14. Matrimonio come “segno imperfetto”

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Alcuni passi della esortazione apostolica Amoris lætitia, nei quali la dottrina sacramentale sul matrimonio viene fatta oggetto di accurata riflessione, possono tornare assai utili per comprendere la prospettiva di lettura che il documento offre del profilo propriamente sacramentale del matrimonio. Proviamo a considerare con un minimo di ampiezza la questione nei suoi contorni classici, che spesso passano sotto silenzio.

a) Una prospettiva complessiva sulla “mistica nuziale”

In effetti, cercando di valutare l’evoluzione della dottrina matrimoniale degli ultimi decenni, non è difficile notare una sorta di “accelerazione” del pensiero sul matrimonio, che ha trovato buono spunto nel Concilio Vaticano II, traendo da esso una nuova e potente correlazione tra matrimonio ed eucaristia.

Questo deve essere considerato come uno dei tratti nuovi e promettenti della riflessione teologica dell’ultimo secolo, che tuttavia un bravo teologo inglese come Fergus Kerr – nel suo testo del 2007 (Oxford – Blackwell) sui Teologi cattolici del XX secolo, che ha per sottotitolo dalla neoscolastica alla mistica nuziale – ha riconosciuto come caratterizzato da una “mistica nuziale” che ha pesantemente condizionato tutto il sapere teologico, compreso anche – ovviamente – il “sapere matrimoniale”. Non è certo sorprendente che una teologia generale che assume le movenze di una “mistica nuziale” possa estendere questo suo “stile” anche al sacramento del matrimonio. Ma, come direbbe un altro bravo teologo del nostro tempo, non è affatto detto che ciò che appare “ovvio” sia anche “compreso”.

In effetti, e forse contro le nostre migliori aspettative, scopriamo che una accurata differenziazione tra una “mistica nuziale” e il “sacramento del matrimonio” appare come una delle più preziose acquisizioni della tradizione teologica latina, che conosce da almeno 8 secoli l’irriducibile complessità della “humana generatio” e della “individua coniunctio”. Provo ora ad esaminarla brevemente.

b) La tradizione latina e il suo “genio”:
come comporre desiderio naturale, legge civile, mistero della fede

Proprio a questo livello, infatti, abbiamo elaborato almeno da 800 anni un “sapere teologico complesso” sul matrimonio, che considera almeno tre livelli dell’esperienza, che non possono essere né separati, né confusi: il matrimonio esiste come “desiderio naturale” nel quale, già semplicemente come “matrimonio creaturale”, sono presenti tutti i valori e i misteri fondamentali nella loro qualità di “segno”; il matrimonio esiste poi come patto sociale, come contratto, come relazione civile, orientata e protetta da leggi e da convenzioni, da culture e da linguaggi, da testi e da musiche: umana costruzione culturale e sociale, in risposta a natura e grazia; in terzo luogo lo stesso matrimonio viene riletto come grande dono di grazia, realizzazione della immagine di Dio, alleanza tra Cristo e la Chiesa, servizio e annuncio del Vangelo.

Tutto questo, appunto, nella tradizione cristiana, e in particolare nella tradizione cattolica latina, è stato custodito gelosamente, fino al XIX secolo. A partire dalla fine del 1800 il cattolicesimo è stato tentato da una soluzione opposta: o di ridurre tutto al livello “normativo”, oppure di sintetizzare tutto a livello mistico, perdendo la ricchezza di questa pluralità complicata. Da un lato la “legge canonica” ha provato, a partire dal 1917, a porsi come “logica assoluta” – salvo il bisogno di “concordati” con altre autorità competenti; dall’altro la teologia ha provato a derivare immediatamente dalla eucaristia il matrimonio, senza alcuna mediazione storica, coscienziale, normativa, pedagogica… il matrimonio doveva semplicemente “applicare” il rapporto Cristo/ Chiesa alla logica della coppia/famiglia. Anzi, proprio mediante questa accelerazione sospetta della mente speculativa – e della competenza pratica – si arrivava a pretendere dal matrimonio di essere semplicemente la “immagine compiuta del rapporto Cristo-Chiesa”. Dire sacramento significava “segno perfetto” e “analogia compiuta”.

Non mancavano, nella storia, i precedenti per questo “modello interpretativo”: in particolare si poteva trovare una linea che da molti secoli aveva fatto del “matrimonio” il “primo” tra i sacramenti, anche se – come aveva specificato Tommaso d’Aquino – questo si poteva dire solo nei limiti della “ratione significationis”, ossia secondo la logica e la modalità del segno (ma non della causa!). Ed è qui la grande differenza che dobbiamo oggi salvaguardare: l’eucaristia realizza immediatamente ciò che significa, mentre non è così per il matrimonio (e neppure per tutti gli altri sacramenti, salvo battesimo e cresima, che sono presupposto efficace della vita eucaristica).

c) “Amoris lætitia” corregge l’eccesso di una confusione senza distinzione

AL prende giustamente le distanze da questa accelerazione massimalista e fondamentalista nella dottrina matrimoniale, che pretenderebbe di abolire la differenza tra matrimonio e eucaristia. E lo fa con una duplice strategia. Da un lato, infatti, torna a pensare la “complicatezza della realtà coniugale”, senza imporre ideologicamente un modello estrinseco ad essa. Questa prima scelta impone anche una declinazione meno aprioristica della stessa realtà sacramentale rispetto alla esperienza dei soggetti. Tutto questo implica la riscoperta di una accurata “mediazione” – storica, coscienziale e culturale – del passaggio tra il “modello” e la “realtà”. In altri termini: l’amore gratuito e totale che lega Cristo e la Chiesa si fa “sacramento”. Questo è un punto acquisito della dottrina cattolica, che non viene posto in discussione. Ma la “corrispondenza” tra i diversi “gradi” del sacramento non può essere stabilita in modo semplicistico o, peggio, in modo meccanico ed estrinseco rispetto alle vite dei soggetti. Non si può dunque procedere come se per il fatto stesso di riconoscere come “sacramento” il matrimonio questo implicasse un’immediata coerenza e corrispondenza di esso con la logica del “sacramento più importante” – ossia con la comunione eucaristica. Come se tra matrimonio e eucaristia ci fosse semplicemente una logica dell’identità. Come se il matrimonio fosse “segno perfetto” e “analogia compiuta” della relazione tra Cristo e la sua Chiesa, in piena corrispondenza con l’eucaristia.

Qui non è difficile scovare una “magagna” non piccola della nostra tradizione più recente. Qui, come diceva il grande teologo Karl Barth, ci sono casi in cui una differenza sottile come un capello deve essere salvaguardata, per non cadere dalla verità nell’errore. Se si perde questa differenza e si congiunge irresponsabilmente mistica nuziale e formalismo normativo si genera un “monstruum” sistematico, che, in nome dell’idealizzazione di una relazione astratta, aggredisce la realtà familiare e la sfigura, per di più in nome del Vangelo. Segno e causa – pienamente in asse nella simbolica del sacramento dell’eucaristia – non sono affatto in asse nella realtà esistenziale del matrimonio. Confondere il dono, il dovere e il diritto e imporre il dono come un dovere è l’esito distorto di questa “smemoratezza” teologica. Proprio questa è la “grave dimenticanza” che affligge una parte non irrilevante della sacramentaria matrimoniale degli ultimi 50 anni, e che AL provvede giustamente a correggere, come vedremo nel prossimo paragrafo.

d) Due testi di estrema rilevanza: AL 72-73

Proprio su questo “pinnacolo” della nostra riflessione – ossia sulla correlazione tra sacramento dell’eucaristia e sacramento del matrimonio, che deve salvaguardare tanto la unità senza confusione, quanto la distinzione senza separazione – il testo di AL fornisce due letture di grande valore. Eccone il dettato, che riporto integralmente dal cap. III, sottolineandone in grassetto due frasi decisive:

72. Il sacramento del matrimonio non è una convenzione sociale, un rito vuoto o il mero segno esterno di un impegno. Il sacramento è un dono per la santificazione e la salvezza degli sposi, perché «la loro reciproca appartenenza è la rappresentazione reale, per il tramite del segno sacramentale, del rapporto stesso di Cristo con la Chiesa. Gli sposi sono pertanto il richiamo permanente per la Chiesa di ciò che è accaduto sulla Croce; sono l’uno per l’altra, e per i figli, testimoni della salvezza, di cui il sacramento li rende partecipi».[1] Il matrimonio è una vocazione, in quanto è una risposta alla specifica chiamata a vivere l’amore coniugale come segno imperfetto dell’amore tra Cristo e la Chiesa. Pertanto, la decisione di sposarsi e di formare una famiglia dev’essere frutto di un discernimento vocazionale.

73. «Il dono reciproco costitutivo del matrimonio sacramentale è radicato nella grazia del battesimo che stabilisce l’alleanza fondamentale di ogni persona con Cristo nella Chiesa. Nella reciproca accoglienza e con la grazia di Cristo i nubendi si promettono dono totale, fedeltà e apertura alla vita, essi riconoscono come elementi costitutivi del matrimonio i doni che Dio offre loro, prendendo sul serio il loro vicendevole impegno, in suo nome e di fronte alla Chiesa. Ora, nella fede è possibile assumere i beni del matrimonio come impegni meglio sostenibili mediante l’aiuto della grazia del sacramento. […] Pertanto, lo sguardo della Chiesa si volge agli sposi come al cuore della famiglia intera che volge anch’essa lo sguardo verso Gesù».[2] Il sacramento non è una “cosa” o una “forza”, perché in realtà Cristo stesso «viene incontro ai coniugi cristiani attraverso il sacramento del matrimonio. Egli rimane con loro, dà loro la forza di seguirlo prendendo su di sé la propria croce, di rialzarsi dopo le loro cadute, di perdonarsi vicendevolmente, di portare gli uni i pesi degli altri».[3] Il matrimonio cristiano è un segno che non solo indica quanto Cristo ha amato la sua Chiesa nell’alleanza sigillata sulla Croce, ma rende presente tale amore nella comunione degli sposi. Unendosi in una sola carne rappresentano lo sposalizio del Figlio di Dio con la natura umana. Per questo «nelle gioie del loro amore e della loro vita familiare egli concede loro, fin da quaggiù, una pregustazione del banchetto delle nozze dell’Agnello».[4] Benché «l’analogia tra la coppia marito-moglie e quella Cristo-Chiesa» sia una «analogia imperfetta»,[5] essa invita ad invocare il Signore perché riversi il suo amore dentro i limiti delle relazioni coniugali.

In entrambi i testi, l’annuncio del Vangelo nella logica della coppia e della famiglia non scivola nella facile tentazione di una lettura immediata, identificativa, istituzionale, oggettiva, “idealizzante” – e perciò anche inevitabilmente aggressiva – della realtà relazionale del matrimonio e della famiglia. Il peggio che possa capitare, alla tradizione matrimoniale, è di lasciarsi trascinare e di indurre a tradurre la mistica in aggressività. La imperfezione del segno e della analogia – e quindi lo spazio riconosciuto e garantito alla fragilità e alla fallibilità – non deve essere aggiunta come un accessorio esterno e strano, ma si manifesta come parte costitutiva di quel sacramento che la grande tradizione antica, medievale e moderna ha potuto pensare con maggiore libertà rispetto a noi, senza sentire quella pressione istituzionale che è apparsa già con il Concilio di Trento, ma che è diventata opprimente e paralizzante solo a partire dal sorgere degli stati liberali moderni. Di fronte ad essi la tentazione della Chiesa cattolica è stata di assumere un matrimonio idealizzato, addossando tutte le fragilità familiari non alla complessità della nuova esperienza coniugale, ma alla nequizia dei tempi. Ma questo è stato possibile solo cancellando dalla memoria tutti quei secoli precedenti, che erano stati segnati da una dottrina e da una disciplina che aveva accuratamente soppesato i diversi livelli della esperienza coniugale e familiare, senza aver bisogno o di opporli tra loro o di ridurli gli uni agli altri. Tommaso poteva dire, con tranquillità, nella sua Summa contra Gentiles, che la «humana generatio ordinatur ad multa»: ossia che siamo generati, nello stesso momento, alla natura, alla città e alla Chiesa. Ecco rievocata e riattualizzata la meravigliosa complicatezza del matrimonio.

e) Un’ermeneutica di AL che non sia incoerente con il testo

La lezione di AL è, anche in questo caso, il segno di una grande svolta, di linguaggio e di concezione. E non è un caso che oggi i toni più striduli nelle reazioni, e le note che spiccano più in alto sopra le righe, vengano precisamente da ambienti accademici e da uffici amministrativi in cui, in modo non raramente piuttosto esagerato, la riduzione del matrimonio o alla mistica nuziale o alla forma dogmatico-giuridica aveva ricevuto negli ultimi decenni la promozione più ostinata e la argomentazione più acritica.

AL riconduce tutti – con garbo – ad un giudizio sereno ed equilibrato sull’amore, sul matrimonio e sulla famiglia, non accettando più alcuna forma di riduzionismo, di massimalismo né di fondamentalismo: ora non potremo più ridurci né al minimalismo della forma dogmatico-giuridica, né al massimalismo della mistica nuziale. Il sacramento del matrimonio non è mai soltanto né in quel minimo formale di esteriorità dovute, né in quel massimo mistico di interiorità “interiores intimo meo”. Vive di una esteriorità virtuosa e di una interiorità formata che non si danno “di per sé” e che non sono coperte dall’“ex opere operato”. Entrambe queste “false soluzioni del problema” finiscono sempre con il peggiorare le cose, perché non ne riconoscono la complessità e la contingenza. Accettando invece la contingenza della relazione, senza demonizzarla – come fanno gli ideologi intransigenti – e senza ipostatizzarla – come fanno i funzionari zelanti – AL compie una piccola rivoluzione. E non è affatto un caso che il testo dell’esortazione apostolica incontri ora lo sfavore coalizzato di funzionari che guardano solo al passato e di ideologi con un piede e tre quarti già immerso nella solennità novissima del giudizio finale. E tra tanti che pontificano a tutto spiano, e si stracciano le vesti per le sorti della Chiesa e denunciano una confusione intollerabile – come se l’ordine corrispondesse necessariamente alla indifferenza – suscita sempre una certa impressione scoprire che è proprio il pontefice, invece, ad evitare con cura tutte queste false soluzioni. In mezzo a funzionari e a ideologi che sul matrimonio, anziché distinguere e discernere, non sanno fare altro che pontificare, si muove un pontefice che non “pontifica”, ma che esercita l’autorità nell’atto di riconoscere altre autorità: qui la realtà – pur con tutte le sue ombre e le sue rughe – è davvero superiore alla più perfetta delle idee.


[1] Giovanni Paolo II, esort. ap. Familiaris consortio (22 novembre 1981), 13: AAS 74 (1982), 94.
[2] Relatio Synodi 2014, 21.
[3] Catechismo della Chiesa Cattolica, 1642.
[4] Ibid.
[5] Catechesi (6 maggio 2015):L’Osservatore Romano(7 maggio 2015), p. 8.

Pubblicato il 29 maggio 2016 nel blog: Come se non  

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