Elmar Salmann: L’eterno transito

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L’eterno transito. Per Elmar Salmann

Il 12 maggio 2018 Elmar Salmann compie settant’anni, la gran parte dei quali dedicati a un’intelligenza teologica del Vangelo e della fede cristiana. Nella Chiesa le persone sono un dono, le loro competenze credenti una grazia che spesso, come in Caproni, non sappiamo neanche più dove abbiamo posto. Amissa non vuol dire dimenticata, ma rammemorata con nostalgia e incanto – proprio quando non ci sembra essere più accessibile. La gratitudine è sovente merce rara, nella vita come nella Chiesa; ma è la pasta di cui sono fatti i legami che contano, quelli che ci consegnano alla libertà di nuovi orizzonti e alla luce di nuovi mattini. Gratitudine dell’autore, Gianluca de Candia, a cui si unisce quella della nostra rivista. Si ringrazia Jörg Schellschmidt per il permesso di pubblicazione della foto di padre Salmann.

elmar salmann

Ci fu un uomo che amò l’ellissi più del cerchio.

All’unilateralità, invisa in ogni sua forma, preferì la tensione fra gli opposti, quali che fossero: concettuali, disciplinari, partitici o biografici.

Tre temi gli furono a cuore: l’io, il mondo e Dio.

Visse fra Italia e Germania; fu prete e professore universitario sui generis.

Amò pensare e predicare: aveva la grazia di portare la grande cultura nella predicazione, come se la letteratura fosse una cadenza naturale dell’omiletica; e in aula commentò i grandi testi della cultura occidentale, per svolgere l’esegesi del messaggio cristiano.

L’Italia fu la sua terra d’origine e la Germania la sua destinazione.

Sarebbe stato certo illuminante conoscere i suoi giudizi sugli sviluppi socio-culturali del Sessantotto. Il destino, sul quale pure scrisse, volle però che Romano Guardini morisse il primo ottobre di quell’anno.

Tra Tommaso e Rahner

Lo stesso mese in cui un giovane universitario, originario di Hagen, metteva punto all’ultima riga della sua tesi di baccellierato: Ursprüngliche Gotteserkenntnis bei Thomas von Aquin und Karl Rahner[1]. Si trovava a Vienna per il semestre libero di ricerca, come è d’uso in Germania.

Ha dell’incredibile, ma quelle pagine battute a macchina sono opera di un ventenne. Premessa e conclusione dello scritto fanno già presagire quel ‘Mastro artigiano’ di tesi che, negli anni, avrà decine e decine di studenti: una domanda chiara, un campo di osservazione ben delimitato, mai un solo autore, piuttosto una sinossi rigorosa fra diverse prospettive.

Ad accrescere la sorpresa qui è il fatto che a vincerla fra Tommaso d’Aquino e Karl Rahner, sia proprio l’Aquinate. Per il giovane baccelliere, affascinato dalla mens neoscolastica, è la prima secundae, e dunque la ragione pratica, la via originaria di accesso alla conoscenza di Dio. Eppure, in questo agone fra fede e ragione, fra prassi e visione, fra ontologia e trascendentalità, si intravede già il futuro approdo verso lidi ulteriori.

Gli inizi

Che il giovane fosse dotato era noto a tutti nel Fichte-Gymnasium di Hagen. Quando ogni docente, tranne quello di sport, pensava di fare di lui una promessa della sua disciplina. Col naturale disorientamento di chi molto può, Elmar pensava di poter studiare germanistica o forse scienze del teatro, financo filosofia. Ma certo non immaginava di poter abbracciare la teologia e ancor meno di entrare in seminario. Qualcun altro intuì o forse no, chissà.

Il Dr. Weinand, un giorno il suo insegnante di letteratura – un uomo di sinistra, sempre in cravatta, lontano mille miglia dalla Chiesa – mise nelle sue mani un vecchio libro degli anni Trenta dalla copertina color carta da zucchero: Das Wesen des Katholizismus di Karl Adam. Un’opera che al suo apparire fu un vero successo editoriale: già nel 1949 aveva raggiunto la dodicesima edizione. Un’eccellente lettura per un giovane ginnasiale. Karl Adam esponeva in una semplicità di linguaggio ciò che la teologia di scuola difendeva in modo ancora troppo formale: il «principio vitale» del cattolicesimo è un evento, una Vita che nella Chiesa continua a pulsare: der fortlebende Christus. È Lui l’essenza, la cui custodia è la Chiesa cattolica. E cattolico qui significa: capace di unire in uno spazio ellittico, e per questo ordinato ed universale, la molteplicità.

Con la disinvoltura propria dell’evidenza, Adam sosteneva che la conoscenza di Dio sia possibile solo perché egli stesso si è dato a conoscere. Un primato dell’agire sulla teoresi, che poi ispirerà anche la tesi del futuro baccelliere.

Le pagine dove si parla dell’ellissi sono quelle che il giovane lettore sottolinea con più fervore. Ai margini del testo vi traccia cerchi e trattini – come posso osservare nella copia originale, che ora nella mia libreria fa da sentinella agli altri volumi.

A questa lettura ne segue immediatamente un’altra: Die Religion (1956) di August Brunner con la sua celebrazione dell’idea di rappresentazione.

Trame provvidenziali

Ora, si sa, i libri possono certo diventare un importante movente per la scelta, ma restano pur sempre un elemento accessorio. Come diceva il card. John Henry Newman, la certezza morale accade per convergenza di fattori, al modo di tanti fili metallici sottilissimi, in sé fragili, ma che tenuti insieme costituiscono una sbarra molto forte.

Nell’ultimo anno del liceo, accompagnando il padre per un viaggio di lavoro nell’Est della Germania, Elmar incontrò il grigiore del totalitarismo. Fu l’impatto con la realtà amara di un Assoluto totalitario. Per un animo come il suo fu inevitabile la sinossi fra i due Assoluti.

Quel Principio di cui parlavano Adam e Brunner riemerse così in tutta la sua inderogabilità. La loro era sì la visione di un Assoluto che esigeva di essere rappresentato, ma si trattava di un Principio vitale, spaziale, relativo, totalizzante e non totalitario: «un Assoluto assolvente» – dirà poi Salmann. Un’idea che in Seminario avrebbe preso concretezza e carne nella scoperta della Trinità.

Nel Seminario di Paderborn, come del resto ovunque in Europa, erano quelli anni di passaggio: dalla teologia come lettura della Summa di Tommaso, alla nuova teologia post-conciliare, di cui Mühlen a Paderborn era avvocato; dalla «cura d’anime», come si soleva definire il lavoro del prete, alla «pastorale»; dall’aura sacrale del rappresentante del divino, al celebrante che si rivolge non più all’abside, ma al popolo; dall’organo, che con i suoi registri e il basso della pedaliera sapeva riempire uno spazio immenso, alla chitarra elettrica e alla batteria.

Erano gli anni della rivoluzione culturale del Sessantotto che, fra l’altro, determinò una profonda emorragia nel clero: dai 45 seminaristi del corso di studi di cui faceva parte Elmar Salmann, al termine solo 8 ricevettero l’ordinazione sacerdotale.

Una volta suo padre non mancò di rimarcare che il giovane delfino stava sposando una causa perdente. Aderiva ad un partito che aveva perso prima delle elezioni. Eppure, a Elmar questo non spiaceva del tutto. La scommessa era impossibile e in questo stava il suo fascino: fu ordinato sacerdote l’8 dicembre del 1972, per le mani del cardinale di Paderborn Lorenz Jäger (1892-1975).

Si potrebbe annoverare Jäger fra gli ultimi principi della chiesa tedesca. Alla tonsura amava acciuffare i capelli dei candidati per i quattro tagli di rito, come a consacrare un altare. Fu chiesto a Elmar Salmann di fargli da cerimoniere, seguendolo passo passo nel suo incedere barocco lungo la navata centrale del vecchio Duomo romanico. La sua mansione principale si svolgeva però nella psichiatria di Paderborn e nella piccola parrocchia di Balve.

Monachesimo

Il richiamo della vita religiosa, che fin dai primi mesi di seminario come una corrente carsica lo accompagnava, riemergeva ora con rinnovata insistenza. Il fascino per il primato del divino, della cura d’anime e della cultura era irresistibile e lo orientava ora in direzione opposta all’esperienza del Sessantotto, al cambiamento di stile della prassi ecclesiale, al lento tramontare del mondo classico.

Pochi mesi dopo l’ordinazione, nel 1973, bussa alla porta di Gerleve, un monastero benedettino fra Coesfeld e Billerbeck in Westfalia. Fa così il suo ingresso in un microcosmo, dove spazio e tempo seguono un ordine immutabile, cadenzato dal canto oggettivo del Graduale romano. E quando il coro è vuoto, il tempo è dedicato al lavoro. Scrive per diletto ed uso personale una storia della spiritualità da Origene fino a Teilhard de Chardin; e da questo studio nasce il progetto di un dottorato sul rapporto fra teologia e mistica, fra Modernismo e Neoscolastica negli anni Venti e Trenta del XX secolo. La tesi, discussa nel 1978 a Münster sotto la direzione di Peter Hünermann, porta il titolo: Gnadenerfahrung im Gebet. Zur Theorie der Mystik bei Anselm Stolz und Alois Mager.

Preghiera, cultura dunque, ma anche cura d’anime: accanto alla scrittura della tesi si dedica al lavoro di orientamento per i giovani degli ultimi anni di liceo, all’accompagnamento di gente in crisi e al lavoro di foresteria.

Roma, Sant’Anselmo

Dietro l’angolo, però, qualcosa di nuovo lo aspettava. Non era la fortuna, ma il momento in cui il talento incontrava l’occasione. E sappiamo chi dona i talenti e crea le occasioni. Siamo nel 1981.

Nell’estrema causalità della vita la stellare necessità: all’Ateneo Sant’Anselmo di Roma c’è bisogno di un docente di dogmatica. Elmar Salmann sembra promettere qualcosa, pensò Magnus Löhrer. E così fu: nel 1982 fu consulente della diocesi di Münster per elaborare il profilo teologico della mistica di Coesfeld Anna Katharina Emmerick in vista della causa di canonizzazione; docente di teologia e ordinario di filosofia, dal 1988 assume incarichi di insegnamento anche alla Gregoriana; decano di filosofia a Sant’Anselmo dal 1989 al 2001; dal 1992 al 2002 delegato dell’Ateneo pontificio per l’istituto di liturgia pastorale di Santa Giustina a Padova; nel 1997 fonda a Sant’Anselmo l’istituto di Filosofia e Mistica. Dal 1995 al 2005 fa parte del comitato scientifico dell’Istituto trentino di cultura e dell’Istituto per le scienze religiose di Trento, diretto dal Prof. Antonio Autiero.

Ben presto iniziano anche i suoi impegni extra accademici.

Geografia di una generosità teologica

A partire dal 1996 è infatti invitato dal Cardinal Carlo Maria Martini a partecipare come interlocutore presso la Cattedra dei non credenti, confrontandosi spesso con personalità del calibro di Massimo Cacciari. Martini fu entusiasta della teoria dell’ispirazione della Scrittura proposta da Salmann nel suo volume: Der geteilte Logos. Confessò Martini di aver letto il libro anche in auto, accompagnato dall’autista lungo i tanti spostamenti in giro per l’arcidiocesi di Milano. E dal momento che il volume era pesante, pensò bene di strapparlo in due, non da ultimo perché il titolo lo consentiva: il Logos (con)diviso.

Così dopo Roma, Trento e Padova, Milano è stata certo l’altra meta delle trasferte salmaniane in quegli anni: più volte invitato presso l’Università cattolica, l’arcidiocesi, San Fedele e la Corsia dei Servi.

Una topografia dei suoi viaggi italiani sarebbe però un’impresa disperata. Mi guardo bene dal farla, anche per non risvegliare nell’animo dell’interessato un certo disappunto, parente prossimo di quel nervosismo che lo accompagna come un vecchio amico.

Non vi è regione in Italia in cui lui non abbia tenuto una conferenza, una lezione, partecipato ad un dibattito, offerto una predicazione: in sale o biblioteche comunali, teatri, aule universitarie, pulpiti parrocchiali, piazze, monasteri e case di esercizi. Dal Nord al Sud alle isole: in questi trent’anni in molti hanno goduto del suo italiano impressionistico, fatto anche di abusi ma sempre illuminanti; si sono lasciati ispirare dal suo umorismo irresistibilmente malinconico; ammaestrare dalle sue pertinenti fenomenologie fra vita e mistero cristiano – tutto offerto con la generosità e il disinteresse del gran signore. L’effetto sorpresa era sempre garantito, l’oratore Salmann non deludeva mai.

Scritture

C’è poi chi lo ha conosciuto soprattutto attraverso i suoi scritti. Come un raccoglitore di perle ha collezionato i classici del genus italicum (letteratura, storia, saggistica, filosofia, teologia). Le espressioni più belle venivano riportate, con una grafia dal sapore etrusco, nel suo taccuino. A partire dal 1989 iniziò così a scrivere in lingua italiana. L’esito di questa prima produzione sono i capitoli che compongono la prima edizione di Presenza di Spirito. Il cristianesimo come gesto e pensiero (Padova 2000). Una galleria d’arte interpretativa, introdotta da quella splendida prefazione sullo stile, che solo molto più tardi diverrà il cavallo di battaglia di Christoph Theobald.

Il librò che però in Italia fece parlare di Elmar Salmann fu in realtà un altro, dallo sfortunato titolo: Contro Severino (1995). Si trattava di un’intestazione certo estranea al suo stile. Il «contro» non appartiene all’indole di Salmann, alla quale appartiene al limite un «con-contro e oltre» qualcuno o qualcosa. Ed infatti quel titolo fu la trovata di un genio del mercato editoriale, il poi divenuto celebre Vito Mancuso. Vi affibbiò quel titolo come una etichetta, ad insaputa dell’autore. Che una tale pubblicazione potesse suscitare un vivo dibattitto, e dunque vendere, era fuori discussione. Incandescenti furono le critiche da parte di Emanuele Severino e di Umberto Galimberti sulle pagine di Repubblica. Il fine però era stato raggiunto: nei depositi della Piemme le copie del libro erano esaurite. E come effetto di ritorno anche la fama di Elmar Salmann, in quella Italia dove già si imponeva la filosofia berlusconiana del «purché se ne parli».

Se già l’italiano del teologo westfalico è ricercato, molto più forbito è il suo tedesco di ascendenza goethiana. Nel 1986 appare nella collana Studia Anselmiana il suo Neuzeit und Offenbarung.[2] Si trattava della sua abilitazione, dell’esposizione della sua mens teologica, approvata da un trio di indubbia qualità: Peter Hünermann, Magnus Löhrer e Ghislain Lafont.

L’inversione che si annuncia nel titolo, Neuzeit und Offenbarung, detta anche la prospettiva ermeneutica del libro: si tratta di guardare alla Rivelazione a partire dall’istanza critica della Modernità. La sorpresa però è dietro l’angolo, come sempre quando Salmann ha campo libero. Lo sviluppo sistematico dei problemi è svolto infatti secondo un doppio rovesciamento, di modo che il cristianesimo, attraversato il vaglio della ragione moderna, non perda la sua capacità di produrre filosofia ed anzi mostri su di essa la sua eccedenza di significato.

Snodi di un pensiero teologico

Qualcuno ha detto che ogni grande pensatore affronta nelle sue opere sempre il medesimo problema, solo da diverse angolazioni. In queste pagine è ancora la Trinità il polo magnetico della sua riflessione sistematica. Il centro di questo studio può allora essere individuato nei capitoli V e VII, dove Salmann riprende il problema trinitario del «noi a priori», facendo sua la lezione del suo vecchio maestro a Paderborn.

Alle implicazioni filosofiche che discendono dalla visione di un Dio pluriprospettico nella sua Unità, è dedicato il successivo e già menzionato Der geteilte Logos[3] del 1992, forse la magna charta definitiva della Denkform salmaniana. Chi ama questo tipo di avventure speculative non può che leggere col fiato sospeso queste pagine. L’autore dà prova di conoscere le principali tradizioni di pensiero (ontologica, trascendentale, ebraica, dialettica, paradossale, dialogica, fenomenologica, sperimentale) e adotta ciascun paradigma per leggere il nexus mysteriorum e, infine, rovescia ogni paradigma per far emergere l’eccedenza di una verità che è origine del discorso e non suo risultato.

Insegnare e accompagnare

Insieme ai libri scritti da Salmann, vi sono poi i libri non scritti, ovvero il centinaio di tesi e tesine da lui ispirate o accompagnate. Per arginare la marea di studenti che lo pregavano di essere loro moderatore, ben presto si vide costretto a disdire i suoi seminari pomeridiani di licenza, sia alla Gregoriana che a Sant’Anselmo. La sua agenda di impegni settimanale prevedeva fino a 16 ore di lezione: i trattati classici all’Ateneo (Creazione, Grazia, Peccato, Trinità, Cristologia): il ventaglio di corsi alla Gregoriana: su Anselmo e Tommaso, sulle Metafore della Redenzione, sull’Agostinismo del Seicento francese, sull’Idealismo tedesco, su Esperienza e riflessione.

Chi ha avuto la fortuna di averlo come Doktorvater, sa bene che la stesura di un dottorato con lui era molto più che un’esperienza intellettuale. Non si trattava solo della relazione scolastica fra maestro e allievo. Era qualcosa come un dialogo oggettivo e naturale fra padre e figlio, ma nel rispetto della terza persona: di quel «Lei» che faceva parte di quello squisito senso per la distanza di cui parla Bonhoeffer. Ed in questo dialogo ne andava anzitutto della vivibilità e, dunque, anche della misura e proporzione del lavoro.

Libertà e generazione

Salmann non ha mai sposato un’impostazione teorica, piuttosto ha incoraggiato una molteplicità di approcci analogici, una «gamma di logiche» – come lui ama dire. E chi non si è consacrato a una impostazione, chi non aderisce ad un partito preso (sia esso ontologico, dialettico, trascendentale, postmoderno), non ha allievi. Non voleva miserabili ricalchi, ma l’emergere di una nuova risonanza. La sua gioia stava nel favorire la libertà di ognuno; di incoraggiare ciascuno a trovare il proprio stile di interpretare gli autori e di scoprire il proprio singolare accesso al «paesaggio dei misteri».

Tutto quanto ha scritto, il suo stile di pensiero, il suo modo di interpretare la grande tradizione, di accompagnare gli studenti, di introdurre con generose prefazioni le loro pubblicazioni, suppone un animo liberale, uno sguardo pietoso sulle grandi potenzialità e le grandi ambivalenze di tutto. E perciò il suo tono, dal palato tedesco, non è stato mai denunciatorio, come quello di chi rimpiange il vecchio mondo tramontato. La sua è stata piuttosto una voce che, col distacco di chi proviene da lontano, descrive non senza malinconia ciò che è stato, e guarda fiducioso, con un pizzico di umorismo, al nuovo che emerge. E forse perciò le sue ultimissime parole alla Gregoriana, in quel lontano mercoledì in cui offrì il suo canto del cigno, furono: «Quando l’uomo pensa, Dio ride».

Che un uomo così sia suscettibile di una varietà di interpretazioni è fin troppo evidente. Per i postmoderni è fin troppo moderno; per i classici un esempio di resa alle aperture del «pensiero debole». Per i tradizionalisti un «sovversivo anti-ratzingheriano»;[4] per gli amanti del Vaticano II uno degli ultimi esemplari di un’estinta cattolicità. Per i nostalgici della Missa romana un dissidente, che adatta con troppa disinvoltura i praenotanda del messale. Per gli amanti della ‘tolleranza zero’ in materia di presenza in coro, un corvo libero, fin troppo attivo in voli extraterittoriali. E l’andirivieni paradossale fra poli e giudizi estremi potrebbe continuare.

Uno spirito libero

Elmar Salmann non è «né conservatore né liberale, piuttosto classico e liberante». Sono queste le parole con cui salutò il pontificio Ateneo Sant’Anselmo sei anni fa.

Nei lunghi preparativi che accompagnarono questa scelta, il suo contegno romano ricordò tanto quello del noto «viaggiatore cerimonioso» descritto da Giorgio Caproni:

Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia.
Anche se non so bene l’ora
d’arrivo, e neppure
conosca quali stazioni
precedano la mia,
sicuri segni mi dicono,
da quanto m’è giunto all’orecchio
di questi luoghi, ch’io
vi dovrò presto lasciare.
Vogliatemi perdonare
quel po’ di disturbo che reco.

Si trattò di un congedo anticipato, per generosità nei confronti di se stesso e della Chiesa a cui ritornava: «Leicht muß man sein: mit leichtem Herz und leichten Händen, halten und nehmen, halten und lassen… Die nicht so sind, die straft das Leben und Gott erbarmt sich ihrer nicht», scrive Hofmannsthal nel Der Rosenkavalier. Brano tradotto in italiano da quella donna invaghita della sprezzatura che fu Cristina Campo: «Lievi occorre essere: con lieve cuore e lievi mani, tenére e prendere, tenére e lasciare… Color che così non sono, la vita li punisce e Dio non ha pietà per essi».

Nel frattempo, in Germania la risonanza di Salmann nel mondo ecclesiale e culturale tedesco sta per raggiungere e fra poco sorpassare quella italiana. Il suo stile ricorda, per certi versi, quello di Guardini, di un novello praceptor germaniae dopo il Sessantotto.

Oggi, come un commesso viaggiatore, lui sale e scende dai treni per portare una parola franca, sollevante, incoraggiante laddove venga invitato. La predicazione e la cura d’anime sono il suo pane quotidiano. Che anche la Germania abbia ancora bisogno del cristianesimo, è un dato di fatto.

Forse un giorno qualche minuzioso studente di teologia presenterà una tesi, piegandosi sull’agendina degli appuntamenti del monaco vagante, come prova materiale dell’esistenza di Dio o almeno dell’attuale disperato bisogno di lui.

***

C’è un uomo che ama l’ellissi più del cerchio.

All’unilateralità, invisa in ogni sua forma, preferisce la tensione fra gli opposti e ama spingerli fino alla contraddizione, finché ciascuna polarità non si trovi costretta ad invocare l’altra dapprima ripudiata.

Ha vissuto fra Germania e Italia, per poi ritornare a casa.

È un teologo sui generis: preferisce il saggio al trattato, senza rinunciare all’approccio sistematico; l’ermeneutica all’ontologia, senza misconoscere la precedenza della Verità; la mistica alla filosofia, senza trascurare le analogie fra illuminazione ed illuminismo; privilegia il giudizio in base alla realtà, più che quello sulla realtà.

La sua gioia è incoraggiare e sostenere la vivibilità, anche a dispetto della scientificità. Benedire il contingente, parente prossimo del necessario. Favorire lo spazio sul tempo, semmai sia possibile separarli.

Ama la cultura più che l’erudizione; la grande letteratura più che le letture da treno; la musica e l’arte forse più che i libri; la sapienza cristiana più che la psicologia; l’umorismo più che il vezzo di prendersi troppo sul serio.

Onora profondamente il Dio trinitario senza umiliare troppo il Dio dei filosofi.

Non ha voluto seguire alcuna ideologia, se non quella di non essere ideologico.

Dove cercare allora il segreto di quest’uomo, se non in quella prima intuizione del giovane rapito da un Assoluto totalizzante, spaziale e relativo, ma non totalitario?

Potremo mai biasimarlo per aver acconsentito al richiamo di un tale Dio? Un Dio più grande di ciò che si possa pensare: un’Unità d’Amore che vive in tre prospettive personali e incommensurabili.

E se allora da questo discendesse la sua ermeneutica, quella sua arte di mediare fra sponde che non si toccano, o come dice lui, di stabilire «rapporti di saluto» fra mondi che di per sé non si parlerebbero?

Qui però devo fermarmi.

Intuisco solo che non si è trattato di un partito preso, ma di una visione profonda. A me non resta che riconoscere quanto sia stato fecondo l’incontro con Elmar Salmann, che, fra le altre cose, ha saputo offrire senza pretese uno degli stili più originali della teologia contemporanea.


[1] E. Salmann, Ursprüngliche Gotteserkenntnis bei Thomas von Aquin und Karl Rahner. Als wiss. Zulassungsarbeit für das Theologicum an der Theol. Fakultät Paderborn eingereicht von Elmar Salmann im Juli 1970.
[2] Id., Neuzeit und Offenbarung. Studien zur trinitarischen Analogik des Christentums, Roma 1986.
[3] Id., Der Geteilte Logos. Zum offenen Prozess von neuzeitlichem Denken und Theologie, Roma 1992.
[4] Cf. https://www.ilfoglio.it/articoli/2009/08/12/news/botta-e-risposta-sulle-idee-forti-e-sofisticate-di-un-benedettino-non-sedicesimo-70832

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