Via Crucis in compagnia di Giuliana di Norwich

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Ogni anno la Quaresima ci sollecita a rimeditare quella che è tradizionalmente chiamata Via Crucis, che è quanto dire un “cammino” che parte dalla condanna di Gesù nel pretorio di Pilato e sale fino alla collina del Golgotha, dove Gesù verrà crocifisso e, dopo la sua morte, sepolto, per rimanere nel ventre della terra tre giorni fino a uscirne risorto e glorioso.

È un cammino tradizionalmente fissato in quattordici “stazioni”, o soste, che scandiscono i passi di Gesù sulla via dolorosa, che siamo invitati a percorrere con lui. Non è, ovviamente, l’unico modo di prepararsi alla Pasqua. Ciò che conta è usare il tempo quaresimale per meditare ogni anno sul cuore della nostra fede, quello che chiamiamo “mistero pasquale” che si realizza nella morte e risurrezione di Gesù di Nazareth.

Lo chiamiamo “mistero” perché in esso vi è “di più” di quanto si vede negli eventi che lo costituiscono e, insieme, perché in quel di più si rivela, in modo misterioso e spesso sconcertante, l’impronta e l’azione di Dio stesso, qualcosa che sfugge ai sensi ma che è chiaramente percepito dagli occhi della fede. Per dirla tutta e subito: nella passione di Gesù noi vediamo la miseria di una morte in cui però si nasconde la forza di una vita, così piena e dirompente da valere come riscatto per tutto il male del mondo.

E dunque, guardare la croce significa intravedere in quell’avvenimento e in quel segno “una rivelazionedell’amore”, perché lì scopriamo un modo di consegnarsi alla morte che pone il sigillo finale a una vita, quella di Gesù, tutta spesa nel “servizio” degli altri, a cominciare dai più poveri e dai più sofferenti.

Per usare un’espressione mirabile di Leone Magno, il grande papa del V secolo, la Pasqua – intendendo con questo termine il legame inestricabile tra morte e vita – resta per noi un sacramentum et exemplum, cioè un “mistero” da contemplare per farne un “esempio” da imitare, non uno senza l’altro!

La contemplazione tradizionale passa per il cammino della Via crucis, ma – come si è detto – non è il solo percorso possibile. Un altro esercizio ben noto è quello di sostare meditando sulle Sette Parole pronunciate da Gesù sulla croce, una sorta di testamento in cui si riassume un insegnamento e un esempio lasciatoci in eredità dal Rabbi di Nazareth.

Una rivelazione dell’amore (Àncora, Milano, 2015) è ora il titolo sotto il quale appaiono le meditazioni teologiche di Giuliana di Norwich, la mistica inglese vissuta dal 1343 al 1416 circa, note anche come Rivelazioni, il cui centro è la passione di Gesù. Le riflessioni qui proposte si ispirano a quest’opera, e sono basate su alcune citazioni del libro che costituiscono un itinerario fatto non tanto di “scene” relative a episodi del cammino verso il Calvario quanto piuttosto di “soste” di riflessione su alcuni temi di carattere teologico e spirituale direttamente derivati dalla contemplazione del “mistero” che si dispiegò nella vicenda conclusiva della vita di Gesù.

Non ci si spaventi! Non fatico a immaginare che parole come “mistica”, “rivelazioni” e “teologia” possano creare più di una  perplessità, e far pensare subito a cose imprendibili e astratte, riservate al massimo per addetti ai lavori. Non è così. Provo a spiegarmi velocemente.

La “mistica” è stata definita “conoscenza sperimentale di Dio”, e dunque è qualcosa che ha a che fare con un “conoscere” che passa attraverso un’“esperienza”, in particolare quella sensazione che possiamo provare tutti e che ci porta a sentirci “fuori” o “al di sopra” di ciò che è ordinario.

Lo straordinario della mistica è l’intensità di tale esperienza, che lascia un marchio indelebile nella nostra memoria emotiva oltre che visiva. Che tale esperienza assuma a volte la forma di “visioni” o “rivelazioni” è raro, ma non impossibile, e non è neanche la cosa più importante. Quello che conta è la teologia che scopriamo in tali esperienze, cioè il “significato” di ciò che è visto o rivelato, il messaggio che Dio ci invia, o che noi  comprendiamo, attraverso tali esperienze. Il tutto può essere detto in poche parole.

Giuliana ebbe nel 1373 una serie di “visioni” durata tre giorni; a capirne il significato e a scriverne per comunicarlo a quelli che ama chiamare i suoi “fratelli di fede”, o “co-cristiani”, impiegò vent’anni. E lo fece quando capì che quanto aveva ricevuto era “una rivelazione dell’amore”, trasmessa a lei in tempi molto difficili perché fosse di  “consolazione e conforto” a tutti quelli che vedevano nella croce un messaggio di salvezza. Ecco detto il che cosa, il come e il perché!

Spero che – a questo punto – il lettore trovi l’atteggiamento giusto per apprezzare e far proprio quanto si andrà dicendo. Non si aspetti l’annuncio di cose strampalate o di chissà quali misteri! Giuliana è una mistica che è una teologa seria e una sapiente maestra di vita spirituale. Chi la legge e la frequenta sa che da essa può ricavare saggezza, conforto e tranquillità immergendosi in quella fonte d’amore che è Gesù Crocifisso.[1]

Via crucis con Giuliana di Norwich

1° Venerdì: La croce: un oblò di luce nel buio del mondo

Nella camera attorno a me si fece un buio tale come se fosse notte, tranne sull’immagine della croce, dove rimaneva una luce ordinaria, e non capivo come. Tutto ciò che stava attorno alla croce era orribile e mi riempiva di paura, come se ci fosse un gran numero di diavoli. (3.141)

Tutto comincia qui. Giuliana si trova nel punto più grave di una malattia fisica che l’ha colpita all’età di trent’anni e mezzo, e che ora la fa sentire vicina alla morte. Per alleviarle il respiro la fanno sedere sul letto. Viene mandato a chiamare il curato per assisterla nell’agonia. Costui, ponendole davanti la croce, le si rivolge con queste parole: «Ho portato l’immagine del tuo salvatore; guardala e ricevine conforto» (140).

Pur essendo in quel momento con gli occhi rivolti al cielo dove spera di arrivare presto, Giuliana obbedisce all’invito di abbassare lo sguardo sul crocifisso. A quel punto la sua vista comincia a indebolirsi, e quel che segue è nella frase posta in esergo che costituisce la prima “visione” o “rivelazione” cui ne seguiranno altre quindici.

Credo che non vi sia migliore introduzione al percorso di “contemplazione della croce” che qui vorremmo disegnare per sommi capi, quello che Giuliana tratteggerà prima in una versione breve, ripresa poi, dopo una riflessione di anni, nel cosiddetto Testo Lungo da lei stessa descritto come “una rivelazione dell’amore”.

La scena è dipinta con pochi tocchi magistrali che riassumono in modo estremamente conciso la tragedia del Calvario e il suo significato. Sono:

1) il mondo avvolto in un buio profondo con evidente richiamo alle “tenebre” che, alla morte di Gesù, coprono la terra (cf. Mt 27,45);

2) lo spiraglio che si apre proprio sulla croce che appare avvolta da una “luce” naturale;

3) il senso del buio che suscita orrore e paura in quanto emblema del “male” che si materializza in una folla di diavoli. Si badi anche al senso del contesto, che emerge da tre osservazioni.

Per la prima, Giuliana che cerca sollievo guardando il cielo, è pregata di abbassare gli occhi e di posarli sulla croce, perché è quella la “via” che conduce al cielo.

Per la seconda, quella che illumina la croce è una luce ordinaria, naturale (common), non dunque qualche lampo straordinario o vistoso come spesso si pensa che siano le rivelazioni.

Per la terza, per quanto paradossale possa sembrare, è proprio dalla croce che le viene il “conforto” che lei cerca nella sua agonia, come ha ben capito un copista del testo di Giuliana che ha concluso così il suo lavoro: «Così termina la rivelazione dell’amore della Trinità beata che il nostro signore Gesù Cristo ha manifestato perché fosse a noi di conforto e consolazione eterna, e perché potessimo gioire in lui durante il fuggevole pellegrinaggio di questa vita» (Poscritto, p. 330).

Temo che di questi tempi il solo sentir parlare di “diavoli” faccia pensare al medioevo più oscuro e a una fede che viveva sulla paura. Non mi pare il caso. Lo si chiami come si vuole, ma il termine “diavolo” – letteralmente colui che si mette di traverso, che divide, che ostacola – è una scelta pratica per indicare la materializzazione di ciò che, con un termine astratto, chiamiamo il male, indicato peraltro nella stessa immagine delle tenebre. Tutto si chiarisce quando si pensi che una visione realistica del mondo e dell’umanità che lo abita comprende inevitabilmente una contrapposizione ben nota: quella tra bene/luce e male/buio.

Conviene a questo punto segnalare che quanto Giuliana “vede” ha già un suo retroterra biblico di enorme rilevanza, ed è negli scritti di Giovanni, dove è detto che «tutto il mondo è sotto il potere del maligno» (1Gv 15,19), che «In lui (nel Verbo) era la vita, e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta” (Gv 1,4-5), e per finire che chi segue Gesù «non camminerà nelle tenebre» (Gv 8,12), e che la luce è l’amore, mentre il buio è l’odio (cf. 1Gv 2,8-11).

Lo stile di Giovanni, che procede per nette contrapposizioni, potrà non piacere a qualcuno, ma ha il vantaggio di farci uscire dalla confusione e dall’indeterminatezza – favorita per il vero dal fatto che la frontiera che separa in noi lo spazio della luce da quello del buio rimane fluida e mobile – e il pregio di metterci davanti alla necessità di prendere posizioni altrettanto nette, fatta salva la misericordia nel valutare i comportamenti concreti delle persone, restando attenti a evitare pre-giudizi di condanna inappellabile. Peraltro, ricordo quanto disse qualcuno: se volete sapere cosa è il peccato originale leggete la Bibbia, se ancora non capite, aprite i giornali o la TV.

Il secondo punto che appare già chiaro nel branetto di Giuliana, e che sarà il filo conduttore di tutto il suo libro è quella luce “ordinaria” che irradia dalla croce. A prima vista sembra solo una fessura che si apre in un muro di tenebra, uno spiraglio esiguo che trafigge il buio incombente, quasi in perenne pericolo di essere soffocato del tutto.

Qui sarebbe da ricordare tutta la riflessione che Giuliana fa sul male e sul peccato, che lei vede come due facce della stessa medaglia. Mentre noi siamo abituati a leggere il “peccato” in termini di trasgressione morale che merita perciò un castigo, la mistica ne ha un’idea parecchio più larga, ne fa quella che potremmo chiamare una “ferita cosmica”. Scrive: «In questa semplice parola “peccato” nostro Signore rivelò alla mia mente in generale tutto ciò che non è buono, e il vergognoso disprezzo e l’immensa umiliazione che egli sopportò per noi in questa vita, e la sua morte e tutte le pene, e le passioni di tutte le sue creature, nello spirito e nel corpo» (27.193-194).

Male e dolore vengono così a fondersi, e dunque si deve ricordare in prima battuta che il male, come il dolore, è anzitutto qualcosa che “subiamo”, è esperienza di fragilità e di fallimento. Con questo in mente ci vengono più facili la compassione e il perdono, per noi e per gli altri.

In secondo luogo Giuliana, sulla scorta di una consolidata tradizione, afferma che il peccato, nel senso detto sopra, è “niente”, che significa mancanza di essere, deficienza, incapacità, menomazione, e poiché la gioia è il riverbero di una presenza o pienezza di “essere”, è naturale che, come lei scrive, «il peccato non abbia una sua sostanza né alcuna forma di essere, né può essere riconosciuto se non per la sofferenza che ne deriva» (27,194). La conseguenza è che, se il peccato è niente e morte, non può mai essere considerato come qualcosa di positivo, come qualcosa che favorisce o coincide con la realizzazione di sé.

In questo paesaggio segnato dal dominio del buio, quale può essere il “conforto” che viene dalla contemplazione della croce? Anzitutto, la condanna e l’uccisione di un innocente – da sempre punto di partenza della Via Crucis – è la prova più lampante che l’umanità è alla radice marcata dal male, sia quello morale che quello fisico o psicologico, di cui la morte in croce, come in fondo ogni morte («l’ultimo nemico» la chiama Paolo in 1Cor 15,26), è il documento più chiaro, da prendere sul serio oltre ogni visione ingenua o buonista dell’uomo.

E però il “modo” in cui Gesù è morto, che ne fa uno “specchio di pazienza”, resta pur sempre un grandissimo segno di amore tale da vincere alla radice la malvagità che abita in ogni cuore, e diventa così fonte di speranza e di fiducia: «la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non sono riuscite a soffocarla» (Gv 1,5).

Ma c’è soprattutto un’altra ragione di conforto offerta dalla croce. Certe teologie spiegano la morte di Gesù come un “prezzo” che lui avrebbe pagato per noi. Un’altra prospettiva vede invece quella fine non in termini di “sostituzione”, ma di “solidarietà”. Facendosi uomo, il Figlio di Dio, fin dal suo incarnarsi solidarizza con la nostra condizione segnata dal peccato come “deficienza di essere”, e lo fa rivestendo la nostra fragilità alla nascita e sperimentando il nostro fallimento sulla croce, scendendo così fino in fondo a quell’abisso del nulla che è la morte. Così restaura l’umanità, la porta alla pienezza dell’essere e quindi della gioia. Per questo, come il peccato crea sofferenza e sconforto, così la passione di Gesù diventa un «conforto contro il peccato» (27.194). La conclusione di questo discorso è scolpita nell’affermazione più famosa di Giuliana: «Il peccato è inevitabile, ma tutto sarà bene, e ogni specie di cosa sarà bene» (27.193).

Quella che era una piccola «luce ordinaria», rivelerà alla fine tutto il suo fulgore, nella città celeste «illuminata dalla gloria di Dio, che ha per lampada l’Agnello che è stato immolato» (cf. Ap 21,23; 5,12).

Mi piace citare, a conclusione, una famosa e bella preghiera di John H. Newman, scritta in un momento di grande difficoltà in cui si assommavano uno stato di malattia e una tempesta di mare:

«Luce gentile guidami nel buio che mi avvolge,
continua tu a guidarmi.
Nera è la notte, lontana è la mia casa,
tu continua a guidarmi.
Custodisci i miei passi;
vedere non ti chiedo lo scenario lontano:
un sol passo mi basta».

Le immagini richiamano il contesto sul quale si apre la grande “rivelazione dell’amore” che Giuliana di Norwich comincia a intuire nella sua agonia come una “luce ordinaria” che resiste attorno al crocifisso che le sta davanti in un paesaggio avvolto da un buio incombente che fa paura. Quella piccola luce, sempre a rischio di essere inghiottita dal buio, permette al nostro cammino di avanzare, anche a piccoli passi, uno alla volta.


[1] I riferimenti al testo di Giuliana si riferiscono alla nuova edizione del Libro delle rivelazioni (titolo precedente), diventato ora, usando le parole della stessa mistica, Una rivelazione dell’amore (Àncora, Milano 2015). Le citazioni sono fatte indicando il numero del capitolo seguito dal numero della pagina. Chi possiede la vecchia edizione non faticherà a ritrovarsi, se pur con leggere mutazioni, cercando nel capitolo indicato. So di fare un’operazione inedita, ma ho voluto provare a costruire un cammino della croce che si tenesse a uguale distanza da un accento troppo unilaterale sul dolore così come da una teologia che rischia le nuvole. Sono convinto che Giuliana riesca a tenere una salutare via media.

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Un commento

  1. Giuliana de Faveri Tron 29 luglio 2018

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