Dio e il prete

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Come in passato, ritorna anche oggi la domanda “Dov’è Dio?”. Ritorna di fronte al coronavirus, alla tragedia delle guerre, alle angosce dei popoli in fuga, alla devastazione dell’anima di innumerevoli persone.

Oggi si ripresenta una domanda religiosa da parte di una generazione che ha visto crollare sicurezze in cui aveva posto le sue speranze e tante utopie che pur avevano occupato il cuore di intere popolazioni.

Questa domanda noi la proponiamo così: Dov’è Dio?

Ci sono risposte che vengono date dalle Chiese e dalle religioni. Noi ci soffermiamo sulla risposta che i preti tentano di dare.

Noi constatiamo che ci sono tanti preti che dedicano le loro energie per acquistare una professionalità adeguata al ruolo che è stato loro affidato dal vescovo.

C’è la professionalità liturgica, quella catechistica, quella pastorale, quella biblica, quella amministrativa… Si cerca di fare una buona liturgia, una buona catechesi ecc. In questo impegno c’è spirito di sacrificio, c’è dedizione, c’è sollecitudine.

Si può compiere un ministero con una professionalità ineccepibile, ma rimanendo a livello di funzionariato. Un bravo funzionario, un conoscitore dei ferri del mestiere, ma niente più che funzionario.

Ministero come ripetizione

L’azione del prete di fronte alla domanda religiosa, che si presenta spesso in modo convenzionale e rigida, risponde a volte in modo assai abitudinario e scarsamente coinvolgente. Il ministero viene vissuto in maniera burocratica: è questo un pericolo legato alla ripetizione. Questo difetto viene talvolta aggravato quando si vive il ministero come uno status, così come avviene oggi per i ruoli nella società complessa. La funzione esige una certa “professionalità”, ma con scarso investimento personale.

Questo prete può essere un buon prete: solo però che egli sta facendo un servizio come tutti coloro che compiono dei servizi: sta facendo un lavoro umano non un lavoro divino. Sta amministrando le cose di Dio adoperando la sua intelligenza, la sua competenza, che sono qualità umane.

Quale risposta darà questo prete alla domanda religiosa urgente? Egli può fare come la fontana che porta l’acqua, ma a lui non importa berla.

Comprendiamo che la questione ha radici più lontane, che non coinvolgono la sua stessa fede e la missione che gli è stata affidata.

Ci possono essere dei perfetti funzionari che non conoscono la sete religiosa, che non sperimentano la fame di Dio. Possono essere anche senza fede. Perché non l’hanno mai percepita nella propria carne. Fanno opere grandiose, ma non sono segno di un Dio presente, quel Dio che pone come condizione al suo popolo: «Temerai il Signore Dio tuo» (Dt 6,13).

Dio è oltre i segni e i servizi. È dentro il cuore. Ma è un Dio immenso, che non si può misurare con la misura umana.

Verso il mistero

Il lavoro del prete può avere un senso solo se sa offrire segni e strumenti perché l’uomo si avvicini al mistero di Dio, consapevole che egli deve portare fino alla soglia di Dio e poi tirarsi in disparte, senza mai occupare il terreno di Dio, spegnendo la domanda. Questo è possibile quando il prete cerca Dio anche lui, oltre la funzione che compie o l’obbedienza che esegue. Egli può correre il rischio di fare come la fontana che porta l’acqua, ma a lui non importa berla. Egli deve cercare come tutti e, come tutti, cominciando ad imparare che «l’inizio della sapienza è il timore di Dio» (Sal 111[110],10; Pr 1,7).

Il prete deve avere viva la consapevolezza che Dio è oltre il pastore, l’educatore e il consolatore: per arrivare a questo deve condividere la vita della gente. Uomo tra gli uomini, deve imparare a sentirsi in una relazione paritaria con uomini e donne. Paradossalmente deve venirgli spontaneo sentirsi in sintonia più con persone lontane dalla fede o in ricerca, che non con chi vive sicuro e protetto dalla religiosità tradizionale. Nella comunità deve imparare a sentirsi molto più “fratello” che non “padre”, “maestro” o “leader”.

Deve passare dal culto laterale rispetto alla vita, alla quotidiana fraternità e solidarietà umana, nutrita da fede e preghiera, con le condizioni di vita più faticose. Il modello è la vita di Gesù, che vive e mostra l’amore divino immerso pienamente nella condizione umana. È l’esperienza che addita papa Francesco alla Chiesa di vivere nelle “periferie umane”.

La comunità dove il prete celebra l’eucaristia deve essere una comunità che si sforza di condividere la vita e i problemi della gente, partecipando attivamente alla vita della città e praticando l’accoglienza e la vicinanza a chi è nel bisogno, consapevole che «è il mondo che ci impone i suoi problemi. Non è più la società Chiesa, bensì il mondo che determina i problemi, è lui che suscita delle questioni difficili riguardo alle affermazioni della fede» (Y. Congar).

Un prete in parrocchia vive tante situazioni della gente, che ha bisogno di lui. Nell’educazione di una mentalità, di una cultura, nei momenti del dolore, nei disorientamenti morali, nel compito di padre per tante persone. È questa una situazione secondaria di fronte ad una domanda religiosa che si fa insistente?

Ci sembra di poter dire che la domanda religiosa non può essere confusa con la situazione di bisogno. Il compito di educazione, di sostegno, di orientamento è un compito necessario. Ma Dio non si ferma là. La fame e la sete di Dio vanno oltre.

La domanda religiosa cerca Dio, non la consolazione per se stessa. E Dio è misterioso, è immenso, è l’unico che è “Signore” dell’uomo.

L’uomo oggi chiede servizi religiosi di ogni genere, ma cerca dei segni del Dio invisibile. Con questo Dio deve misurarsi il testimone, il prete, e non dare risposte sostitutive. La povertà di Dio non viene coperta con l’intensità del servizio religioso.

Dire di Dio

Il prete è la persona indicata dall’opinione comune a dare una risposta orientativa su questioni che riguardano Dio. Una risposta che non si trova in maniera chiara nel prete impegnato cioè a fare bene il suo ufficio come un perfetto e disciplinato funzionario. La domanda del sacro lo impegna e a lui la gente richiede tutti i servizi religiosi che fanno parte d’un patrimonio sociale. Ma la domanda di Dio va più in là dei servizi religiosi. E il prete ne può parlare solo se ha l’esperienza di Dio.

Non si trova neppure la risposta nel compito educativo e consolatorio che mette il prete dentro tanti fatti dolorosi della vita. La consolazione è un’opera di misericordia, ma Dio è più in là.

Per parlare di Dio non è sufficiente un assistente sociale, un educatore, un padre. Bisogna arrivare al livello del profeta. Ci si chiede: come è possibile arrivare a questo?

Ci sembra che la prospettiva che ci si apre davanti non è nella disistima del servizio religioso, ma in un deficit di spessore umano e soprattutto di tensione profetica.

Dio ci può parlare se troviamo il tempo, tempo per la profezia. Sappiamo che ciascuno di noi è preso dalle molte attività. Ci vien detto di riservare ogni giorno, ogni mese, ogni anno un po’ di tempo per ritrovare noi stessi e per metterci in sintonia con le parole che Dio dice dall’alto.

Sappiamo tutti che è fuorviante trasformare il prete in un facitore e in un produttore di servizi, senza fare di lui un uomo che cresce. E ci sembra che il ruolo primario non sia quello di moltiplicare le attività, riunioni, programmazioni, per essere produttivi con il ritmo della società attiva, ma quello di entrare decisamente nella solitudine per imparare a pensare, a vedere, ad ascoltare, a parlare. È la condizione adatta per pensare a Dio, per vedere Dio, per ascoltare Dio, per parlare Dio… È il ruolo del profeta, per quella profezia che sfugge al mondo attivo. Tutto questo è fondamentale per il prete.

La strada pare quella di camminare insieme in un’umile ricerca, reciprocamente complementare. La posta in gioco è dare una risposta alla domanda: Dov’è Dio? E Dio è presente nella storia: la lettura dei segni dei tempi. C’è una lettura che riguarda i segni lontani. Ce n’è una sui tempi vicini. Dio è presente negli avvenimenti e nella storia. Alla storia si pone la domanda: Dov’è Dio?

I tempi parlano di cause politiche, di confronti economici, diplomatici, di pesi per le zone di influenza. C’è però anche da cercare di capire un progetto di Dio che si sta attuando.

Dio nel nostro tempo

Ma quale? È un compito che è affidato a noi, o almeno è consegnato a coloro che sono chiamati a cogliere la profezia che rivela ciò che lo Spirito dice oggi alla Chiesa, e individuare le tracce di un Dio che sta passando. Sono tracce che ci aiutano a dare una qualche risposta alla domanda: Dov’è Dio?

Oggi più che mai è importante cambiare il concetto di Dio, che lungo i secoli abbiamo fatto parlare, dandogli delle forme che non esprimevano se non i nostri desideri: «Ezechiele – Il Signore mi rivolse la parola – denunzia apertamente quelli che si credono profeti in Israele e profetizzano secondo i propri desideri…» (Ez 13,1).

Si tratta di ripensare la concezione di Dio, sempre rappresentato come uno che sta in alto e che ci sta a guardare. Anche le rappresentazioni artistiche lungo i secoli lo immaginano come un vegliardo che sta lassù. E le nostre chiese sono piene di immagini, dove non c’è nessun spazio vuoto. Questa prassi non è altro che l’unico modo di non far pensare. Nello spazio pieno non c’è modo di pensare. Soprattutto nel periodo barocco. Quando invece entriamo in una chiesa di stile romanico c’è il vuoto totale, solo la luce che proviene dalle finestre. In quella situazione è più facile pensare e percepire una presenza.

Dio non sta in silenzio, parla attraverso diverse voci, fatti, avvenimenti e noi non siamo abituati ad accorgersi di quello che sta succedendo attorno a noi, dentro di noi. Lungo la storia egli ha parlato e parla attraverso i profeti, quelli che sanno capire il proprio tempo. I segni dei tempi sono importanti.

Non siamo più abituati al silenzio. L’uomo contemporaneo postmoderno cade in un’inquietudine. È abituato al rumore di fondo permanente, che lo rende malato e lo rassicura, e senza di esso sembra perduto. Un rumore che diventa come droga e diventato dipendente in tutti i sensi.

Dio allora diventa difficile da comprendere, anzi vogliamo definirlo e pensarlo come un’entità che guarda, che ascolta i nostri lamenti, le nostre domande, i nostri bisogni. Ascoltare Dio allora significa farci delle domande su noi stessi, sul pianeta, sulla società perché il tutto abbia un senso, perché il tutto trovi un equilibrio.

Dio rimane muto per chi non lo sa ascoltare. Dobbiamo rifarci all’esperienza di Elia che fugge sul monte, stanco delle sue esperienze e del popolo, dove lassù ha capito chi era Dio, non colui che fa rumore, vento impetuoso, tempesta, terremoto, ma solo brezza leggera che solo chi si mette in ascolto è in grado di udire.

Il vento leggero

Mi ha sempre affascinato quel Dio che non vuole assordarci nel fragore del terremoto o abbagliarci nel fulmine; sceglie di svelarsi nel sussurro del vento: «Dopo la folgore, ci fu il mormorio di un vento leggero» (1Re 19,12). Sì, è nel silenzio che il profeta riconosce il Dio che gli parla.

Di più, il silenzio è la parola che Dio ci rivolge, segreta parola d’amore; così intuisce Simone Weil:

Chi è capace non solo di gridare / ma anche di ascoltare, / intende la risposta. / Questa risposta è il silenzio. / È il silenzio eterno. / Chi è capace non solo di ascoltare, / ma anche di amare, / intende questo silenzio / come la parola di Dio. / Le creature parlano con dei suoni. / La parola di Dio è silenzio. / La segreta parola d’amore di Dio / non può essere altro che silenzio.

Di più ancora: il silenzio è Dio; così Alda Merini in una sua straordinariamente semplice preghiera del 2001: sì, il silenzio è Dio; un silenzio che non vuole opprimere… è solo una nuvola di canto:

Gesù, / per coloro che hanno perso la mente / e i princìpi della ragione, (…) / per coloro che non sanno gridare / perché nessuno li ascolta, (…) / apri le grandi porte del Paradiso / e fa’ loro vedere / che la tua mano / era fresca e vellutata, / come qualsiasi fiore, / e che forse loro troppo audaci / non hanno capito che il silenzio era Dio / e si sono sentiti oppressi / da questo silenzio / che era solo una nuvola di canto.

È tutt’altro che facile affidare Dio definitivamente all’in-evidenza e al silenzio. È tuttavia questo il punto culminante della nostra fede in Dio, «irriducibile a una mitologia tra le altre» (Ch. Theobald).

È comunque una situazione a rischio. E il rischio, o meglio la tentazione, è di colmare il vuoto che ne deriva con una presenza sostitutiva, e inevitabilmente illusoria. È il rischio che corre la Chiesa, le Chiese, i preti. In proposito mi sembra pertinente un pensiero di Mario Cuminetti: «In fondo il problema delle Chiese (e delle religioni) è quello dello statuto da dare alla presenza-assenza di Dio. La scrittura, ma anche la Chiesa, è prodotta da un lutto. L’assente fa scrivere. Non cessa di scriversi. Colui che dovrebbe esserci non c’è. Da qui l’antica preghiera cristiana: Che io non sia mai separato da te – Maranethé (=Signore vieni). Il rischio è di riempire questo lutto con una presenza (quella della Chiesa). Recuperare la laicità è recupero del lutto. Cioè di fronte al necessario (“non senza di te, Signore”), divenuto in realtà impossibile – e questa è la figura del desiderio – ci si sente ammalati (“angosciati?”), perché si è malati dell’unico, che – come dice Maria al sepolcro – “non c’è più”, “l’hanno portato via”. Il nostro diventa il linguaggio della nostalgia (saudade): estranei al nostro proprio luogo e desiderosi di tornare a casa. Ma bisogna star qui, non fuggire, non superare la soglia. È la condizione di tutti. La Chiesa ha preteso di superarla».

«Talvolta il vuoto non è assenza, ma piuttosto lunga gestazione. Per i parametri dell’Io la gestazione è sempre troppo lunga. Ma per i parametri dell’anima, i tempi dell’attesa e dell’elaborazione interiore che precede l’evidenza esteriore sono sempre quelli che devono essere» (C. Pinkola Estés, Forte è la donna, Sperling & Kupfer, 2011, p. 40).

Il Dio della croce

Come prete credo in un Dio debole e piccolo che si manifesta sulla croce come un disperato che muore solo; ma credo anche in un Dio che ti tiene la mano quando cammini nel buio e non ti molla mai, perché ti è papà e ti ripete: «Non temere: io sono qui con te» (Is 41,10).

Sono persuaso che questo sia il compito del prete: dare ai fratelli un cibo solido e soprattutto costruire comunità che ripartano solo dal Vangelo, comunità dove anche il ministero sia pensato e vissuto in modo totalmente diverso: dove il prete non sia il gestore del sacro, ma il fratello tra fratelli, un mendicante di luce come tutti: un battezzato che spezza la Parola e il pane, ma inserito concretamente nella vita degli uomini e delle donne del suo tempo con tutto ciò che questo comporta. Sarà un’utopia, un sogno? A me piace sognare e mi piace impegnarmi per essere un prete uomo e umano e non un amministratore del sacro.

Nel frattempo facciamo diventare anche questa situazione pandemica, proprio perché critica, una “lunga gestazione” di una nuova realtà di vita personale e di storia comunitaria così da poterci ripensare e crescere in quella umanità sposata e benedetta dal Dio in cui crediamo ancora.

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2 Commenti

  1. Liliana 14 maggio 2021
  2. gianni morandin 14 maggio 2021

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