Verso un’Italia multicolore

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Ius soli

Che il caso dell’attuale disputa sul conferimento della cittadinanza in base allo ius soli o ius sanguinis sia un tema complesso e privo di soluzione automatica ne danno dimostrazione sia le tante varianti approntate nei diversi Paesi, che l’acceso dibattito innescato dalla presentazione in Senato di una formula già approvata dalla Camera e orientata allo ius soli “temperato”. Secondo una ricerca della Fondazione Leone Moressa, la riforma darebbe in tal modo diritto di cittadinanza a circa 800 mila ragazzi (ossia all’80% dei minori stranieri residenti) e porterebbe circa 60 mila “nuovi italiani” ogni anno.[1]

Una società che cambia

Se ci troviamo ad affrontare una partita dalle notevoli ricadute sotto il profilo demografico, sociale e culturale, è per il fatto che siamo ormai incalzati dai mutamenti di una società – la nostra – che, come altre, è stata investita solo di recente dal fenomeno immigratorio. Pur inferiore quanto a consistenza rispetto ad altre nazioni, tale flusso sembra però qui da noi minare l’immagine di una società che si sforzava di pensarsi omogenea, mentre, di fatto, i vari provincialismi e regionalismi vi hanno da sempre opposto una notevole resistenza. Ma oggi l’“altro” in discussione è finalmente un forestiero autentico, con un abbigliamento, una cucina, persino dei tratti somatici visibilmente atipici. In fondo, non sono passati tanti anni da quando un importante politologo italiano si è occupato nelle pagine di un quotidiano nazionale del «caso della Ministra nera», rivolgendosi con termini così aggraziati all’allora ministro per l’Integrazione Kyenge Kashetu.[2]

L’elenco dei timori

Sostieni SettimanaNews.itMa veniamo subito al dunque, concentrando anzitutto la nostra attenzione sugli argomenti opposti a quella riforma che da molti è stata invece definita «una battaglia di civiltà». In un recente articolo di Riccardo Pelliccetti dal titolo Cinque “no” allo ius soli troviamo un ottimo sunto dei timori che osterebbero allo ius soli, per cui ci sembra utile recuperare alcuni passaggi di tale riflessione,[3] anche se, per amore di completezza, è bene considerare che, oltre a questi timori manifesti, sono da mettere in conto non poche apprensioni inconfessate, tra cui in prima fila l’immancabile spauracchio della perdita di consenso elettorale.

Nell’articolo sopra citato, con l’avversione all’attuale proposta di legge si intende innanzitutto «tutelare la cultura e l’identità della popolazione e, quindi, la sua sopravvivenza, messa a rischio da uno sbilanciamento etnico e demografico con generazioni che, per cultura e fede, difficilmente potranno integrarsi nella comunità nazionale». Stupiscono, queste parole, giacché siamo tutti a conoscenza che il rischio dello sbilanciamento demografico della nostra popolazione ha un nome preciso, e questo nome è “denatalità” non certo immigrazione, per non citare, in aggiunta, anche il triste fenomeno della cosiddetta “fuga dei cervelli”.

Se andiamo poi a sbirciare la nostra Carta costituzionale, ci accorgiamo che, tra i principi fondamentali, non troviamo alcun accenno a una cultura determinata, conclusa in se stessa e purificata dagli apporti stranieri, sogno insano di epoche non troppo lontane.

In realtà, è evidente che gran parte degli oppositori dello ius soli non manifestano un timore distribuito genericamente tra le culture “altre”, ma vengono allarmati da uno spettro ben definito ed evocato nella seguente proposizione: «Non integrazione ma invasione. I migranti che sbarcano negli ultimi anni provengono in stragrande maggioranza da Paesi musulmani, con una fede e una cultura del diritto troppo lontana da quella occidentale che – è sotto gli occhi di tutti – sono pochi a voler far propria».

Da qui ad arrivare ad un preoccupato finale non mancava che un piccolo passo: «Concludiamo con il rischio più grave, quello che minaccia la nostra sicurezza: il terrorismo. Lo ius soli diventerebbe il grimaldello per aprire anche le porte al terrore». C’è bisogno di un’energica sveglia, dunque, dato che lo ius soli attirerebbe orde di musulmani e lascerebbe spazio libero ad altrettanti neocittadini pronti a spalleggiare gruppi terroristici.

La risposta alle paure

A noi sembra, però, che per dissolvere questo spettro funesto e per ristabilire una necessaria serenità siano sufficienti alcune considerazioni di base.

Partiamo da un dato inequivocabile e alla portata di chiunque abbia la pazienza di informarsi: la grande maggioranza degli stranieri in Italia non è affatto di fede musulmana, ma cristiana, per cui il nostro Paese non si sta sempre più islamizzando, ma piuttosto cristianizzando (se non anche secolarizzando). Secondo le stime fornite dalla Fondazione Ismu al 1° gennaio 2016, tra gli stranieri presenti in Italia si contavano 2.750.000 tra ortodossi, cattolici ed evangelici, mentre i musulmani erano circa la metà, ossia poco più di 1.400.000.[4] Siamo pienamente consapevoli di quanto i dati sull’appartenenza religiosa siano da trattare con precauzione, tanto perché non sempre una determinata provenienza geografica corrisponde alla presupposta appartenenza confessionale, quanto e soprattutto perché, in molti casi, l’appartenenza religiosa non costituisce l’elemento identitario più significativo per un individuo o un gruppo. Comunque sia, ci sembra che lo spettro dell’«invasione musulmana» (per utilizzare una formula chimerica ma che ormai vive di vita propria) venga diradato grazie ai pur aridi ma almeno indiscutibili dati numerici.

A riguardo poi del rapporto tra concessione della cittadinanza e possibile attecchimento sul nostro suolo di cellule terroristiche, c’è chi dichiara con enfasi che non vuole vedere replicata in Italia una esperienza “alla Manchester”. E chi lo vorrebbe? Su questo, almeno, siamo tutti d’accordo.

La questione che dobbiamo però porre seriamente sul tavolo è se questo e tanti altri orribili fatti siano da addebitare alla cittadinanza acquisita da coloro che li hanno perpetrati – per cui sbarrarne l’accesso sarebbe la soluzione più efficace a supporto della sicurezza pubblica – o se, piuttosto, siano dovuti alla dis-integrazione di quelli in rapporto alla società di appartenenza. Se è vero il secondo caso – come è facilmente constatabile dalle biografie di chi si è macchiato di tali nefandezze –, ciò vuol dire che l’antidoto appropriato alla radicalizzazione terroristica si trova piuttosto in un progetto di integrazione pluridimensionale, in cui la cittadinanza assume il valore di solenne ratifica della presenza effettiva di condizioni funzionali al compimento dell’intero progetto.

L’importanza della scuola

Proseguendo e approfondendo la nostra riflessione ci sembra di poter cogliere tra le molte considerazioni espresse pro e contro lo ius soli anche la marginalità sfocata in cui viene costretta una questione assolutamente centrale. Tra i tanti fattori chiamati a raccolta nella discussione non viene dato – a nostro parere – il giusto peso al ruolo decisivo ricoperto dall’istituzione scolastica in ordine al successo di tale processo di integrazione.

Siamo tutti a conoscenza del compito insostituibile di cui è stata investita la scuola sin dai tempi dell’Unità d’Italia proprio in funzione di un’integrazione di gran parte della popolazione che era sguarnita di mezzi adeguati. Un compito, questo, che neppure nelle epoche successive è venuto meno, come ci ricorda la visita di papa Francesco a Barbiana, nel luogo simbolo di chi, come don Lorenzo Milani, più di ogni altro educatore ha saputo riconoscere l’essenziale funzione integrativa di un percorso scolastico sapientemente indirizzato, chiamato a incarnare addirittura una sorta di «ottavo sacramento».[5] È infatti negli ambienti scolastici che, nella seconda metà del Novecento, si è giocata la partita decisiva dell’integrazione tra diversi strati socio-economici della popolazione italiana, non meno che tra le sue componenti maschile e femminile.

Siamo perciò convinti che proprio alla vita quotidiana dei nostri istituti scolastici dovrebbero rivolgere uno sguardo più attento i politici dell’Italia di oggi, per comprendere da vicino le dinamiche che stanno mutando il volto della nostra società. Entrando in una di queste classi – luoghi in cui si sta insieme per molte ore e da cui si esce trasformati per sempre – ci si accorgerebbe che forse non molti alunni seduti a quei banchi saprebbero argomentare sui principi teorici del dialogo interculturale e interreligioso. Si verrebbe però anche a sapere che la maggior parte di essi vive con naturalezza l’esperienza di avere come compagno di classe e di sport, come amico, se non anche come parente, un coetaneo che ha gli stessi interessi e timori, così come le medesime aspettative e speranze, ma la cui famiglia porta con sé anche i tratti più o meno marcati di una diversa storia culturale e forse anche religiosa. Mutuando un’espressione impiegata per le competenze digitali, si potrebbe allora dire che i giovani di oggi sono di fatto “nativi interculturali”.

Per i nostri studenti – cittadini e non – l’identità italiana non è quindi riducibile a un puro dato biologico o giuridico ma si manifesta nell’esperienza quotidiana di comunicazione e di confronto con coetanei che esprimono una comune sensibilità sui valori fondamentali; ed è un’identità formata anche grazie al diuturno impegno scolastico che li esercita a riconoscere tanto i propri diritti quanto i corrispettivi doveri in funzione del bene comune. L’acquisizione di una tale sensibilità e di un tale riconoscimento è il frutto di un lavoro in gran parte svolto nelle aule scolastiche da docenti ben consapevoli della gravosa e fondamentale missione loro affidata.

Lo “ius culturae”

Con questo non si vuol certo dire che la scuola sia garanzia di integrazione: sappiamo che, purtroppo, il fallimento è sempre in agguato, tanto per i figli di immigrati quanto per quelli di cittadini italiani. Si intende piuttosto spostare il fuoco del dibattito sulla cittadinanza da un impersonale profilo normativo a una ben più complessa e decisiva questione culturale. Quella che potrebbe apparire una “carta di riserva” come lo ius culturae, sarebbe invece da riconoscere come chiave di volta dell’intera discussione.

L’Italia del futuro ha bisogno di generazioni educate a confrontarsi con una potente sfida: come riconoscere principi e valori comuni pur in un paesaggio umano in costante movimento e abitato da differenze culturali e religiose sempre più tangibili. Ma per prepararsi a ciò i giovani di oggi necessitano di avere dinanzi ai loro occhi istituzioni che mostrino davvero una cura speciale nei confronti dei loro spazi educativi, segnatamente per quelle “scuole di frontiera” dove la partita tra integrazione e dis-integrazione è più difficile ma per questo anche più cruciale.

La più grande sfida per l’Italia di oggi e domani è squisitamente culturale, e giusto in questo snodo cruciale è da rintracciare lo sfondo e la guida di ogni serio dibattito sull’alternativa tra una cittadinanza legata al “suolo” o al “sangue”. In una cultura vissuta come intreccio di tante storie e aperta al contributo di più apporti si riconosce il nucleo più profondo di una comunità matura e dinamica, che per questo non teme di essere inclusiva.


[1] http://www.fondazioneleonemoressa.org/newsite/lo-ius-soli-approda-in-senato
[2] http://www.corriere.it/opinioni/13_giugno_17/sartori-ius-soli-integrazione-catena-equivoci_686dbf54-d728-11e2-a4df-7eff8733b462.shtml
[3] http://www.ilgiornale.it/news/politica/tutele-esistono-gi-norma-non-ha-senso-ben-160-paesi-nel-1409848.html
[4] http://www.ismu.org/2016/07/in-italia-ortodossi-piu-numerosi-dei-musulmani
[5] http://www.settimananews.it/ministeri-carismi/don-milani-sacerdozio-impegno-politico

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Un commento

  1. Francesco Grisorio 23 giugno 2017

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