Lahore: perdonare Dio del dolore innocente?

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Pianto in Lahore

Alcune donne confortano una madre che h perso il figlio nella strage in un parco giochi a Lahore, Pakistan. (AP Photo/K.M. Chaudary)

Un kamikaze pakistano musulmano si fa saltare in aria nel parco giochi di una chiesa cristiana a Lahore, nel giorno di Pasqua, uccidendo 72 persone tra mamme e bambini. La maggior parte di questi sono cristiani, ma non tutti.
Come non affrontare il quesito: Dove era Dio? Meglio non esista, piuttosto ch’egli venga riconosciuto complice di un simile crimine.
Per parte mia, proprio in questi giorni, ho da sopportare episodi strazianti, protagonisti i poveri che frequentano la chiesa.
Non mi interessa certo qui discutere (apologeticamente, magari) il problema del dolore.
Anche perché, di fatto, dalle 4 del mattino fino a ora (sono le 11 del lunedì di Pasqua, e ho appena finito la messa) non ho fatto altro che pregare il tema.
Non mi interessa la questione teologica. Mi interessa il mio rapporto con Dio, col Dio pasquale di questi giorni.

Intanto, protesto una volta di più contro le definizioni catechistica di onnipotenza, onniscienza, onnipresenza: davvero, intese per come sono state intese, rendono Dio complice del male, colpevole di omissione di soccorso.
Onnipotenza. Affermazione ingenua, che ingenuamente presuppone la possibilità di un mondo perfettissimo.
Tale non poteva essere nemmeno il paradiso terrestre: tant’è vero che lì è stato possibile il peccato come radice dell’esistenza umana.
Il Dio creatore – creando – si fa piccolo, e non immenso. Si condiziona nella strettezza. Si candida – a suo modo – a una specie di morte quando la creatura del suo sogno giunge all’esaurimento.
E se non vuole creare panteisticamente un mondo come pura emanazione di sé, deve dare al mondo un’autonomia che – prima o poi – gli si rivolta contro.
In particolare, non può dare all’uomo una libertà condizionata dal suo volere divino perché, in tal caso, non potrebbe chiedere all’uomo una risposta di amore, che deve essere libero anche di rifiutarsi, se no non sarebbe amore.
Certo, la pre-scienza di Dio lo fa in certo modo onnisciente: ma perché egli vede in anticipo, non si dirà che decida in anticipo ciò che dovrà succedere. Egli, in anticipo, può dar grazia all’uomo in modo da renderlo capace di dialogo col suo creatore, ma si tratta pur sempre di grazia, e non di condizionamento.
È vero il contrario: è Dio che, per colmo di gratuità, si lascia condizionare al punto di doversi sottomettere all’arbitrio umano. Arbitrio che giunge a impedire l’onnipotenza di Dio.

Dove il male è davvero male, Dio non può essere presente; non solo nell’inferno del peccato, ma anche nell’inferno della sventura (così come non era lì che come spettatore al momento della carneficina pakistana).
Non sto sdottorando. Sto parlano di un Dio che scientemente si fa piccolo e perfino indifeso, davanti ai suoi partners (umani o angelici).
Non davvero per voglia autodistruttiva. Se non accettasse di sottomettersi in piccolezza a coloro ch’egli vuol esaltare nella gloria di essere amanti di Dio, vorrebbe dire che Dio non conosce l’amore.
Dio ama anche l’inferno. Oh, non come strumento di castigo o magari di vendetta. (La vendetta è la reazione di chi, prima di subire e dopo aver subìto il danno, deve ammettere di non poterci far nulla, altro che maledire).
Quello che Dio può fare da onnipotente onnisciente onnipresente è cogliere il limite nei suoi disastri, per condurlo a un di più di amore.
Sì, il pleroma finale dimostrerà che il Dio che ha continuato a morire oltre misura non ha fatto altro che far di tutto per donarsi in puro amore.

Gesù Cristo. Gesù, il Dio infinito in quanto piccolo, entra nell’inferno e nella sventura, non per cancellarli, ma per trasformarli dal di dentro.

La Pasqua. Anche se si afferma la necessità dell’inferno come dato di fatto, e non solo come eventualità evitabile in grazia di Gesù, si dovrà dire che l’inferno è abitato da Dio e dal suo amore: non come luogo di vendetta, ma di strenua dedizione alla libertà dei dannati, come dimostrazione di una paternità che non si disdice mai più, come rivelazione ai dannati del loro valore, visto che Dio, per loro, dà la sua vita.

In quanto alla sventura, che dire?  Gesù la soffre con noi lui per primo. Soffre il limite naturale, soffre i condizionamenti della storia, soffre di non riuscire a farsi accettare.
Si carica di queste croci. Le tramuterà nella gloria come testimonianza del fin dove ha potuto giungere il suo amore.
Noi vorremmo forzarlo al miracolo: che sarebbe un modo economico di cavarsela; un modo di amare di meno e non di più.
Gesù ama fino in fondo. E così amano i suoi santi.
Mamme e bimbi pakistani (ma anche i poveri della mia chiesa!) arriveranno a essere fieri di aver offerto le loro membra e la loro vitalità per esprimere gli estremi più azzardati dell’amore di Dio.
Ecco: non chiamare in causa solo i successi e gli insuccessi cosmici, le cose, la materia e le sue frustrazioni, come se in questi dati materiali si concretasse il problema del dolore.
Non chiedere a Dio solo il saldo del conto spese.
Guardare davvero il suo cuore, capire la forza struggente della sua com-passione. Fare causa comune con la sua persona, che è la prima ad andarvene di mezzo.
È difficile, ma si può provare ad amare un Dio così: cioè ad amare l’Amore.

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