Un Festival per portare l’economia tra la gente

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I cittadini dell’Unione Europea restano fedeli all’idea europea dei loro genitori e nonni in quanto i sovranisti – nonostante il racconto, falso, di alcuni politici – a Strasburgo non hanno certo sfondato e il nuovo Parlamento (dato positivo!) mostra sostanzialmente i medesimi equilibri. Ma c’è di più: i cittadini europei si sono recati al voto in numero maggiore rispetto al passato e la campagna elettorale, almeno all’estero, ha toccato più che altro autentici temi europei (soprattutto visto lo stallo della Brexit e la nuova politica dei dazi del presidente Trump che, tra l’altro, consiglia di aggregarsi per essere un po’ più forti).

Tuttavia, i cittadini europei mostrano altresì una grande debolezza di fondo: in un certo senso, sono inconsapevoli della propria situazione. La globalizzazione, infatti, ha portato loro molti vantaggi, così come l’essere parte della UE, ma essi restano vittime di una narrazione, di comodo, abilmente portata avanti da alcuni, soprattutto via web da parte dei soliti noti, che ha aumentato il rancore sociale e l’invidia nei confronti dei politici (da noi definiti senza mezzi termini “la casta”), accusati di non difendere i loro interessi, bensì quelli di una parte “più fortunata” dei vari Paesi.

Ciò che manca, soprattutto in Italia, è una cultura e una scolarizzazione che rendano le persone consapevoli di ciò che le circonda per non restare vittime – come di fatto accade per troppi – dei luoghi comuni e delle “percezioni” soggettive che, in altre parole, vuol dire i discorsi da bar, al mercato rionale, fino a quanto mi racconta la zia o la cognata… il tutto più spesso veicolato via social, la nuova Bibbia.

È un appello accorato a diventare “cittadini adulti” quello che è venuto dal Festival dell’Economia che si è svolto a Trento, per la 14ª edizione, dal 30 maggio al 2 giugno. Ancora una volta la “città del Concilio” è stata invasa da centinaia e centinaia di giovani e di studiosi al seguito dello “scoiattolo” arancione, l’ormai noto logo del Festival. E di arancione erano colorate le piazze e le sale dove si sono svolti gli incontri, spesso sold out (ma l’organizzazione aveva comunque previsto maxischermi per seguire da fuori gli eventi).

Numeri che parlano di voglia di partecipare e di “capire”

Tanta voglia di partecipare, di capire, di confrontarsi, di discutere riguardo ai 3 termini che costituivano il tema 2019: “Globalizzazione, nazionalismo e rappresentanza”.

Il Festival dell’Economia di Trento, anno dopo anno, conferma l’interesse del pubblico e dei media, portando alla ribalta temi di grande interesse, al centro del dibattito nazionale e mondiale, analizzati a 360 gradi e tenendo conto di tutte le diverse opinioni.

Festival Economia TN 2019

I numeri sull’edizione di quest’anno sono ancora una volta in linea con le attese, forti, delle edizioni precedenti: una serie nutrita di esperti, provenienti dalle più prestigiose università del mondo, per un totale di 204 relatori e 54 moderatori che hanno animato i 114 eventi in programma. 105 le dirette web, di cui 32 in lingua inglese, grazie alle quali è stato possibile seguire il Festival in tutto il mondo. Quasi 5 milioni le connessioni al sito del Festival, 3TByte il traffico dal sito, oltre 52 mila le connessioni alle dirette streaming, 333 tra giornalisti, operatori e fotografi accreditati dall’Ufficio stampa della Provincia in rappresentanza di 154 testate giornalistiche, cartacee o online, 290 i giornalisti effettivamente presenti agli incontri, 16 i fotografi e 25 gli operatori video. 1167 gli iscritti alla newsletter del Festival e 125 i comunicati stampa emanati nel corso dell’evento. Ben 6.000 gli scatti fotografici effettuati dai fotografi ufficiali del Festival, da cui sono state selezionate circa 2.000 foto messe a disposizione dei media. 8 le case editrici che hanno proposto i loro titoli nell’ambito di 10 “Incontri con l’autore” con 18 autori fisicamente presenti.

Un pubblico attento come sempre ha riempito costantemente i 23 luoghi del Festival: la manifestazione infatti è stata ospitata non solo nei teatri e nelle sale ma anche in 6 piazze dove sono stati allestiti stand e tecnostrutture per le dirette all’aperto, le postazioni delle 6 emittenti radiofoniche presenti e diversi altri eventi.

Un Festival che si può definire “ad alta tecnologia” (con 7 regie e 42 ore di diretta satellitare), ma che ha assunto una dimensione sempre più rilevante anche dal punto di vista dei social network: la pagina Facebook ufficiale del festival – Festival Economia Trento – ha registrato numeri di interazioni importanti con oltre 43 mila visualizzazioni di post, foto e video che hanno raccontato al popolo del web i momenti più significativi del Festival (dati insight Facebook) e, in più, 240 mila le visualizzazioni Twitter.

Mentre la segreteria sta ancora selezionando gli articoli, finora si è arrivati a 1.184 pezzi pubblicati nel mondo. 134, poi, sono le scuole superiori che hanno partecipato al concorso “EconoMia” in rappresentanza di tutte le Regioni, 56 gli studenti del progetto ALS, alternanza-scuola-lavoro che hanno collaborato nell’organizzazione e 120 gli esercizi pubblici che hanno richiesto materiale del Festival.

Un’imponente organizzazione, ormai ampiamente rodata, che si è consolidata negli anni, nonostante tutti gli attacchi di quanti erano, negli anni scorsi, all’opposizione, e che oggi, al Governo della Provincia, spacciano invece come opera propria. Ma non sono mancati, anche quest’anno, gli attacchi allo storico coordinatore del Festival, l’economista Tito Boeri, la cui riconferma per la prossima edizione 2020, da parte della Giunta provinciale, a trazione leghista, è ancora in forse.

La distanza fra realtà e percezione

Jim O’Neill, economista e già ministro del governo May nel Regno Unito, ha parlato a lungo della differenza che esiste tra realtà e percezione dei problemi, alimentata dalle informazioni diffuse dai social media. Riguardo alle soluzioni, dichiarava di non credere che la politica dei sussidi sia la risposta più appropriata al malcontento, in gran parte presunto: si deve invece puntare e investire sulle specificità di ogni determinata area.

Riccardo Fraccaro, ministro per i rapporti con il Parlamento e la democrazia diretta, area M5S, premetteva che, quando si parla di diseguaglianze, si tratta di una questione etica, e ha ricordato come le disuguaglianze abbiano effetti importanti: escludono molte persone dalle opportunità e causano anche instabilità democratica, vedi i gilet gialli in Francia (ma quanto sono stati strumentalizzati?). «Con la globalizzazione si sono ampliati i mercati di riferimento e gli effetti sulle regioni meno competitive sono stati notevoli. Servono quindi – ha detto – soluzioni nuove per supportare il reddito e la capacità delle aziende di essere competitive. La globalizzazione ha avuti effetti anche da noi».

La sua narrazione non si scosta da quella “ufficiale” del suo capo politico: in Italia pesa anche il divario tra nord e sud, che non è migliorato, senza contare i vincoli europei alle politiche di bilancio ed economiche. Per Fraccaro, un esempio di successo è rappresentato dal Portogallo, dove si evince che un forte intervento dello Stato può essere determinante per superare la crisi. «Il compito della politica – sottolineava il ministro – è riprendersi il primato nella gestione dell’economia».

Gli ha risposto Fernando Freire De Sousa, presidente della Commissione regionale di coordinamento e sviluppo al nord del paese lusitano, rilevando come in Portogallo alle (necessarie) politiche di austerità si sta rispondendo cercando di attuare un cambiamento: rispettando gli obiettivi, pensare anche alla redistribuzione delle possibilità nel paese. Anche la prossimità delle cariche istituzionali rispetto alla popolazione è considerata un elemento che contribuisce a gestire il malcontento. Il decentramento amministrativo – ha aggiunto – potrebbe aiutare ulteriormente a coprire la distanza tra le politiche centrali e i comuni per arrivare più vicini ai cittadini.

Peter Kurz, sindaco di Mannheim in Germania, ha parlato delle politiche di inclusione nella città che amministra che – aveva premesso – appartiene ad una zona benestante dove il potenziale malcontento si nota comparando i centri urbani e le periferie, ma dove è assai attivo, una costante tedesca, anche un forte decentramento. La polarizzazione in determinati gruppi etnici di alcune zone è un’altra caratteristica della città che è area di destinazione per molte persone in arrivo da lontano per via delle ampie possibilità di lavoro nelle fabbriche.

Le risposte concrete e l’utopia

«Abbiamo bisogno di un’utopia alternativa, ma realista, che risponda con proposte alternative ma sostenibili alla paura, all’angoscia e al bisogno di sicurezza socio-economica di oggi» è la convinzione espressa da Philippe Van Parijs, filosofo ed economista all’Università di Lovanio, fondatore della Basic Income Earth Network (BIEN): «Il reddito di base è la risposta al populismo nazionalista e nativista». Occorre spiegare che, per reddito di base, il professore belga intende un reddito versato da una comunità politica a tutti i suoi membri su base individuale, senza controllo delle risorse né esigenza di contropartite: con il solo obiettivo di ottenere una società più giusta.

«Il reddito di cittadinanza è un’altra cosa rispetto al reddito di base», ha affermato Van Parijs incalzato dalle domande di Dino Pesole, giornalista de Il Sole 24 Ore. «Il reddito di cittadinanza è una forma di assistenza sociale, ma si rischia la trappola della povertà, perché crea un disincentivo a lavorare; inoltre, le procedure complesse per ottenere il sussidio escludono numerose persone, mentre la burocrazia assorbe una parte importantissima della spesa totale». Come dire: sono entrambe forme di reddito minimo garantito, ma il reddito universale è strettamente individuale, indipendente dalla situazione familiare, pagato ai ricchi come ai poveri, senza obbligo di essere disponibili sul mercato del lavoro.

E in più: per sostenere la misura, sarebbe quanto mai opportuno (lui diceva addirittura «necessario») riformare il prelievo fiscale nazionale. E, riguardo al legame del reddito universale con il populismo: «Il trionfo del populismo è un disastro, sia dal punto di vista economico sia per i diritti umani, ma la sola minaccia è salutare per la democrazia perché altrimenti le élites tendono a dimenticare gli interessi delle persone diverse da loro. Allo stesso modo, il nazionalismo può avere riflessi positivi in chiave patriottica, utili al funzionamento di qualsiasi entità democratica». Di fatto, a suo avviso, certe forme di populismo sembrano essere favorevoli alla diffusione del reddito di base: lo Scottish National Party e il Partito indipendentista catalano, per fare un esempio, sono realtà molto interessate a questa formula.

Utopia

«L’automatizzazione, assieme alla globalizzazione, porta a una polarizzazione del potere di acquisto, con una parte sempre più grande della popolazione che si sente in una situazione di precarietà. Ecco perché sviluppare una rete di sicurezza può servire» a mantenere una democrazia non conflittuale. Guardando poi alle cifre, il reddito di base per Van Parijs andrebbe inserito a un livello economico sostenibile: più dei 200 euro del reddito di inclusione ma ben al di sotto dei 780 (promessi!) del reddito di cittadinanza.

A sostegno della sua utopia, lo studioso belga evidenziava come il reddito universale (molto simile al Rei) non sia solo uno strumento di lotta contro la povertà, ma appaia rilevante come sostegno alla coesione sociale e come appoggio al life long learning in quanto «permette una circolazione più fluida tra lavoro, formazione e volontariato. Non è un effetto automatico: serve infatti una rivoluzione creativa e critica del sistema educativo». E, a conclusione, un’idea tutta sua: «Si potrebbe creare un Euro-dividendo pagato a ogni cittadino dell’Unione».

Nando Pagnoncelli, noto sondaggista presidente dell’IPSOS, illustrava le nuove tendenze elettorali: «La fiducia degli italiani rispetto all’Europa è minore rispetto ad altri paesi, ma il 62% riconosce che l’appartenenza sia un vantaggio importante. Gli aspetti negativi segnalati dagli italiani riguardano soprattutto la burocrazia, ma c’è forte domanda di più Europa su temi come l’immigrazione, lavoro e sviluppo economico».

Nadia Urbinati, filosofa e politologa, docente alla Columbia University NY, analizzava il rapporto tra élite e popolo “Un conflitto utile”, spaziando dall’antica Grecia a Machiavelli fino a John Stuart Mill, il filosofo del liberismo economico ottocentesco.

«Conflitto è un termine a lungo rimosso, negato, e infatti oggi non compare tra le parole più usate nei media e nei dibattiti, a differenza di sicurezza, democrazia, ambiente» sottolineava nella sua introduzione il giornalista di Repubblica Roberto Mania, aggiungendo che oggi, almeno in apparenza, il politically correct sembra rifuggire il conflitto: «Diciamo che non ci sono più destra e sinistra; che non esistono più operai e padroni; a causa della debolezza di sindacati e partiti sono scomparsi i conflitti collettivi. Oggi la linea di divisione è l’economia: la scomparsa del ceto medio e il rancore che nasce dalle disuguaglianze».

E Urbinati confermava: «C’è sempre stata un’opposizione, un conflitto tra pochi e molti. I pochi sono le élites unite da stili di vita, istruzione elevata ed esclusiva, abbigliamento, residenza in determinati quartieri. I molti sono dappertutto e capiscono che l’uguaglianza è solo una finzione. C’è uguaglianza politica in democrazia, ma non per questo esiste una corrispondente uguaglianza economica o di opportunità. È praticamente questo scollamento tra princìpi dichiarati e vissuti ad originare il rancore, il malcontento, o, in fin dei conti, quello che ormai chiamiamo populismo». Il populismo diventa così un’autentica strategia politica, una sorta di «monarchia popolare» in cui il popolo diventa tutt’uno con il monarca o, quantomeno, vorrebbe diventarlo.

Alternative? Per Urbinati, si tratterebbe di attivare «forme organizzative alternative da parte delle masse». Come del resto sono, per definizione, i partiti, anche se ormai questi sono passati dal costruire una vera partecipazione a gestire una leadership. «Eppure il conflitto – concludeva Urbinati – è il sale della vita pubblica e della libertà. Perché i pochi che hanno un desiderio quasi erotico, come lo definiva Platone, del potere, sono controllati dai tanti che puntano alla tranquillità dei loro possessi. Questa tensione non è una iattura, perché è da questa mancanza di fiducia che nasce la democrazia. La libertà è opera di molti, perché è la maggioranza dei cittadini ad essere diffidente del potere e quindi a creare regole di controllo».

La crisi della sinistra occidentale

La sua forte critica ai partiti ha costituito la riflessione da cui ha preso le mosse il giornalista Federico Rampini, uno dei testimoni che sono stati presenti a tutte le 14 edizioni del Festival, il quale ha parlato, senza fare sconti, del “fallimento della sinistra in Occidente”. Una critica a tutto campo alle idee della cosiddetta “sinistra radical-chic”, quella di Rampini, che si è focalizzato soprattutto sul tema dell’immigrazione, a suo avviso dipinta un po’ troppo superficialmente come una risorsa e una ricchezza, quando già Marx nell’800, analizzando la grande migrazione dall’Irlanda, ne aveva messo in luce gli effetti negativi sulle classi popolari dei paesi di accoglienza, in particolare riguardo all’abbassamento dei salari causato dall’arrivo di ingenti quantità di manodopera a basso costo.

Da parte sua, anche uno stimolo oltremodo interessante: la necessità di una rivisitazione del concetto di “nazione” (da non gettare alle ortiche per abbracciare acriticamente il globalismo): «La nazione è stata la culla delle democrazie moderne, mentre ogni volta che ci si allontana da questa dimensione per abbracciare il “sistema-mondo” qualcosa, in termine di partecipazione democratica, finisce inevitabilmente per andare perduto».

Significativo il cenno al tema del riscaldamento globale, di fondamentale importanza, ma la cui risposta, a suo avviso, non può certo essere, almeno qui in Italia, “il modello californiano”, che evidentemente non è (o non viene presunto) alla portata di tutti, ma solo di ristrette élites (la rivolta dei gilet gialli francesi contro l’aumento della benzina, a scopo ambientale, ne è una bella dimostrazione; i mezzi pubblici in periferia non vengono accettati con entusiasmo come invece un allungamento della metro in città… e del resto l’auto, per le classi più basse e meno acculturate, resta ancora oggi uno status symbol).

«Ho iniziato a fare il giornalista ai tempi di Berlinguer – confessava Rampini –, quando sinistra e popolo erano in qualche modo la stessa cosa. C’era un’evidente capacità da parte del Partito Comunista (allora la sinistra era incarnata dal PCI) di interpretare gli interessi e i valori di una parte consistente del popolo italiano. Oggi non è più così e, purtroppo, non solo in Italia. La socialdemocrazia tedesca è quasi scomparsa, e così pure, come vediamo, il partito socialista francese. È un evento sconvolgente: il popolo finisce per votare a destra. C’è una spiegazione consolatoria: il popolo può sbagliare e, di fatto, sbaglia. Si lascia tentare, in particolare, da chi parla alla pancia, alle emozioni. È un vizio tipico dell’intellettuale di sinistra ragionare così e spiegare così le cose. In realtà, il popolo ha capito bene che la sinistra ha smesso di rappresentare i suoi interessi. Quando vado a parlare all’America profonda, operaia, che aveva votato Obama e poi ha votato invece Trump – parlo dell’America “di mezzo”, quella che la sinistra, oggi radical-chic, di solito ignora – mi dicono: “non siamo noi ad avere abbandonato la sinistra, è la sinistra ad avere abbandonato noi”». Un mantra che i social veicolano, per interesse di bottega, a piene mani.

Populismo

Anche il giornalista Massimo Mazzalai aveva ricordato la riflessione del presidente della Provincia autonoma Maurizio Fugatti, all’indomani dell’esito dell’ultima tornata elettorale che l’ha portato a guidare la Giunta trentina, prima volta nella storia dell’Autonomia voluta da Degasperi e Gruber: «La sinistra critica il governo, ma non si fa carico delle richieste del popolo». Un’affermazione, vera o presunta che sia, ma che, di fatto, ha orientato il voto in cabina elettorale, sia in ottobre (elezioni provinciali a Trento) che a maggio (ultime europee).

Rampini portava, ad esempio, una figura emblematica, quella del presidente socialista francese François Maurice Adrien Marie Mitterrand (all’Eliseo dal 1981 fino al 1995). La sua epoca si ricorda ancora oggi come caratterizzata da un “rifiorire” del centro di Parigi, diventato ancora più nuovo, attraente, scintillante, con la costruzione del nuovo museo D’Orsay e il Gran Louvre, ma… nel frattempo nelle periferie la classe operaia ha iniziato a votare Le Pen. Perché mai?

Un tema fondamentale, senza dubbio, è quello dell’immigrazione, riconosceva Rampini. «Fa sorridere che una parte della sinistra oggi applauda Macron. Macron è un sovranista: per lui gli immigrati non devono passare la frontiera di Ventimiglia e lo stesso vale per l’Austria di Kurtz (oggi non più premier, ndr). Ma a chiudere per prima i confini è stata Angela Merkel, non Salvini, incalzata da una parte dell’opinione pubblica che rifiutava la politica delle frontiere aperte. Perché dobbiamo ammettere che la promessa fatta da alcune élites che la società multietnica sarebbe stata un paradiso in terra non è che una falsa promessa. L’integrazione è “sempre” stata un problema. Naturalmente gli immigrati impiegati nei servizi pubblici di basso profilo o nelle pulizie domestiche fanno comodo a un certo ceto sociale, ma chi ne paga le conseguenze è chi vive nelle periferie. ù

Angela Merkel a un certo punto ne ha preso atto: ha cambiato politica e ha fatto l’accordo con Erdoğan  (per chiudere la rotta balcanica). Se si guarda anche la mappa della Brexit in Inghilterra, si nota che essa ha sfondato nella periferia, non nelle grandi città. Un classico».

Il tema dell’accoglienza dei migranti è troppo rovente, troppo divisivo, oggi – secondo Rampini –, al punto che «per affrontarlo in maniera meno viscerale bisogna guardare al passato. Ad esempio, alla catastrofica emigrazione dall’Irlanda, nell’800, a seguito della famosa carestia delle patate. Un’isola che aveva 4 milioni di abitanti ne perse per fame un milione (tasso di mortalità del 25%). Un altro milione decise di emigrare, per disperazione. Oggi chi pensa agli irlandesi d’America pensa a storie di successo: i Kennedy, i Ford, i Disney… Ma all’inizio non fu affatto così: negli USA gli irlandesi vennero accolti malissimo. Come, del resto, anche gli italiani (quelli con la valigia di cartone, i cui discendenti oggi, alla richiesta se il loro cognome riveli una provenienza, preferiscono negare).

E non solo per le differenze culturali: perché questi irlandesi disperati erano pronti a lavorare ad ogni condizione, come anche gli italiani, poverissimi e sempre sottopagati. Marx riconobbe con acume il problema e scrisse pagine memorabili sulle migrazioni. Che la sinistra fa finta oggi di non vedere. I capitalisti hanno sempre voluto le frontiere aperte, perché significano disponibilità di manodopera a basso costo. È vero che gli immigrati fanno solo i lavori che gli italiani non vogliono più fare? Solo in parte. È vero forse per chi fa la raccolta di pomodori in condizione di semischiavitù. Ma, se si guarda alla totalità dei lavori, si registra ciò che sapeva anche Marx: l’immigrazione riduce i salari dei residenti. Poi, certo, il PIL può crescere anche grazie agli effetti delle migrazioni.

Ma a scapito di chi? Per quanto riguarda le pensioni, l’immigrato non sta pagando le nostre pensioni; se è regolare, sta alimentando, come tutti, il nostro sistema pensionistico, di cui dovrebbe beneficiare anche lui, se rimarrà qui e se un giorno andrà in pensione nel paese che lo ha accolto. Se guardiamo al tema delle pensioni sul lungo periodo, le immigrazioni non risolvono affatto il problema. A meno di non continuare ad alimentare per sempre l’immigrazione. E non è detto che il popolo sia d’accordo nel fare questo». È questo il punto: il popolo vuole vedere subito gli effetti positivi, non sa aspettare, né intende farlo, perché non gli conviene.

Tuttavia esiste anche un’altra sinistra: ad esempio quella roosveltiana, che ha creato un welfare nuovo e moderno, che ha rafforzato i diritti dei lavoratori e i sindacati, che ha tassato di più i ricchi. «Ma quell’America è nata quando le frontiere erano già state chiuse. Più tardi, a partire dalla metà degli anni 60, le regole sono cambiate, il flusso migratorio in America è tornato a crescere, si sono aperte le frontiere. Contemporaneamente, sono iniziati lo smantellamento del welfare state, l’indebolimento dei sindacati, la crescita esponenziale delle disuguaglianze. Fino ad arrivare all’America di oggi che ha votato Trump, e dopo Obama, campione dell’uguaglianza neri-bianchi e dei diritti civili».

Quale può essere allora la lezione storica? Per Rampini le società più coese e omogenee sono quelle meno diseguali, quelle più multietniche sono anche le più diseguali: è accaduto negli USA e sta accadendo, oggi, in Svezia, un paese dove l’immigrato che arrivava nel Paese acquisiva immediatamente tutti i diritti dei residenti, che quel sistema di welfare avevano contribuito a creare, per generazioni, e i residenti hanno cominciato a scocciarsi. Perché mai uno straniero, venuto da chissà dove, dovrebbe godere dei diritti che mio nonno mi ha faticosamente lasciato in eredità?

Rampini ha anche messo in guardia rispetto ad una visione dell’islam che minimizza le spinte reazionarie e “medioevali” presenti in seno a quella religione: ne discende un recupero anche del tema della nazione, che la sinistra ha sposato quando si trattava di rapportarsi ai tibetani, ai curdi, ai palestinesi, ovvero ai popoli privi di nazione, ma che invece ha abbandonato alla destra quando si guarda all’Europa, a casa propria. «La democrazia è fiorita all’interno della nazione – ha detto – mentre, quando si va verso il globalismo, qualcosa si perde. Se vogliamo che Trump continui a governare per molti anni smantelliamo tutti i confini. Ma attenzione: anche chi emigra crede nei confini. Infatti, vuole stare dalla parte giusta del confine, dove c’è o dove spera di trovare sicurezza, legalità, lavoro».

Il tema dei cambiamenti climatici, poi, secondo Rampini, è a tutti gli effetti uno dei problemi fondamentali, tuttavia è sbagliato affrontarlo proponendo in alternativa un ambientalismo per “super-ricchi”, che sacrifica i diritti dei lavoratori sull’altare di un “modello californiano”, evidentemente non alla portata di tutti.

Festival Economia TN 2019Sulla stessa lunghezza d’onda di una riconosciuta “miopia” dei partiti tradizionali, con particolare riferimento a quelli di sinistra, anche il professor Francesco Giavazzi – ordinario alla Bocconi ed editorialista del Corriere della Sera, già dirigente al Ministero dell’Economia e al lavoro al MIT di Boston –, che ha analizzato le tendenze politiche verso un populismo di destra e tendenze social dei cittadini, influenzate dal clima di insicurezza e di paura prima e dopo gli attentati terroristici.

Una sua ricerca, condotta sui post di Twitter, ne ha permesso la rappresentazione statistica. In che modo gli attentati terroristici degli ultimi anni hanno avuto effetto sulla variazione dell’opinione pubblica verso i partiti di estrema destra? E ancora: come questa percezione ha condizionato il voto politico?

La sua, per molti versi innovativa, ricerca, ha analizzato in chiave statistica e matematica le tendenze social dei cittadini tedeschi su Twitter, per antonomasia il canale più vicino all’informazione e all’immediatezza della voce della politica. Motivo dell’indagine era scoprire se esiste una relazione – e in caso affermativo attraverso quale formula rappresentarla – tra gli attentati terroristici e l’orientamento dei cittadini verso il partito Alternative für Deutschland, abbreviato AfD (Alternativa per la Germania), un partito politico tedesco euroscettico la cui collocazione politica è descritta come di destra o di estrema destra e che ha vinto le elezioni politiche tedesche nel 2017, ed è responsabile degli attentati terroristici che in Europa e nel Mondo hanno influenzato il sentimento popolare e, di conseguenza, orientato il voto.

Rappresentati tramite grafici matematici, linee, angoli e tendenze, i risultati confermano che lo stretto legame esiste, condizionando in un certo modo l’andamento politico in Europa e non solo. Una ricerca di tal genere impiega enormi risorse, soprattutto in termini di tempo perché, per scaricare tutti i dati social da Twitter, ci vogliono almeno due anni, più il tempo di inserirli in computer e l’analisi delle tendenze.

Ma, dall’analisi di questi dati social, è forse possibile prevedere il risultato elettorale? Giavazzi – dal 1992 al 1994 dirigente generale del Ministero dell’Economia e responsabile per la ricerca economica, la gestione del debito pubblico e le privatizzazioni – è assolutamente convinto di un risultato comunque “parziale”, portando l’esempio dalla sua ricerca in Germania: «Statisticamente questo indicatore in chiave elettorale è significativo per l’1%  che, se pur una piccola percentuale, ha pur sempre il suo peso. Una metodologia di analisi che è certamente riproducibile e replicabile anche altrove». Del resto non è un mistero che, dopo l’11 settembre, in USA la destra abbia continuato a rafforzarsi.
Ad ogni modo ciò che appare con sempre maggiore chiarezza è che la politica si stia sempre più appropriando di questi strumenti per orientare il voto. «Non è un segreto che politici molto populisti, a cominciare dal Presidente Trump, siano assolutamente in linea con questa tendenza molto social, e di seguito il loro staff per la campagna elettorale e propaganda politica».

Non è un caso se l’ultimo aggiornamento per giornalisti del Trentino Alto Adige – promosso più che opportunamente dalla locale sezione dell’Unione Cattolica della stampa, UCSI – abbia affrontato proprio questo tema sottolineando come i politici populisti intendano sempre di più “dettare” l’agenda al mondo dell’informazione che, invece, dovrebbe riappropriarsene. Un tweet di Trump o di Salvini finisce inevitabilmente per orientare il discorso della giornata come (caso eclatante) aumentano a dismisura gli introiti pubblicitari quando un giornale online inserisce dei video del conflitto di turno avvenuto in TV la sera prima: gli utenti guardano subito avidamente e la pubblicità ormai lo sa bene (c’è chi vive di YouTube, soprattutto gli adulti con bassa scolarizzazione e.. molto tempo libero!).

Il rischio di tutto questo è che prima o poi questi dati possano essere strumentalizzati: canali social come Facebook hanno già attivato dei meccanismi per impedire di scaricare i dati delle preferenze degli utenti. Twitter non lo ha ancora fatto. Armandosi di santa pazienza e di strumenti adeguati, non sarà difficile elaborare linee di tendenza, seppur dell’1%, tra sentimento popolare, fenomeni importanti come il terrorismo, e inclinazione politica dei cittadini a favore di un populismo – di questi tempi – di destra.

L’incontro, avvenuto nella seconda giornata del Festival dell’Economia di Trento, è stato moderato dalla giornalista del Corriere della Sera Paola Pica in una Sala Filarmonica particolarmente affollata di giovani studenti, molto attivi sui social, ma sono i loro genitori che, per apparire moderni e “in”, affollano la rete e si alimentano da lì (i giovani hanno abbandonato FB quando sono approdate le loro famiglie, per controllarli, e sono ben presto passati a Instagram dove una foto vale più delle parole…).

Misurare la povertà

Ma, se tutto è “percezione” (eppure si misurano i flussi di voto…), quando parliamo di povertà, cosa intendiamo realmente? In altre parole: cos’è la povertà e come si misura? Alla domanda ha tentato di rispondere Andrea Brandolini, responsabile del Servizio analisi statistiche della Banca d’Italia, esperto della distribuzione del reddito e della misurazione del benessere dei cittadini. A partire dal celebre libro Measuring poverty around the world dell’economista recentemente scomparso Anthony Atkinson, ha voluto fornire una risposta, se pure parziale e, per certi versi, soggettiva, ad uno dei più seri problemi dell’umanità, sia abitanti nei Paesi ricchi sia in quelli in via di sviluppo.

A fianco della docente di Scienze delle finanze a “Roma Tre”, Elena Granaglia, e del collega di Economia politica a “Tor Vergata”, Giovanni Vecchi, Brandolini ha evidenziato la necessità di trovare strumenti di misurazione più efficaci dell’indigenza così da aumentare la consapevolezza dei governi, spingere all’azione e imboccare giuste politiche riformiste, che poi sono quelle che ci chiede la Commissione Europea, a noi, come a tutti governi della UE.

Festival Economia TN 2019

Eliminare la povertà del mondo è il 1° degli Obiettivi di sviluppo sostenibile individuati dall’ONU nell’arco degli anni e sottoscritti da tutti gli Stati. Nell’incontro, moderato dalla giornalista Tonia Mastrobuoni, Brandolini ha dichiarato: «Il libro è uscito incompleto, e noi non potevamo pretendere di prendere il posto di Anthony». In qualità di incaricato dallo stesso autore di rendere pubblicabile il testo, presentato in anteprima al Festival dell’Economia a cura dell’editore, la Princeton University Press, sottolineava: «La misurazione della povertà globale deve essere mondiale, compresi i Paesi ricchi: è questa una delle principali raccomandazioni, per niente scontata, che si trovano nel volume. Inoltre, è necessaria l’integrazione sistematica tra statistiche nazionali e globali», aggiungeva anche forte della sua esperienza in Bankitalia.

Dal canto suo Elena Granaglia ricordava quella che ha definito «la lezione morale sui dati di Atkinson»: «Da un lato, i dati vengono citati senza interrogarsi troppo su che cosa ci dicono veramente. Dall’altro, c’è diffidenza verso i dati, come fossero delle opinioni» (un po’ la debolezza di oggi dove non si crede più al principio di autorevolezza e, a forza di sentire il discredito dei cosiddetti “professoroni” o, anche peggio, dell’affermazione acritica dell’equazione “uno vale uno”, ciascuno si sente autorizzato, come si diceva all’inizio, a parlare o a pontificare di ciò che lui e solo lui ritiene la verità). Eppure, nonostante problemi e parzialità, sono proprio i dati (e gli studi su di loro) ad essere centrali per qualsiasi politica riformista, è la tesi di Granaglia.

Giovanni Vecchi di Tor Vergata ha spiegato invece come la povertà economica in Italia abbia due facce, complementari tra loro: quella relativa, riferita al livello economico medio di vita dell’ambiente, e quella assoluta, legata alla semplice sopravvivenza. Quella assoluta riguarda 5 milioni di persone, ovvero l’8,5%. Quella relativa invece tocca 10 milioni di italiani. «Non possiamo prendercela solo con i governi. Noi tutti abbiamo perso di vista le parti marginali della popolazione», la sua conclusione.

L’incomprensibile pensiero economico

Ma se i politici sembrano (finalmente) mettersi alla scuola degli esperti, al fine di riconoscere errori commessi e orientare la direzione futura, come si può fare per “educare” la popolazione, intesa come quanti finiscono per scegliere i loro rappresentanti in Parlamento? Non si tratta di orientare al voto, ma di rendere le persone consapevoli di ciò che fanno, fornendo loro “conoscenza” e “cultura”.

Un’impresa non facile, almeno per quanto riguarda il pensiero economico che appare ai non addetti ai lavori, sempre più incomprensibile. Perché, se è vero che moltissimi sono coloro che hanno incontrato nel corso dei propri studi i classici della letteratura o della filosofia, è assodato che gli autori economici restano assolutamente sconosciuti, anche alla maggior parte dei ragazzi di oggi.

Un motivo in più per accogliere come interessante quella sorta di viaggio nella mente umana per cercare di capire come funziona la comprensione nei confronti delle materie economiche studiato da David Leiser, docente di psicologia economica all’Università Ben Gurion di Negev (Israele).

Lo studioso israeliano è riuscito a catturare l’interesse dei presenti all’incontro di palazzo Geremia con un’accattivante presentazione dei suoi studi focalizzati sul modo in cui i “profani” possono comprendere le questioni più complesse, o, per dirla con Paolo Mantovan, da poche settimane neo-direttore del quotidiano locale Trentino, la cosiddetta “fenomenologia della pancia”.

«Esiste una mutua incomprensione tra la gente e gli economisti e le radici di questa incomprensione sono molto profonde», ha dichiarato David Leiser, prendendo le mosse dal fatto che l’essere umano non è “costruito” per comprendere la complessità del mondo moderno, anzi è cognitivamente carente in alcune skill. «Esiste una mancata corrispondenza tra il nostro bagaglio cognitivo e il principio del pensiero economico, che è intrinsecamente complesso», ha aggiunto, da psicologo, Leiser.

Interessante una ricerca nella quale si è chiesto a un campione di persone se volessero o meno aumentare la spesa su un determinato capitolo (salute, istruzione, ambiente): la maggioranza si è detta favorevole. Quando però si chiede loro di aumentare le tasse, pochi saranno d’accordo. «Non è che la gente non capisca che i soldi vanno presi da qualche parte, ma la loro mente è programmata a gestire gli argomenti singolarmente». In controtendenza, un referendum in California è andato proprio in questa direzione: i repubblicani chiedevano di abbassare le tasse che avrebbero consentito di sistemare le strade e la gente ha votato democratico per affermare un diritto ad avere una viabilità sicura, pur sborsando adeguate finanze di tasca propria.

Inoltre, la mente umana si affida a dei trucchi, come l’euristica del “good-beget-good” (il bene causa il bene) che li porta ad assemblare cose positive e negative separatamente. Gli economisti, al contrario, devo predire le traiettorie, guardare a dati aggregati e agli equilibri. «L’economia è basata sul meccanismo del trade off, ovvero sulla relazione tra due variabili. Questo le persone non lo capiscono così come non capiscono che una politica economica non è frutto di una notte insonne di chi governa» o, almeno parlando di casa nostra, non dovrebbe esserlo.

Festival economia TN 2019

Come si può colmare quindi questo gap? Per Leiser l’economia deve espandersi includendo studi quantitativi su come cambiare la narrativa popolare. Inoltre, va sviluppato negli individui, ancora in età evolutiva, un apprezzamento per la complessità. In altre parole: forniamo cultura a chi può assimilarla, prima che sia troppo tardi e la gente finisca per bere, acriticamente, tutto quello che le si propina, magari in malafede.

Un esempio a questo riguardo è stato presentato da Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e politologo, che ha analizzato le “relazioni pericolose” che animano i rapporti tra Stati e globalizzazione e tra politica (parlamento) e web (e social network).

Incalzato dai giornalisti, Annalisa Cuzzocrea di Repubblica e Pietro Del Soldà, voce di RAI3, il professor Cassese si è destreggiato, tra ironia e sincerità, non senza un grande ottimismo, tra futuro, speranze, egoismi, condizionamenti mediatici, mercati, democrazia, rappresentanza politica. «La globalizzazione è un ombrello che ci è utile. Chi contesta l’Unione Europea dice che c’è poca Europa, ritenuta troppo debole, ma c’è anche chi ritiene che intervenga negli affari interni, come il nostro debito pubblico. Ricordiamolo bene il debito ce l’abbiamo e ce lo teniamo stretto, ma non con l’Europa, piuttosto con chi ci finanzia. E le regole che ci impongono di rispettare i rischi dell’indebitamento pubblico li abbiamo già nella nostra Costituzione, prima che nei Trattati europei”.

Nessuno può farcela da solo e il web è solo un’utopia

«La globalizzazione è frutto delle scelte degli stati. I duemila regimi di negoziazione internazionale sono lì a dimostrarlo». Cassese ha tracciato l’inevitabilità della globalizzazione, dato che un singolo Stato non può affrontare i cambiamenti climatici, persino gli Stati Uniti da soli non possono pensare di fronteggiare un terrorismo diventato – appunto – globale. «L’Unione Europea è un necessario condominio più vasto». Che, per Cassese funziona addirittura meglio degli USA: «I Paesi europei condividono una certa concezione della vita, rifiutando la pena di morte. Gli Stati Uniti, su questo, sono assai divisi».

L’Europa mostra due anime – diceva il politologo –: una intergovernativa e una strettamente comunitaria. Se è lite, il governo europeo e il popolo sono oggi messi in contrapposizione, ma questo perché, ad essere in forte crisi, sono i partiti, non il modello europeo. Solo un raffronto: negli anni Cinquanta, con 10 milioni di abitanti in meno, in Italia gli iscritti ai partiti erano otto volte tanti rispetto a quelli di oggi. Ma erano i partiti a tenere i rapporti tra stato e società, tra palazzo e piazza, tra stato legale e stato reale: oggi ci raccontano e, molti ci credono, che la rappresentanza non ha più alcun valore e che a decidere deve essere il popolo. Ma come si fa a delegare decisioni a chi non ne ha le competenze? La democrazia rappresentativa era nata proprio per questo… e quella cosiddetta “diretta”, mostra sempre di più le proprie crepe…

Cassese considera positivo il fatto che l’8% di cittadini partecipi attivamente alla politica, contro un 70% che lo fa passivamente. Tuttavia, occorre offrire nuove idealità politiche perché «c’è l’humus, ma mancano le sementi».

Il futuro e sulla politica rinascerà nel web? Per Cassese i governi oggi preferiscono mostrare pericoli, alimentano paure (anche infondate, se restiamo ai dati forniti da magistratura e forze dell’ordine: sicurezza, immigrazione, a dispetto di dati tutt’altro che preoccupanti) e non stimolano mai le speranze. Il futuro una volta era considerato migliore, oggi, semplicemente non c’è. Soprattutto in Italia, la politica finisce per convincere la gente di vivere in un paese peggiore di quello che è. «Riguardo al web auspico che non si manifesti nessuna censura pubblica e non trovi mai spazio l’intolleranza privata. Certo, servono gli anticorpi per capire cosa è vero e cosa è menzogna.

All’opinione pubblica, su web e social, i politici dicono ciò che la gente vuole sentirsi dire e lanciano slogan intorno ai quali coagulare il consenso di comodo. È un dialogo molto superficiale. Il Movimento 5 stelle è l’emblema stesso di un paradosso: invoca il popolo tutti i giorni e poi a decidere è una platea ristrettissima sulla piattaforma Rousseau» dove, sottolineava il garante per la protezione dei dati personali, Antonello Soro, nei giorni scorsi, tutto è profilato e nessuno può immaginare neppure lontanamente di esercitare una vera libertà che il proprio click farebbe ritenere (da qui i presunti “plebisciti”).

Il “terzo pilastro”

In questo panorama esiste però un’àncora di salvezza: è quella che l’economista indiano, Raghuram Rajan, ex capo economista del Fondo monetario internazionale ed ex governatore della Banca centrale indiana, ha indicato nel suo ultimo libro dal titolo Il terzo pilastro: sua la ricetta per riequilibrare i tre pilastri che garantiscono il buon funzionamento della società (stato, mercato e comunità). Ora, se stato e mercato, ci sono davanti agli occhi, quella che manca, e alla grande, è proprio la comunità (che non è il popolo!).

Festival economia TN 2019Per oltre 60 anni, ha funzionato portando prosperità e benessere, anche se non a tutti gli abitanti del pianeta, ma oggi il capitalismo vive la sua transizione più difficile e, a metterlo in crisi, sono stati proprio lo strapotere dello stato e del mercato rispetto alla comunità, troppo spesso dimenticata. Negli ultimi anni stato e mercato si sono sviluppati in modo abnorme a discapito della comunità (con connotati e conseguenze diverse), diceva l’economista indiano. Le comunità hanno sofferto profondamente le crisi e le forze destabilizzanti come la rivoluzione tecnologica e la concorrenza commerciale globale. La chiave per uscire dalla crisi può essere solo un “localismo inclusivo” capace di riequilibrare i poteri.

A detta degli economisti presenti, la sua tesi non è priva di fascino: lo stato garantisce sicurezza e giustizia, il mercato è in espansione e offre ai consumatori opportunità di scelta e prospettive di maggiore prosperità. Eppure la comunità è rimasta indietro, laddove invece può essere l’unica in grado di colmare le lacune lasciate da stato e mercati (si pensi al giovane disoccupato che torna a casa, nella più piccola delle comunità, la sua famiglia).

Ma c’è di più: i cambiamenti – in particolare quelli legati alla rivoluzione portata dalle nuove tecnologie – hanno determinato una maggiore polarizzazione nelle comunità: per essere più chiari, quelle più esposte alla concorrenza di prezzo delle merci straniere hanno perso posti di lavoro a reddito medio e si sono avviate verso un progressivo declino, mentre per il ceto medio-alto si è aperta la possibilità di competere su base meritocratica e di competenze per impieghi da sogno in aziende “superstar”.
Come indispensabile “contrappeso” di stato e mercato, secondo Rajan, occorre sviluppare le comunità reali a discapito di quelle immaginate, per arrivare ad un “localismo inclusivo” essenziale per la rinascita delle comunità. La comunità deve essere inclusiva e permeabile alle idee esterne, mentre lo stato e il mercato devono abbassare i loro muri così da offrire a tutti migliori opportunità. Il potere dovrebbe tornare dagli organismi internazionali alle nazioni e, nei singoli paesi, dal livello centrale alle comunità, in un processo che può essere agevolato proprio da una delle forze che hanno contribuito alla crisi.

La ricerca dell’equilibrio è un processo molto complesso, commentava l’economista Pier Carlo Padoan, ex ministro dell’economia nei governi Renzi e Gentiloni. Questo perché «stato, mercato e comunità vivono essi stessi cambiamenti e dinamiche interne, dettati da tempistiche molto diverse tra loro: rispetto al mercato, stato e comunità sono fisiologicamente più lenti. Politica e decisori devono giocare un ruolo di primo piano nella ridefinizione di questo equilibrio globale, ma possono farlo solo se capaci di concentrarsi sui cambiamenti economici strutturali di lungo termine». Secondo Padoan, l’orizzonte temporale di chi decide le politiche economiche è spesso limitato e concentrato sull’immediato, tuttavia, di fronte ai cicli economici che sono per loro natura “lunghi” e soprattutto “lenti”, è quanto mai doveroso impostare cicli di riforma a lungo termine.

Luigi Guiso, economista, concludeva la riflessione a tre indicando come la comunità abbia spesso pagato perché subiva l’effetto forte degli equilibri di potere tra stato e mercato. La ricetta? Di fronte a comunità locali impoverite, dove emergono tensioni sociali, servono nuove politiche capaci di trasformare il sistema sociale e il welfare per affrontare al meglio lo shock di un cambiamento che spesso distrugge il capitale umano. Il sistema del welfare allora dovrà essere, di fatto, resiliente e capace di preparare il capitale umano alla crisi (preservandolo), per poi recuperarlo dopo la crisi.

Tra il dire e il fare… era il commento di qualcuno dei presenti, nonostante tutti fossero però consapevoli che, per portare il mondo occidentale fuori dalle secche in cui si è arenato, sia necessario acquisire almeno le basi per orientarsi nel campo dell’economia.

Tutto sommato, è questo uno degli obiettivi che hanno fatto nascere, 14 anni fa, l’idea di un Festival dell’Economia a Trento, un’iniziativa lanciata dall’editore Laterza e da alcuni economisti del Dipartimento trentino, come Francesco Borzaga e Paolo Collini, attuale rettore, e soprattutto subito accolta e sponsorizzata, perché evento dichiaratamente culturale, dall’amministrazione provinciale di allora guidata da Lorenzo Dellai (presidente della Provincia di Trento dal 1999 al 2012), nonostante tutti i paletti e i bastoni alzati in questi anni dalle opposizioni, oggi al governo. In attesa dell’edizione n. 15 prevista per il 2020.

«Ovvio che si dovrà discutere non solo di Tito Boeri, che è all’ordine del giorno e che non è detto che resti al suo posto, ma di tutta l’organizzazione», aveva specificato l’attuale presidente Maurizio Fugatti, leghista, al termine dell’edizione 2018 e, sembra che questa sia ancora la considerazione di queste settimane…

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