto che l’opinione pubblica europea è divisa sui modi con cui reagire all’aggressione russa, sia sulla questione delle armi sia sulla questione dei costi delle sanzioni, per non parlare del significato generale da attribuire a tale aggressione.

Mentre a Roma si manifesta per la pace, mettendo tra parentesi la questione delle sanzioni (ci ritornerò), a Praga si manifesta contro tali misure e, anche laddove non si va in piazza in opposizione a esse, molti pensano che i costi da sopportare per sostenere l’Ucraina siano troppo onerosi. Essi mascherano con un pacifismo apparente e cinico il loro disinteresse per il futuro di quel Paese e per le implicazioni che avrebbe una plateale affermazione di Putin, per l’Europa e il mondo intero.

La consapevolezza dei limiti di ciò che noi possiamo dire e proporre dovrebbe invece spingerci a porci le domande che per noi contano e in relazione a cui possiamo esercitare una qualche influenza, su un piano diverso ovviamente. Si tratta di domande come: con quale cultura della pace e della guerra usciremo da questa vicenda? Siamo ancora convinti che in casi del genere e in un quadro come quello dato basti ripetere i vecchi slogan?

Pace e guerra sono concetti che riescono a cogliere adeguatamente i conflitti come quelli attuali, che tendono ad assumere natura globale, semipermanente e si avvalgono di una pluralità di strumenti? Avremo imparato a fare i conti con la possibilità che la storia ci ponga ancora di fronte a sfide come quella che ha fatto irruzione in Ucraina? Come reagiremo alla prossima? Come ci saremo attrezzati per impedire che ciò avvenga e, se dovesse avvenire ancora, come avremo, per tempo, organizzato i modi per reagirvi al minor costo possibile in termini di vite umane?

La fine di un’illusione

La decisione di Putin di invadere l’Ucraina ha avuto qualcosa di inaudito, come chiarisce bene la seconda delle citazioni riportate di Serhiy Žhadan. Mi pare che non sempre questo aspetto venga colto in pieno. Essa è stata non solo un attacco a quel Paese, ma anche un pugno nello stomaco diretto contro quanti sognavano «un ordine cosmopolitico basato sul diritto internazionale» (Habermas e Dérrida, 2003).

Dovremmo riconoscere – penso – che tutti avevamo vissuto fino ad ora nell’illusione che cose del genere non sarebbero più successe (quanto meno in Europa…). A fatto avvenuto, dopo che il 24 febbraio l’esercito russo è entrato in Ucraina, le reazioni sono state diverse. Alcuni di noi hanno ritenuto che questa sfida non mettesse in discussione il tradizionale approccio che, per brevità, chiamiamo pacifista, in cui tutti più o meno siamo cresciuti, e hanno reagito dicendo: “pace, diplomazia e in ogni caso no alle armi”.

Altri hanno ritenuto, non senza avvertire un forte mal di pancia, che vi fosse un nocciolo di questioni poste dall’invasione cui quell’approccio non riusciva a rispondere e che ciò finisse purtroppo per ridurlo a un insieme di idee belle e rispettabili, capaci di scaldare ancora gli animi, ma verbose e inefficaci. Perché, alla fine, se qualcuno non avesse sostenuto l’Ucraina anche con mezzi militari, quel paese non esisterebbe più. Questo pare incontrovertibile. E nessuno sa esattamente che cosa sarebbe successo dopo, da quelle parti del mondo.

Quel nucleo duro di questioni non era poi molto diverso, al di là delle grandi differenze di contesto e di attori, da quello che si era posto nel ’900, alle porte della seconda guerra mondiale: se abbiamo di fronte una leadership politica aggressiva, non contestata ma sostenuta dal popolo che la esprime, priva di remore a perseguire i suoi scopi violenti (nel nostro caso l’annullamento dell’Ucraina in quanto identità indipendente e forse non solo questo), dimostrarsi arrendevoli salverà la parte offesa e, inoltre, porterà la pace o aprirà la strada a nuovi conflitti?

Sia perché renderà l’aggressore più determinato nel perseguire i suoi fini e potrebbe indurlo a radicalizzarli, sia perché consiglierà altri, da altre parti del mondo, a seguire quella strada, visto che essa appare consentita dalla modestia delle reazioni?

A domande del genere dovettero rispondere due pacifisti convinti che, in epoche diverse della storia, si trovarono davanti a sfide analoghe, alla fine persuadendosi che l’uso della forza era, a certe condizioni, necessario e giustificato. Mi riferisco a Simon Weil, costretta a reagire al nazismo, e ad Alexander Langer, di fronte agli eccidi in Bosnia ad opera delle milizie serbe di Karadžić e Milošević.

Il fatto che, diversamente dal passato, la leadership aggressiva con cui siamo costretti a fare i conti disponga oggi dell’atomica non cambia del tutto la natura della domanda, la rende più difficile e rischiosa, oltre che dirci la radicalità delle questioni che abbiamo davanti. Posto che il nostro deciso interlocutore possiede la bomba, anche se sarebbe auspicabile non l’avesse…, noi che facciamo? Accettiamo le sue condizioni sempre e comunque, perché immaginiamo che sia disponibile ad usarla? Su cosa dovremmo trattare per ottenere la pace? Su Odessa, Kiev, Leopoli, sulle repubbliche Baltiche, sulla Moldavia o la Bielorussia, dove porremo la linea di confine?

Tenere le domande scomode

Sono domande a cui facciamo molta fatica a trovare risposte, come sottolinea Serhiy Žhadan nella citazione iniziale, ma che non per questo dovrebbero essere messe da parte sostituendole con la logica eccessivamente semplificatoria del “chiudiamola qui” e del “un po’ più di diplomazia perdinci”, per ritornare rapidamente alle nostre vecchie convinzioni e illusioni di un mondo in cui persone come quelle che caratterizzano l’attuale dirigenza russa non esistono e Belzebù è ritornato nella sua tana.

Torno perciò a proporre il quesito: posto che – lo abbiamo appena verificato – non possiamo escludere di trovarci di fronte a leadership aggressive determinate a perseguire i loro obiettivi anche a costo di minacciare le regole base dei rapporti internazionali (la modifica dei confini non può avvenire per vie militari!) come intendiamo porci di fronte alle loro eventuali iniziative? Pensiamo che una risposta di carattere non violento sia in tutti i casi capace di arrestare l’attacco che viene mosso?

Pensiamo che una strategia di quel genere possa essere adottata in modo condiviso ed efficace in qualsiasi tipo di conflitto e in qualsiasi quadro dei rapporti internazionali o essa ha bisogno, per poter essere praticata estesamente e risultare credibile, di una quadro di rapporti tra stati ben diverso da quello che purtroppo la nostra epoca ci pone dinnanzi, un quadro che resta da immaginare e costruire?

Lavorare perché si affermi un orizzonte un po’ meno aggressivo e destabilizzante, in cui vi sia un minimo di “parole” in comune tra interlocutori che pur si fronteggiano rudemente, non è una condizione preliminare di efficacia? E però, se accettiamo questa idea, non dovremmo forse ammettere che si tratta di una strada lunga e difficile, tanto più oggi, dopo la terribile vicenda che stiamo vivendo? Che sarà necessario non restare fermi “dopo l’Ucraina”, ma smuovere la sonnolenza dei popoli europei? Sarà possibile risalire la china, dopo questo disastro e mentre altri se ne preparano, nel mar cinese meridionale e nel golfo persico?

Se non chiudiamo gli occhi di fronte a queste difficoltà, se abbiamo dei dubbi, non sarà il caso allora di affrontare anche le questioni che la necessità, direi l’obbligo, di difendersi pongono: disarmo certamente, ma in quali modi, tempi e con quale capacità risolutiva in tempi di relativa facilità di riproduzione degli ordigni nucleari? Come fare i conti con un ritorno alla logica della deterrenza che sembra scritto nelle cose?

Nelle situazioni attuali esiste ancora un modo per superare tale logica, come il concilio auspicava e però accettandola in via preliminare (GS 81), o questa rimane ancora l’unica “soluzione” disponibile? Facciamo finta di non sapere che una certa “tranquillità” europea, più fragile oggi dopo l’iniziativa di Putin, dipende da quell’ombrello atomico americano, che peraltro ci ha sempre fatto ribrezzo?

E perché Svezia e Finlandia hanno chiesto di entrare nella Nato? Rifiutiamo qualsiasi logica che implichi l’uso della forza o riteniamo che una difesa coordinata, meglio ancora gestita unitariamente, a livello Europeo, inscritta dentro una logica come quella a suo tempo adombrata da Habermas e Dérrida – caratterizzata cioè da una soglia di tolleranza di fronte all’uso della forza comparativamente bassa[3] e dal desiderio di un ordine internazionale regolato secondo il multilateralismo e il diritto – sia una strada da non escludere?

Sullo sfondo c’è una domanda che fa da cornice a tutte quelle precedenti: siamo così poco convinti dei principi che ci sforziamo di porre alla base delle nostre società e per i quali lottiamo ogni giorno nei nostri paesi – libertà, democrazia, diritti umani, ecc. – da ritenere che, a causa del modo non di rado sbagliato e perfino colpevole con cui ci siamo mossi, essi hanno dimostrato di non avere alcuna validità e di conseguenza noi non siamo legittimati a difenderli con determinazione quando occorre? Se non vogliamo chiamarlo “Occidente” chiamiamolo diversamente, ma il tema è questo.

Sanzioni e silenzio

C’è poi la questione delle sanzioni, più in generale delle risposte economiche all’aggressione. In questi mesi mi ha colpito il silenzio delle componenti pacifiste su questo tema. Così almeno mi è parso. Mi sono chiesto se esso non dipendesse dal fatto che tali componenti erano divise su questo punto, come peraltro sull’atteggiamento da assumere nei confronti degli americani e della Nato.

Una divisione tra chi riteneva le sanzioni una modalità di reazione utilizzabile e chi le riteneva una forma comunque violenta, in ragione del fatto che esse finiscono per colpire maggiormente la parte più povera della popolazione, sia nei paesi che le operano sia in quelli che le subiscono. Non mi pare però che ci siano stati sforzi per immaginare dispositivi economici meno dannosi, né di provare a pensare se realisticamente vi erano alternative; né per riflettere sulle nuove forme assunte dai conflitti internazionali nell’epoca in cui “tutti dipendiamo da tutti” sotto il profilo economico, climatico, energetico, digitale…

Così anche questa forma di reazione all’aggressione è uscita dall’agenda pacifista condannando di fatto quest’ultima all’irrilevanza.

Ciò potrebbe non essere senza effetto sul futuro dei movimenti che con impegno e senso della giustizia aspirano a diffondere una cultura di pace. Perché ad essere contrari alle sanzioni sono anche quelle componenti della popolazione che vede lesi i propri interessi dalle sanzioni stesse e le rappresentanze politiche da esse espresse.

I seguaci di Trump in America usano dire che non si vede per quali ragioni Biden debba spendere tutti quei dollari per difendere un confine che non si sa nemmeno dove sia, quando con molto meno si potrebbe costruire un bel muro per dividere definitivamente gli USA dagli stati a Sud.

E in Europa molti che votano i partiti populisti di destra, fino a ieri più o meno filo putiniani, lo fanno anche perché sono preoccupati che i loro affari possano venire intralciati dalle sanzioni e in ciò trovano condivisione in quei settori poveri della popolazione che faticano ad arrivare alla fine del mese e non vengono adeguatamente tutelati dai loro governi. Prova ne sia che spesso la crisi energetica non viene attribuita da questi ambienti alla guerra e quindi a chi l’ha scatenata, ma alle reazioni occidentali e alle conseguenti “speculazioni”: “È colpa degli americani, che così ci guadagnano…”

Nasce così una forma di pacifismo cinico e interessato, o semplicemente impaurito, a lungo andare ben più pesante politicamente del pacifismo serio. Quest’ultimo dovrebbe chiarire bene la questione per evitare di imbarcare tali componenti sotto lo stesso ombrello, cosa che lo farebbe uscire da questa vicenda depotenziato.

E ciò implicherebbe affrontare il tema delle sanzioni, più in generale degli aspetti non militari del conflitto in corso. Altrimenti, come dice Serhiy Žhadan sarebbe come “ingoiare l’ennesimo male totale e incontrollato a favore di un dubbio mercantilismo e di un falso pacifismo”.

In sostanza quello che intendo dire è che, comunque la pensiamo, non dovremmo, per una ragione o per l’altra, accantonare le domande difficili, che questa vicenda ci pone, in nome di parole semplificatrici e illusorie, che ci tranquillizzano l’animo, ma “non risolvono”.

Politica e Vangelo

Ancora due punti. Si potrebbe obiettare che questo modo di ragionare, secondo alcuni troppo orientato alla real politik, o per altri solo apparentemente orientato alla real politik, perché oggi proprio il realismo dovrebbe indurre a anteporre il “cessate il fuoco” a qualsiasi altra considerazione, è lontano dalla radicalità evangelica con cui si esprime il Papa attuale.

Mi chiedo però in che modo dovrebbe leggere gli appelli di Bergoglio un fedele laico con responsabilità che, secondo la sua vocazione, prova a ragionare politicamente su questa sfida, senza dimenticare l’ispirazione evangelica e cercando di incarnarla nella difficile situazione data in modo da derivarne un’azione efficace e capace di ridurre al minimo il danno che ne potrebbe conseguire.

Inizialmente alcune delle prese di posizione del Papa (le critiche alla Nato, ecc.) mi sono sembrate corrispondere almeno in piccola parte a una logica di tipo politico-diplomatica. Si poteva ancora pensare allora che la diplomazia vaticana potesse tentare un ruolo di mediazione. Che a questa necessità si subordinassero talune dichiarazioni, in modo tale da tenere aperti i ponti del dialogo con il Cremlino, eventualmente passando per Kirill, non mi scandalizzò affatto. Gli eventi si sono poi incaricati di dimostrare che questa via era sostanzialmente impraticabile.

Se ora leggo il discorso tenuto da Papa Francesco all’Angelus di domenica 2 ottobre mi pare di intravvedervi una ispirazione più alta e di condividerlo totalmente. Ai critici che ci vedono nonostante tutto un rischio di indebolire gli ucraini chiedendo loro di “essere aperti a serie proposte di pace” rispetto a un Putin che, pur supplicato “di fermare anche per amore del suo popolo questa spirale di violenza e di morte”, non sembra intenzionato a deflettere dai suoi obiettivi se non di fronte alla loro pratica irrealizzabilità, rispondo: che altro dovrebbe dire un leader religioso cristiano se non quello che ha detto Bergoglio quella domenica?

“Certe azioni non possono essere mai giustificate, mai” (…) Quanto sangue deve scorrere ancora perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione (…) Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”, e così continuando nella sua condanna della guerra e nella convinzione che solo la pace è la soluzione.

La successiva “Lettera del Santo Padre al popolo ucraino a nove mesi dallo scoppio della guerra”, del 25 novembre, sembra rispondere a esigenze ancora diverse, ma non certo contrapposte. È come se a parlare fosse qui il cuore ferito di un padre che guarda al dolore di un popolo, tanto da condurlo a tagliare di netto certe discussioni, certe riserve diplomatiche, certi dubbi dottrinali, come quando dice: “Penso poi a voi, giovani, che per difendere coraggiosamente la patria avete dovuto mettere mano alle armi anziché ai sogni che avevate coltivato per il futuro”. Dove ciò che colpisce, per le controversie nostrane, è soprattutto quel “avete dovuto” che sembra richiamare ancora l’idea di legittima difesa.

In tutto ciò vedo un’ispirazione profetica, non una semplice serie di affermazioni di carattere “politico” che hanno la pretesa di dire a chi ha le responsabilità di decidere cosa deve fare domani mattina. Queste decisioni, per essere giuste, devono conservare quell’ispirazione, ma calarsi nel concreto della situazione al fine di trovare la via migliore.

L’ispirazione profetica non determina cioè univocamente le scelte politiche da fare, le ispira, ma ne lascia la responsabilità agli attori, i quali, pur sempre esposti all’errore (e al male…), sono nelle condizioni di valutare i termini del problema e hanno la preparazione per farlo.

Possiamo concludere qui, riprendendo le riflessioni su cui sta lavorando il Forum di Limena, luogo in cui sono maturate queste note, un gruppo di persone di diversa collocazione – preti, religiosi/e, laici/che – che si sforzano di esplicitare, con la prudenza che deriva dalla consapevolezza dei propri limiti, un punto di vista ricercato come cristiano sulle vicende della storia e della politica.

Profezia

Si tratta, nel caso nostro, di uno sguardo caratterizzato dal non accontentarsi di richiamare i principi senza mediazioni, come se fosse possibile attuarli integralmente nel qui e ora, ma dallo sforzo di fare i conti con le situazioni storiche concrete, con i margini di azione che consentono, con le risorse che mettono a disposizione, con le difficoltà a individuare, nell’incertezza inevitabile, le pratiche migliori.

Non è questione di contrapporre o separare profezia da politica, i “profeti” dai “politici”, ma al contrario di provare a porle e a porli in relazione. Uno dei principali problemi dei cristiani che tendono a schierarsi su questi due diversi versanti dell’impegno manifestano – ci pare – è che gli uni tendono a delegittimare gli altri anche quando (e forse soprattutto) in termini di orientamenti di fondo stanno dalla stessa parte, concordano cioè sulla stessa visione e direzione.

Per troppi “profeti” i “politici” sono sempre dei traditori, per loro ogni “compromesso” è un imbroglio, ogni mediazione un “peccato”; e d’altro canto per i “politici” i “profeti” sono degli ingenui, il loro idealismo è inefficace, il loro rifiuto di fare i conti con le situazioni storiche concrete pericoloso. I primi non aiutano i secondi a sentirsi ispirati dai principi e richiamati al bene; i secondi non aiutano i primi a capire quello che può venir posto in essere realisticamente ed efficacemente.

Così l’operare dei “profeti” rimane sterile, perché si riduce a parole astratte (noi siamo per la pace…) e quello dei politici viene indebolito, perché il loro agire non è riconosciuto come utile nemmeno dal mondo che li ha espressi.

Dovrebbero invece parlarsi e comprendere che entrambi svolgono un ruolo, distinto, che si fonda su logiche di azione e di pensiero diverse, ma entrambi utili e necessari, senza con questo doversi fondere l’uno nell’altro – non sarebbe possibile – e senza escludere il potenziale di conflittualità che è implicito in questa diversità di ruoli, ma che dovrebbe però essere tenuto sotto controllo dal rispetto reciproco e dalla comune ispirazione.

Si tratta di una linea di riflessione che pare promettente anche se difficile, su cui sembra utile lavorare. Concludo queste note con una breve citazione di Max Weber, da “La politica come professione” (1919), che serve a non dimenticare la serietà della questione, senza però che la difficoltà ci debba impedire di provarci.

“Il genio o il demone della politica e il dio dell’amore, anche il dio cristiano nella sua forma ecclesiastica, vivono in un intimo contrasto, che in ogni momento può trasformarsi in un conflitto insanabile.”


[1] Scrittore e poeta ucraino. L’Associazione editori e librai tedeschi gli ha conferito il Premio per la Pace durante la Fiera del libro di Francoforte. In quell’occasione ha pronunciato un discorso da cui sono tratte le due citazioni qui riportate. Il testo completo si può trovare su SettimanaNews del 12/11/2022.

[2] J Habermas e J. Dérrida, Dopo la guerra. Rinascita dell’Europa, in Frankfurter Allgmeine Zeitung del 31 maggio 2003

[3] Il riferimento qui era alle critiche rivolte agli americani che non si erano fatti molti problemi ad invadere l’Iraq (20 marzo 2003), accampando come giustificazione la presenza di armi di distruzione di massa, poi rivelatesi inesistenti.

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Un commento

  1. Salfi 15 dicembre 2022

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