La sapienza del sabato

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Il riposo dei “tre sabati”

L’ultimità del riposo è connessa con la centralità dell’amore caritativo. La declinazione del riposo in termini di carità è svolta, con originalità, dal monaco anglosassone Aelredo di Rievaulx (1110-1167), secondo il quale Dio è essenzialmente riposo perché è Uno e, perciò, in lui non c’è spazio per parti che potrebbero confliggere;[1] inoltre, perché il Dio trinitario è un’armonia o un «riposo di relazioni».[2]

Così l’infinità del riposo di Dio ridonda sulla creazione e l’intride di sé; cosicché essa e il cuore dell’uomo manifestano la vocazione al riposo[3] e – siccome tra la protologia e l’escatologia non possono esservi contraddizioni – con coerenza Aelredo pensa il Cielo come una comunità ordinata di soggetti (angeli e beati)[4] disposti in forme composte e oltremodo ieratiche.

Inoltre Aelredo, per mostrare la profonda connessione tra l’esito riposante della vita celeste e la vita terrena sviluppa un’interessante riflessione mistico-teologica sul sabbatum, che egli articola in tre sabati, intesi come soglie di un crescente dinamismo di quiete-riposo: la prima soglia si realizza all’interno della singola coscienza; la seconda si attua nella rete delle relazioni interpersonali; la terza trova compimento nell’incontro definitivo con Cristo.

Preparazione al sabato del Cielo

Pertanto, dopo essersi purificata della riduzione egoistica dell’amore per sé (la «camera») e dell’amore per gli altri (la «locanda»), l’anima è pronta ad incontrare il Cristo nel «santuario» dove egli abita: «Tacendo allora tutte le cose del corpo, tutte le cose dei sensi, tutte le cose che mutano, l’anima fissa il suo sguardo perspicace in colui che unicamente è, e sempre così è, e sempre se stesso è e, ormai libera, vede che il Signore è Dio, e negli amplessi soavi della sua carità, celebra senza più nessun dubbio il sabato dei sabati».[5]

La novità grande di questo discorso sta nella scoperta che la quiete-riposo è dinamica come la carità, con cui sorprendentemente Aelredo ha voluto stabilire un contatto quale realtà fermento di vita.[6]

La calma sapienza di «contare i nostri giorni»

Sostieni SettimanaNews.itPreghiamo, ebrei e cristiani, unendo nella lode tempo ed eternità: «Sia benedetto il nome del Signore da ora e per sempre» (Sal 113,2). Così si riconosce la dignità sia del tempo (una grazia a portata di uomo, già inizio di eternità per lui), sia dell’eternità (la perenne condizione di Dio e futura gloria dell’uomo).

Dedicandosi responsabilmente e religiosamente alla conta dei giorni da Pasqua a Pentecoste, il pio ebreo osservante agisce sull’onda spirituale della preghiera salmica: «Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo a un cuore sapiente» (Sal 90,12).

La lentezza nella conta dei giorni è un’espressione del riposo: il tempo non va preso col piglio grezzo di chi tratta cose, persone, eventi, accadimenti di vita, morti, all’ingrosso, in modo indefinito e sommario, spersonalizzante e non umano.

Quella lentezza calma e riposante è un’espressione del vero riposo spirituale. L’attenzione al “particulare”, alla singolarità significa rispetto, attenzione, valorizzazione di tutto e di tutti, di ogni cosa e di ogni persona.

Per il cristiano queste preziosità spirituali non sono solo qualità del tempo, ma massimamente dell’eternità. Siamo esseri con caratteristiche uniche che vivono i giorni non in modo vago e indeterminato, né aspettiamo un’eternità indistinta e fusionale, monotona e opprimente con un’estensione e una trascendenza immisurabili.

Noi non siamo esseri genericamente storici ed eterni, ma con nomi propri e destini particolari che solo Dio conosce: pertanto è rozzamente approssimativo dire che viviamo “lo spirito del tempo”, se vogliamo dire che siamo soggetti immessi in un tempo senza ritmo e scadenze, o che aspettiamo una “vita eterna” solo interminabile, senza alcuna vera novità e senza alcuna esperienza della sorprendente qualità dell’esistenza del Dio trinitario.

Il riposante abbandono nelle mani di Dio

Le forme di esistenza ora sospettate (e temute) sarebbero davvero prive di requies. E le considerazioni ora fatte ci portano inevitabilmente a guardare la nostra esistenza temporale in piena coerenza con essa: «L’essere, di cui ho l’interiore certezza che è il mio essere, è un essere temporale. Quale essere “attuale” – cioè presente e reale – esiste di momento in momento [punktuell]: è un “adesso” [ietzt] fra un “già” [nicht mehr] e un “non ancora” [noch nicht]… Io sono adesso. […] Nel mio essere privo di sostegno e di fondamento, trovo un altro essere che non è il mio, ma che è il sostegno e il fondamento del mio essere».[7]

Il vero riposo cristiano (lo sono sia quello temporale sia quello eterno) è sì un “lasciarsi andare”, ma non nella pigrizia, nell’inerzia, nella noia, bensì nel pacifico, sereno e riposante abbandono nelle mani onnipotentemente creatrici e paternamente provvidenti di Dio che può, sa e vuole sostenere la fragile esistenza dell’uomo, con la piena fiducia con cui il bambino – esemplifica la Stein[8] – si affida alle braccia della madre (cf. Sal 131).

Affidarsi alle mani riposanti di Dio non significa poggiare la vita su un flessuoso cuscino che concilia il sonno. Affidarsi a Dio equivale a consegnarsi al suo amore e, in chi pone quest’atto si manifesta la sicurezza che «nessuno sa che cosa Dio farebbe di una persona se questa si lasciasse amare da Dio» (P. De Ravignan).


[1] Lo Specchio della carità (= Sdc), 1,4. È un testo cristiano del secolo XII che discute, col linguaggio della mistica, tematiche capitali, come il bisogno di amore e di gioia e analizza, in modo particolare, le strategie e le metodologie che attiviamo nella ricerca di questi beni in noi, negli altri, in Dio, e delinea – in questo territorio delicato e impervio come tutte le tematiche mistiche – percorsi chiari, praticabili ed efficaci. Questo noto testo di Aelredo è fruibile in edizione italiana: Lo Specchio della carità, a cura di Domenico Pezzini, Paoline, Milano 1999.
[2] Sdc, 1,57.
[3] Sdc, 1,59-60.
[4] Per Aelredo questa quiete è declinata come «ordine» teso a riflettere un’armonia che risplende in sommo grado la «carità» che governa le relazioni e che dev’essere anch’essa «ordinata». Per contrasto a quest’ordine caritativo escatologico si è sviluppata la sua controfigura, quella di un Inferno pensato come realtà di disordine e di figure scomposte e fra loro riferite in modo disarmonico (cf. D. Pezzini, Le immagini della vita eterna in alcuni scrittori mistici, in CredereOggi [5/2009] n. 173, 89).
[5] Sdc, 3,18. Su questo approdo al sabato dei sabati, ossia al riposo per eccellenza, cf. D. Pezzini, Il riposo come categoria della vita spirituale: i tre sabati dello ‘Specchio della carità’ di Aelredo di Rievaulx, in Vita Consecrata 36 (2000) 357-374.
[6] C’è una singolare consonanza mistica con l’intuizione di Aelredo da parte di Elisabetta della Trinità che concepisce l’esperienza di riposo spirituale in questa vita come implicita preparazione del riposo celeste: «La più alta perfezione in questa vita […] consiste nel restare talmente uniti a Dio che l’anima con le sue facoltà e potenze sia tutta raccolta in lui e tutte le sue affezioni, unificate nella gioia dell’amore, non trovino riposo che nel possesso del Creatore» (Ritiro. Come si può trovare il Cielo sulla terra, in Ead., Scritti, tr. it. di Dante Giovannini, Postulazione generale dei Carmelitani Scalzi, Roma 1967, p. 622).
[7] E. Stein, Essere finito ed essere eterno, tr. it. di C. Pettinelli, Messaggero, Padova 1983, pp. 111 e 113.
[8] E. Stein, Essere finito ed essere eterno, p. 113.

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