Maledetta primavera…?

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“Guardate i gigli del campo” (Mt 6,28). Le parole di Gesù ci aprono la strada ad un atteggiamento nuovo, di consapevolezza, di fiducia e libertà.

Avevo vent’anni quando usciva la più famosa delle canzoni di Loretta Goggi, un motivo che è rimasto in testa a tanti non solo perché facilmente orecchiabile, ma soprattutto per questo aggettivo “maledetta” che contrasta fortemente con la promessa che ogni primavera porta con sé.

Un aggettivo, questo, che possiamo trovare coerente con l’attuale primavera, cronologicamente appena iniziata, ma già arrivata dal punto di vista meteorologico.

Intorno a noi, in queste giornate luminose e piacevoli è già un tripudio di fiori e un annuncio di abbondanti promesse: mandorli, prunus, siepi campestri esplodono di fiori bianchi e rosa, mentre viole, giunchiglie, primule e sassifraghe occhieggiano in tanti prati e giardini, assieme alle umili margherite. Le gemme ormai gonfie si preparano ad esplodere dagli alberi più grandi e l’erba già cresce vigorosa e di quel verde più tenero che segnala l’uscita dall’inverno.

Maledetta primavera

La natura si rimette in moto – dopo una pausa invernale non tanto severa, avara di pioggia e di quel freddo cattivo a cui una volta eravamo abituati – ignara delle misure restrittive per contenere il Coronavirus e delle modificate abitudini degli umani: mentre la strada che percorro a piedi è deserta, probabilmente per la ridotta attività lavorativa, sulle siepi fiorite le api si affaccendano operosamente come in ogni altra primavera, ignare dell’invito “#iorestoacasa”, proclamato su scala nazionale.

È davvero questa una “maledetta primavera”?

Me lo chiedo ascoltando il bollettino quotidiano della Protezione Civile, leggendo messaggi utili o spesso inutili che arrivano su Whatsapp sui comportamenti da tenere o da evitare, guardando la fotografia dell’infermiera stremata che si addormenta alla fine del turno di lavoro, ascoltando al telefono l’ansia di anziani soli e spaventati e di nonni arruolati a quotidiana custodia di nipoti che non possono andare a scuola.

Gesù davanti a tutto questo verrebbe a ripetere, ancora una volta, una delle sue parole più delicate e gratuite: «Osservate come crescono i gigli del campo…» (Mt 6,34). Parole che escono dall’interiorità di un uomo che ha vissuto la sua avventura quotidiana guardando, osservando: ed è da questo rapporto diretto con la realtà, con la natura e le sue sorprese, con le persone e le loro infinite originalità, che Gesù trae le immagini e i racconti per il suo insegnamento.

Lui sa che la natura e la terra, l’uomo e il suo cuore sono l’alfabeto di cui Dio si serve per raccontare di sé, del suo volto di Padre, della sua grandezza nel dono e nella misericordia; sa, Gesù, che solo parlando dell’uomo e della terra ci può parlare di Dio suo Padre, che lui solo ben conosce avendo vissuto nel suo abbraccio. Gesù guarda, osserva e ci parla di Dio: ci parla cioè della vita e della morte, della paura e della speranza, della caduta e del perdono, utilizzando le immagini di ciò che lui osserva, di ciò che lui contempla.

Ma noi, che cosa vediamo in questi giorni?

Noi che – penalizzati da contratti ingiusti – siamo senza lavoro o che forse siamo in ferie forzatamente…, noi che ci ritroviamo a vivere tutto il giorno con i nostri bambini e fatichiamo a gestirli…, noi che non possiamo uscire di casa e l’unico fiore che abbiamo lotta per sprigionare i suoi colori dentro un vasetto collocato sulla nostra finestra…: noi che cosa guardiamo?

Maledetta primavera

Perennemente attaccati alle nostre “protesi elettroniche”, rischiamo di vedere solo la conta dei morti, la crescita della curva dei contagiati, i raffronti con le situazioni dei vari paesi interessati, le opinioni dei giornalisti, le decisioni dei politici.

La parola del Vangelo viene ad invitarci a spostare lo sguardo, o meglio, ad integrarlo

Non si tratta di non vedere, di non prendere atto della gravità oggettiva della situazione. Chi non si vuole rendere conto e continua a vivere infischiandosene di scelte di responsabilità o minimizzando il problema, non si sta abbandonando alla provvidenza, quanto piuttosto sta attivando un cinismo irresponsabile di chi pensa “non mi riguarda” o “io tanto me la cavo” e non custodisce chi è più fragile, né partecipa al raggiungimento di un fine comune di uscita da una situazione che è grave.

Si tratta, però, di non limitare il proprio sguardo soltanto a questo, di non perdere l’“intero”, di non essere più capaci solo di razionalità, ma anche di contemplazione e quindi di fiducia.

Le parole «non preoccupatevi di che cosa mangerete o di che cosa berrete» (Mt 6,25) sembrano indirizzate a coloro che svaligiano i supermercati, abbandonandosi ad una paura irrazionale, affinché si rendano conto che si tratta di guardare altrove.

Tutt’altro che bucoliche o consolatorie, le parole di Gesù ci aprono la strada ad un atteggiamento nuovo, di consapevolezza, di fiducia e libertà.

Di consapevolezza, anzitutto: affinché ci rendiamo conto che non siamo onnipotenti

Ci voleva un Coronavirus per ricordarci la nostra condizione creaturale, fragile, esposta? La nostra irriducibile mortalità?

Ricordarlo non significa vivere sotto la paura e percepirsi in costante pericolo. Significa, al contrario, essere finalmente coscienti che la vita è donata, non dipende da noi. Che se viviamo è perché siamo all’interno di questo continuo moto di creazione che è l’abbondanza della vita di Dio riversata in noi. Se agli uccelli del cielo e ai gigli del campo viene donato cibo e vestito, che cosa non fa per noi ogni giorno il Signore?

La primavera, che anche in questo anno ci sorprende con la sua ricchezza di vita, ce lo ricorda: basta che guardiamo, basta che osserviamo.

Di fiducia, quindi: perché impariamo a non vivere nell’ansia e nella preoccupazione 

Il Coronavirus, nemico invisibile che sfugge al nostro controllo, ci consegna quella che per una società come quella attuale, risuona come la più minacciosa delle notizie: non tutto dipende da noi, molte cose ci sfuggono, non sono gestibili dalle nostre programmazioni.

Ma questo non significa vivere nel terrore, essere vinti dal panico: significa, invece, ritrovare la verità che tutto è dono, che quello che conta – la vita, l’amore, la bellezza – non sono realtà controllabili, che si possono progettare, realizzare, gestire. C’è anche qui un vangelo nascosto da riscoprire: «Il Padre vostro sa che ne avete bisogno» (v. 32). Dio sa quello che noi rischiamo di non ricordare più: che si vive dell’inutile più che dell’utile. Del gratuito più che di quello che possiamo procurarci (o, a volte, accaparrarci) con le nostre forze.

Maledetta primavera

La primavera, che come ogni anno spreca bellezza e colori anche solo per la durata di un giorno, ce lo ricorda: osservate, guardate… «voi valete più di loro» (v. 26).

Di libertà, infine: per imparare a godere la vita, giorno per giorno

Non mi basta sapere oggi quanti siano i contagiati dal Coronavirus…, nella folle corsa dove la velocità è successo e denaro, occorre che io sappia fin da ora quanti saranno quelli di domani e tra una settimana e tra un mese… Se guardare lontano è la virtù dei profeti, capaci di interpretare i segni del presente per cogliere verso quale tempo il popolo si sta orientando, la fuga in avanti volta ad anticipare ogni evento e a bruciare l’avversario al traguardo è, invece, la tentazione dei dominatori.

Gesù con questa parola ci invita alla libertà: quella che ogni giorno sa godere di quel giorno, che sa cogliere l’attimo, che sa vivere il presente per gustarlo fino in fondo… anziché lasciarsi portare via ciò che oggi è donato, da un eventuale futuro che tutti vedono sempre e solo minaccioso. «A ciascun giorno basta la sua pena» (v. 43) è una saggezza di cui noi cristiani dobbiamo ritornare ad essere capaci, per essere liberi, per vivere lieti, per non lasciarci portare via il sapore buono della vita.

La primavera, che giorno dopo giorno dona nuovi colori e nuovi profumi, che spreca con abbondanza per ogni “oggi” un succo abbondante, ce lo annuncia: gusta il presente, non affannarti per il domani.

Quindi, maledetta non lo è mai la primavera. Sempre benedetta, in ogni tempo. Per noi cristiani, poi, è immagine eloquente di una Pasqua dove la vita vince la morte, è portatrice – con i suoi doni sempre sorprendenti e la sua ebbrezza di vita – di una speranza che ci supera, che non viene da noi, che ci è continuamente restituita con abbondanza e alla quale siamo sempre e sempre invitati a dare fiducia.


Emergenza socio-sanitaria e forme di vita cristiana
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