Lasciar parlare la morte

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Molti, forse troppi, avevano pensato di averla definitivamente estromessa dal discorso pubblico, messa ai margini, rinchiusa nello spazio del privato e del non visibile: la morte non si accontenta di essere ridotta a spettacolo e intrattenimento, non tollera su di sé una visione parziale che la riduca a semplice esercizio del chiudere la vita di qualcuno, un qualcuno che sia sempre altro da chi sta guardando.

L’ultima follia

Pensare di anestetizzare la morte è stata l’ultima grande follia dei nostri tempi. Credere di poter ridurre tutto a pratiche gestionali che tengano distanti il mondo dei vivi da quello dei morti, strutturando luoghi ad hoc che sollevino da ogni responsabilità rispetto al contatto diretto col defunto e con tutto quello che comporta il venir meno di una vita, ha rappresentato uno dei vertici della barbarie del nostro Occidente malato.

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Porta della Morte (Manzù)

Oggi iniziamo ad esserne consapevoli: di fronte alle file dei carri dell’esercito che portano altrove bare di persone a cui spesso non si è neppure riusciti a dare l’ultimo saluto, rimaniamo senza parole.

Appunto, il non aver frequentato più un discorso pubblico sulla morte, non ci ha resi più sicuri, ci ha fatto semplicemente diventare afasici, cioè incapaci di starle davanti.

Non abbiamo più parole e immagini per descriverla e di conseguenza non riusciamo più a capire come possa realmente far parte del nostro vissuto.

La parola delle immagini

Dopo l’immane tragedia della seconda guerra mondiale ci siamo dimenticati, almeno in questa parte di mondo, che la morte ha continuato a frequentare la vita come sempre indisturbata, realizzando quello che ha sempre fatto e, ancor più tragicamente, lavorando sottotraccia, privandoci in maniera impercettibile della necessaria compagnia della speranza.

La storia dell’arte dal dopoguerra ad oggi ce lo ricorda: sono perle rare le riflessioni non estemporanee sul tema. Al di là di pochi apprezzabili tentativi, come quelli di Manzù nelle famose porte, anche la riscoperta del tema del crocifisso da parte di tanti straordinari artisti, da Sutherland a Congdon, ci pare più una riflessione personale, uno stare di fronte alla morte dell’altro e alla propria, a prescindere dal contesto nel quale essa si genera.

Ci troviamo davanti più ad una riflessione sul venir meno della vita, sul senso del dolore, sul disfarsi del corpo, ma sempre nella prospettiva della meditazione interiore e personale: dove sono finiti gli altri? Dov’è finita la morte?

I grandi polittici medievali, ma anche le grandi pale del ‘400 e del ‘500,  raramente ci presentavano la morte solitaria di qualcuno.

Il Cristo in croce veniva rappresentato nel contesto degli effetti della sua morte sugli altri, la madre, il discepolo amato, il centurione, le donne, e perfino le grandi croci che, dalla metà del XII secolo riempiono le navate delle chiese, vedono sempre la presenza di almeno uno spettatore, fosse anche il santo adorante abbarbicato ai piedi del suo Signore.

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La morte stessa, quando veniva rappresentata attraverso allegorie, simboli e descrizioni del suo agire, risultava sempre inserita in un racconto sociale, un contesto fatto di personaggi reali, anche se rappresentativi di categorie, appunto le categorie che costituivano il tessuto di un paese, di una città, di un popolo.

Valga come esempio l’opera grandiosa del Maestro del Trionfo della Morte di Palermo, dove la spettrale radiografia di un  cavallo al galoppo trasporta uno scheletro che va disseminando i suoi dardi all’intorno, incurante della direzione di ogni suo scoccare.

Mentre qualcuno risulta già colpito, altri attendono il proprio turno, ma soprattutto molti nobili e ricchi continuano a svolgere le proprie attività, incuranti di quello che sta accadendo: c’è uno stare di fronte alla morte che ci rende tutti uguali e, se, da un lato, questa constatazione può diventare una mera consolazione che innesca meccanismi di pura passività, dall’altro, spesso è stata il motore della rinascita di fronte alle più grandi tragedie della storia.

La sosta e il linguaggio

Nei secoli, davanti allo sterminio di devastanti guerre e di tragiche epidemie, l’essersi trovati pronti a dare del tu alla morte ha sempre aiutato a riprendere con maggiore vigore il discorso sulla vita. A patto che questo stare di fronte alla morte fosse uno stare condiviso, percepito come momento di essenzialità e purificazione da parte di tutti: c’è bisogno di recuperare questo atteggiamento che, per essere davvero fecondo, non può altro che essere collettivo.

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Trionfo della Morte

Le epoche passate della nostra civiltà hanno trovato le proprie strade a questo riguardo.

Hanno saputo ricostruire linguaggi di vita a partire dalle parole e dalle immagini della morte, consapevoli che fosse necessario concedere legittima ospitalità ad una compagna così ingombrante.

La cultura della fede e la tradizione biblica ci offrono, anche oggi come sempre, gli strumenti di base per poter tornare ad intessere un dialogo possibile.

Le comunità cristiane hanno il dovere di provare a restituire la convinzione che sia questo il momento legittimo per poter di nuovo dare un’immagine pubblica alla morte.

Se non saremo capaci di chiamarla sorella, dovremo almeno tentare di offrirle ospitalità per continuare ad essere credibili nel nostro annuncio della risurrezione. Il grande racconto della Passione, in fondo, non è lo scenario straordinario nel quale tutti siamo chiamati a trovare la nostra collocazione di fronte alla morte?

Non siamo spettatori, siamo personaggi reali del dramma della vita che veniamo interrogati insieme dalla morte dell’unico giusto: di fronte a questa morte dobbiamo sostare ciascuno al proprio posto, nel giusto silenzio che non diventerà mutismo se avremo il coraggio di sostare insieme e di ascoltare quello che ha da dirci.

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