Il prodigio di Cana

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Io continuo a dire il breviario in latino, colpito sempre dalle magnifiche sintesi che gli inni riescono a produrre e che mi piace, anche come una sfida, tradurre e commentare.

Novum genus potentiae,
aquae rubescunt hydriae,
vinumque iussa fundere
mutavit unda originem.
Potere nuovo appare,
rossa è nell’idria l’acqua,
vino le si comanda,
l’onda muta natura.

Mi sono spesso chiesto, commentando queste strofe, come sia possibile ridurre in quattro versi composti di dodici parole racconti complessi come sono i fatti di vangelo evocati. Ma si capisce poi che la selezione e la concisione sono una sfida e un invito a esplorare le singole parole come nuclei densi di significato da cui irradiano particolari comprensioni del mistero. Come in questo caso, dove la condensazione è massima, e dove una lettura superficiale porta a pensare che, alla fine, tutto si riduca ad acqua che diventa vino, come credo il miracolo di Cana resista nella memoria dei più.

In realtà, anche se, a tutta prima, la strofa dell’inno sembra confermare questa impressione, non bisogna fermarsi qui. Proprio la riduzione del lessico all’essenziale (nomi e verbi, un solo aggettivo: nuovo!) chiede che si scavi il senso di ogni parola, esercizio quanto mai salutare in tempi in cui l’alluvione verbale e verbosa che ci sommerge rischia di rendere il linguaggio insignificante, o peggio inutile, quando non falso e fuorviante.

I grandi poeti sanno che rendere il discorso “difficile” non è un difetto, ma una qualità della poesia, perché fa attenti alle parole.

Il fatto rievocato è qualificato come un “nuovo genere di potere”. Nella traduzione il termine “genere” è stato sostituito con “appare”, implicito nel latino, ma importante per segnalare che, a Cana, c’è un’Epifania.

Prima avevo tradotto potentia con “prodigio”, influenzato, credo, dall’uso di parlare del “miracolo di Cana”. Però l’evangelista Giovanni lo chiama “segno” (Gv 2,11), anzi “l’inizio dei segni”, che ne marca ancor più l’importanza, perché archè (inizio) sta in testa al quarto vangelo, che parte proprio da quel “in principio era il Verbo”.

Ora, quel principio che fa uscire dall’eternità silenziosa un Dio che comincia a farsi udire come parola, si ripete in un evento ancora più palpabile: acqua che si muta in vino!

“Prodigio” poteva andar bene, perché qui c’è qualcosa di straordinario. Poi mi sono però reso conto che la resa letterale di potentia con “potere” apre a una nuova comprensione del senso di ciò che accade a Cana, e che può, e che deve riaccadere, com’è stato ed è per il battesimo al Giordano. Qui si ha da capire, infatti, che ci sono nel mondo tante specie di potere, e che quello mostrato nel gesto di Gesù è alternativo a ogni genere di potere mondano.

Giovanni non racconta le tentazioni di Gesù, ma ciò che lui indica come il primo dei segni compiuti da Gesù trova un facile parallelo nei racconti di Matteo e Luca, dove le proposte del maligno, rimandate al mittente, giocano tutte attorno al potere come dominio: dominio sul pane, come vittoria sulla fame, sul pericolo, come vittoria sulla debolezza, sulle terre, come vittoria sulla povertà. Proprio in Giovanni, di “potere” si parlerà alla fine, nel dialogo con Pilato (Gv 19,10-11), che però non capisce cosa sia questo potere d’altro genere.

Ma il passo più chiaro sul tema arriva dal discorso di Pietro al centurione Cornelio, dove è detto: «Voi sapete ciò che è accaduto in tutta la Giudea, cominciando dalla Galilea, dopo il battesimo predicato da Giovanni, cioè come Dio consacrò in Spirito Santo e potenza Gesù di Nazaret, il quale passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo, perché Dio era con lui» (At 10, 37-38).

Cana, dunque, continua ed esplicita il senso del battesimo: lì nasce un potere che zampilla dallo Spirito Santo, e che si esplicita nel “beneficare e risanare”, con l’effetto di liberare dal potere del diavolo che, al contrario, produce male e malessere. Ecco il nuovo potere che viene dispiegato a Cana. L’acqua delle idrie diventa rossa. È come se qualcosa si accendesse. Sullo sfondo ci sono le nozze, immagine che nella Bibbia è metafora chiave del rapporto tra Dio e il suo popolo.

Una bella antifona per le Lodi dell’Epifania rilegge tutte e tre le manifestazioni del Signore proprio in questa luce: «Oggi la Chiesa si è unita al suo celeste sposo, poiché nel Giordano Cristo ha lavato i suoi peccati; i magi corrono con i loro doni alle nozze regali; e, grazie all’acqua fatta vino, gioiscono i convitati». Dunque, questo nuovo potere non è altro che quello di tramutare in dono ciò che si ha, e questo per regalare gioia!

C’è qui un principio cardine del discorso cristiano, per cui il potere è servizio, o altrimenti detto, secondo una frase di Ireneo di Lione ben nota: servire Deo regnare est. E allora l’acqua che rosseggia è il nostro dono, pur piccolo, che si trasfigura (ecco l’epifania!) in aiuto, soccorso, sollievo e gioia, è quel «bicchiere d’acqua fresca» dato a chi è «piccolo» (micron, dice il greco, minimus dice il latino), anche solo perché ha sete, dono che non perderà la ricompensa (Mt 10,42).

Ce n’è per tutti. L’importante è entrare in questa logica: le misure sono relative, diverse per ciascuno, e non valgono per il conto finale, che non pare sia basato sulla quantità.

Le nozze di Cana

Un verbo nel terzo verso potrebbe fare problema: all’acqua viene “comandato” di diventare vino. Trattandosi di un “mutamento della natura”, da chi può venire l’ordine se non da chi è l’onnipotente creatore della natura stessa? Però, quando si entra nel lessico del dono, della generosità, del servizio gratuito, del desiderio di regalare gioia, di accendere di rosso vivo l’acqua incolore, come si può ancora parlare di «comando»? Eppure, questo è il linguaggio usato da Gesù: l’invito ai discepoli perché si amino tra loro come lui li ha amati è presentato come un “comando” (Gv 13,34; 15,12).

Che significa? Non siamo ingenui: la gratuità non ci appartiene come un istinto, almeno non come unica o prevalente potenzialità.

Il miscuglio si vede già nel bambino, in cui i sentimenti – si dice – sono ancora genuini. Ci sono bambini che spontaneamente danno via tutto, e porgono sorridendo a chiunque quello che hanno in mano, al punto da dover essere difesi da un eccesso di generosità! Con altri, all’opposto, guai a cercare di prendere ciò che stringono in mano: strillano e si agitano.

Credo siano due modi opposti e complementari di rispondere a un identico sentimento: quello della fragilità. C’è nel bambino che, ricevendo tutto, è pronto a dare tutto, sicuro in fondo che quanto gli servirà gli sarà dato gratis; e c’è nel bambino che vive la sua fragilità come paura di perdere quel poco che ha, per cui lo trattiene con forza, così come si lancia a prendere o almeno a toccare quanto gli cade sotto gli occhi. Tali sentimenti crescono con noi, con la prevalenza ora dell’uno ora dell’altro, e su questo si distinguono i temperamenti delle persone.

Se però Gesù ha sentito il bisogno di dare un «comando», una ragione c’era. La sua è una nuova legge che sostituisce l’antica, ma sempre una legge è. Ci si comanda, dunque, di cambiare l’acqua in vino, di convertire il potere da quello declinato come sfruttamento a quello esercitato come servizio.

Questo è, infatti, il senso della necessità che ci è imposta/richiesta di “mutare l’origine”, o mutare natura, come si è tradotto. È anche questa una sorta di battesimo, perché è come rinascere.

Sappiamo che la nostra origine, o radice, è marcata da un disordine strutturale, che il racconto biblico traduce in termini che evocano facilmente l’istinto di un potere perverso: «sarete come Dio» (Gen 3,5).

In un sermone per Tutti i Santi, Aelredo di Rievaulx vede nella povertà (la prima beatitudine, come il primo dei segni: sempre una radice, sempre un’origine!) la logica di un potere alternativo, che nasce dall’accettazione della debolezza, e che però garantisce la gioia del vino: «Ecco, fratelli, l’antidoto contro il veleno dell’antico serpente velenoso con il quale fu infettato tutto il genere umano. Sarete, disse, come dei (Gen 3,5). Questo è il calice d’oro che ubriaca tutta la terra (Ap 20,2), che mostra la bellezza della beatitudine, ma in maniera occulta propina il calice amaro dell’infelicità. Sarete come dei! Il vaso è bello, ma dentro si cela il veleno. Coraggio, povero Adamo: sei diventato infelice quando hai sentito: Sarete come dei, ora sii beato ascoltando chi dice: Beati i poveri in spirito (Mt 5,3)» [Sermone 27,10].

È sorprendente come discorsi apparentemente lontani finiscano per confluire sempre su alcuni, pochi, principi base della fede e della vita spirituale che ne discende.

E fa anche piacere ritrovare in questi discorsi che il perno attorno a cui gira tutto sia poi, alla fine, quello della gioia, che è il nostro bisogno più primario. Le nozze sono un’icona della relazione: lì si gioca tutto. Restano sullo sfondo della strofa di Sedulio, ma la messa a fuoco del potere dice dove sta il segreto di relazioni buone e benefiche.

La gioia delle nozze, evocata dall’antifona sopra citata, ci dice che il nuovo mondo, iniziato a Betlemme e irradiato poi nelle varie Epifanie, sta in un nuovo potere che rigenera le relazioni, in nuove nozze dove la fragilità di tutti, l’acqua, non deve dirigerci verso la sopraffazione e lo sfruttamento, ma verso la solidarietà e la condivisione. E allora sarà vino di gioia per tutti.

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