Novena di Natale. 24 dicembre: Arriva lo Sposo

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novena di natale

Ogni vigilia si proietta su un domani, e ne riceve i colori e le emozioni. Genera gioia o paura: dipende da ciò che forma l’oggetto dell’attesa. Mi fa pensare a una foce, un grande delta dove si raccolgono e convergono rivoli e fiumi che sono i nostri svariati desideri.

Vigilia

Non tutte le vigilie sono buone: quando prevediamo una brutta notizia, quando aspettiamo che qualche “autorità” decida il nostro destino, la vigilia è fonte di ansia, tale da toglierci il sonno.

Oggi però conosciamo già la notizia che sarà proclamata: l’annuncio di una nascita che porterà gioia in tutto il mondo, perché verrà a noi uno che ci “salverà”. Il punto, naturalmente, è che ci sia in noi l’attesa di un “salvatore”. Chi non aspetta nessuno perché pensa di essere così “pieno” da bastare a se stesso, e chi all’opposto è talmente oppresso dai propri “vuoti” che ha finito di sperare, non conosce nessuna vigilia.

Noi oggi ci mettiamo con il popolo dei “poveri”, i pastori, che restano a vegliare in attesa nel cuore della notte, con il popolo dei “cercatori”, i magi, che scrutano il cielo alla ricerca di “segni” che li guidino al traguardo sperato.

Conta dunque questa sera esplorare ciò che in noi è in stato di veglia e di ricerca. È necessario accendere l’attenzione. Questa nascita è un fatto che accade e insieme un mistero da comprendere: è una cosa grande che ha a che fare nientemeno che con Dio, un fatto che ci arriva proprio per questo in modo “velato”, che dunque costringe a penetrarne il senso. In esso contano più le parole che le immagini, conta più ciò che si “ode” rispetto a ciò che si “vede”. È esattamente il percorso su cui ci invita l’antifona del Vespro.

L’antifona della Vigilia annuncia la “notizia” della nascita con un linguaggio grandioso:

«Quanto il sole sarà sorto dal cielo

apparirà il Re dei re che procede dal Padre

come sposo che esce dalla stanza nuziale».

Nascita

Nessun rapporto con la scena che siamo abituati a vedere nel presepio; verrebbe da dire che, in queste parole, non troviamo niente che sia particolarmente “natalizio”! L’antifona, pur servendosi di belle immagini, parla un linguaggio “teologico”, rivela cioè il senso di una strana “nascita” mediante frasi che arrivano dai salmi e dalla confessione di fede.

Cominciamo da qui, anche se, per il vero, questo sarebbe più logicamente un punto di arrivo. Il fatto naturale rimanda al momento dell’alba, già contemplato nell’Antifona O Oriente. Quella che vediamo è una scena trionfale. Quel sole che sorge/esce/nasce dal cielo (Mal 3,20) è immagine di Gesù che, come Re dei re, procede da quel “cielo” che è il Padre, grembo che genera il Figlio.

Il Figlio è descritto come «sposo che esce dalla stanza nuziale» (Sal 19,6). L’immagine può apparire strana, ma è uno dei moltissimi riferimenti che nella Bibbia fanno del Dio di Israele lo sposo del popolo.

La stanza nuziale è il luogo dove si celebra l’amore che lega il Figlio al Padre. Da quella “stanza” colui che è chiamato “Re dei re” esce per fare le nozze con l’umanità, per impregnare il mondo con lo Spirito/Amore, che dal Padre e dal Figlio “procede” (Credo Niceno), comunicandogli il suo “fiato” vitale (spirito, vento e fiato sono in greco la stessa parola: pneuma). Lo farà sulla croce («consegnò lo spirito»: Gv 19,30), lo farà da risorto sugli apostoli (Gv 20,22) e sull’intera comunità dei discepoli (At 2,3-4).

Il testo è molto concentrato. È un poema grandioso, che dice in anticipo la pienezza di senso che avrà l’ingresso di Dio nella “materia” dell’umanità da salvare mediante il Verbo che si fa “carne”, e che ha il suo inizio proprio nella nascita del bambino di Betlemme.

Bambino

Quanto detto è ciò che “udiamo”, ma cosa in realtà “vediamo”? Un antico responsorio della liturgia natalizia suona così: «V. Che cosa avete visto, o pastori? Dite, raccontateci quello che vi è apparso. R. Abbiamo visto un bambino (Lc 2,16), e cori di angeli che lodavano il Signore (Lc 2,13-14)».

Il tonfo non poteva essere più profondo. E lo sconcerto è ancora più serio in quanto il messaggero di quella scena, che ha annunciato l’arrivo di un “salvatore” come «una grande gioia che sarà per tutto il popolo», dà come prova della verità di quanto ha detto questo segno: «un bambino avvolto in fasce adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,12)!

Dov’è il Re dei re? Dov’è il sole che avanza trionfante nel cielo? Dov’è la bellezza della stanza nuziale? È lì, in quel bambino che ha freddo e piange come gli altri, che per nascere non ha trovato di meglio che un riparo per gli animali, che morirà malamente, e, deposto dalla croce, sarà «avvolto in un lenzuolo» (Lc 23,53).

Per vivere bene la Vigilia che ci introduce al Natale, è necessario non scollegare le due scene, non separare la grotta di Betlemme dal Calvario, come si dice da sempre nella Chiesa.

Croce

Il sole che sorge dal cielo, il Figlio/sposo che procede dal Padre e dalla stanza nuziale, è lo stesso che san Paolo descrive in un inno della prima Chiesa: «Gesù non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso riducendosi al niente della morte di croce; per questo Dio lo ha esaltato al di sopra di tutto nel più alto dei cieli» (cf. Fil 2,6-11).

Il richiamo non è un invito a coprire di tristezza il Natale, al contrario! L’oro della festa traduce la gioia di constatare fino a che punto Dio ci ha voluto bene. Insieme, però, è bene che non dimentichiamo fino a che punto può, e dovrebbe arrivare l’amore, ogni forma di amore, incluso quello che si materializza nelle nostre povere misure.

In una pagina di finissima analisi, il vescovo Lancelot Andrewes (1555-1626), elenca nel Sermone 12 per il Natale sette ragioni per cui questa nascita è un “segno” (Dio è diventato uomo, Qiqajon 2015, p. 211-215). Mi limito a ricordarne almeno tre.

  1. Un segno è tale proprio perché è fuori dall’ordinario: un sole che splende nel cielo non è un segno, un sole che si eclissa, un «sole vestito di sacco» lo è: questo è il re che si presenta come bambino povero in una stalla.
  2. Il segno è «per voi», dice l’angelo ai pastori, ed è come se dicesse che «tutti i poveri della terra possono rifugiarsi presso di lui, non avendo essi altro posto che questo. E con questo segno lo trovano».
  3. Infine, esiste un rapporto stretto tra il segno e l’oggetto segnato, quello che c’è tra il segno e «il corso successivo della sua vita e morte»; Andrewes scrive che «Possiamo anche cominciare con Cristo nella greppia (Christ in the Cratch): dobbiamo finire con Cristo sulla croce (Christ on the Cross)». Nell’inglese, le tre parole che si legano con l’allitterazione dicono che c’è una sorta di “piano divino” per cui in Cristo tutto si riconnette.
Greppia

E, alla fine, qual è il senso ultimo di tutto ciò? L’umiltà, anzitutto, dietro la quale poi si legge chiaramente l’amore con cui Dio si mette al nostro servizio. E merita citare la conclusione di questa parte del sermone: «La greppia è la culla del suo amore, non meno che della sua umiltà, e capace di provocare di nuovo il nostro amore. Quanto più lui si è fatto piccolo per noi, tanto più noi dobbiamo farci un’idea grande di lui» (p. 224).

Vedere la povertà nella grazia gentile di una nascita, e insieme vedere l’amore nelle atroci sofferenze della croce. Forse è questa la lezione più bella che ci viene dalla liturgia di questa vigilia. Natale e Pasqua, nel loro ritorno costante, ci ricordano che l’amore è bello, ma è una cosa seria.

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Un commento

  1. francesco lena 1 gennaio 2020

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