FTIS: valore e compimento della storia

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Basterebbero il numero di partecipanti (ben più di 300 nella prima mattinata, e costantemente oltre i 200 durante le altre sezioni) e la qualità dell’ascolto per definire la straordinaria singolarità del Convegno di quest’anno organizzato, come da tradizione, dalla Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (19-20 febbraio). Singolare non solo per le istituzioni teologiche, ma anche per la stessa accademia pubblica (dove nelle discipline umanistiche ci si raccoglie oramai tra sparuti interessati e un manipolo di studenti precettati a malavoglia).

Una Facoltà teologica nella città

Prima ancora del tema trattato da questo Convegno, certo fondamentale per la ricerca teologica e non banale per la cultura contemporanea, questo dato rappresenta un compito che la Facoltà deve coltivare con passione e dolcezza d’animo. Si tratta non solo della capacità di intercettare un tratto importante e vivace del cattolicesimo «locale» (non solo cittadino), ma più ampiamente anche della possibilità di inserire dinamiche virtuose del sapere tout court nelle maglie della vita della città.

Quando un preside (prof. Massimo Epis), nel suo saluto iniziale, lascia da parte l’impianto rigido del discorso preparato a illustrare gli snodi cardine del Convegno, per passare a un invito amicale a partecipare attivamente all’allargamento di un’ospitalità che la Facoltà desidera realizzare, si gettano così basi buone per diventare davvero un luogo di frequentazione cittadina. In questo, la Facoltà ha mostrato una sintonia, quasi spontanea direi, con le linee maggiori della pastorale di mons. Delpini, arcivescovo di Milano.

Entrare nella città dove vivono gli uomini

D’altro lato, la Facoltà stessa avrà un ritorno non marginale dalla riuscita di questo lasciarsi attraversare dalla città, imparando a sua volta a frequentarla senza preconcetto e attraversarla senza timori.

Per quanto profano possa sembrare l’argomento, esso non è poi così distante da quello affrontato, con impegno e competenza, dal Convegno. Attento, appunto, a ricalibrare le questioni maggiori che circolano intorno all’immaginario metaforico, tanto per mettere giornalisticamente d’accordo una delle molte dialettiche trasversali ai due giorni di lavoro, che ruota intorno a «Le cose ultime. La grazia del presente e il compimento del tempo».

In una società che con la semplice inversione di aggettivo e sostantivo ha estenuato ogni profondità escatologica del tempo umano (le ultime cose sono ciò che è già superato e sostituito con il loro semplice uso), così che la «preoccupazione» principale che ci assilla è quella di «riempire il tempo, non certo di compierlo», il Convegno si è costruito intorno a un progetto ambizioso: «A fronte della demitizzazione operata dalla rivoluzione in capo alla genetica, alle nanotecnologie e alla robotica, si schiude la possibilità di un gesto filosofico controcorrente: assumere la morte come cifra dell’esistere e del limite che lo qualifica strutturalmente. Soltanto una libertà che si misura con la morte è nella condizione di vivere il proprio limite come una possibilità. Che sia questa la porta stretta per prendere sul serio l’umano?» (M. Epis).

Il codice teologico

Le tre relazioni di carattere teologico-sistematico (S. Ubbiali; G. Noberasco; A. Cozzi) si sono sostanzialmente mosse lungo l’asse di questa domanda/possibilità; ognuna con un suo approccio specifico per quanto riguarda il peso della recensione del panorama teologico preso in esame. Ma, appunto, tutte unite dalla domanda di fondo che struttura la questione escatologica per la teologia cristiana: «Perché Dio ha valore per la storia? Perché la storia ha valore presso Dio?» (S. Ubbiali).

Il compito è intrinsecamente complesso e non solo culturalmente anacronistico: «Il contenuto teologico della speranza cristiana non è un oggetto pacifico a cui corrisponda una rappresentazione univoca. Il suo referente è la glorificazione di Cristo e la certezza del suo ritorno per il compimento definitivo» (A. Cozzi).

teologia milanoLa definitività cristologica di Dio accende la possibilità del compimento della libertà come la storia effettivamente vissuta da ogni uomo e donna, nella molteplicità (sincronica e diacronica) dei molti legami che quella storia intesse – in maniera diretta e non. «A partire dall’evento di Gesù, la libertà di ciascuno trova la sua piena realizzazione: essa è posta di fronte al compito, irriducibilmente personale di riprendere la totalità del mondo e del reale […]: nell’atto dell’esistenza che assume il proprio essere» (G. Noberasco).

Lo scarto tra il definitivo di Gesù e il compimento della storia (umana e personale) è certo reale, senza però essere con ciò esteriore/aggiuntivo alla «mossa di Dio» (S. Ubbiali), che è la sua rivelazione ultima e irrevocabile nella storia di Gesù. Ed è per questo che esso mette in campo davvero la «grazia del presente», in cui il soggetto diventa e si appropria di sé in un gioco aperto di legami sui quali non può mai pienamente disporre.

Tempo e temerarietà

Questo porta verso una interrogazione fondamentale sul tempo. Il tema è stato affidato, quale apertura dei lavori del Convegno, alla professoressa Carla Cannullo, docente di filosofia teoretica presso l’Università di Macerata.

Una comprensione «eventuale» del tempo, differentemente modulata in ambito fisico-teorico e filosofico-fenomenologico ma con significativi punti di giuntura (C. Rovelli/C. Romano), consente di comprenderlo come generatore dell’«adveniente», ossia di colui che dal tempo che accade, «essendo da esso “toccato”, accade a sua volta come soggetto […]».

Il soggetto, dunque, si pone nella misura in cui pone la questione del/sul tempo; e si tratta di una questione «temeraria», come ha rimarcato più volte Cannullo, esattamente perché con essa è dell’«adveniente» stesso che ne va, ossia del sé che noi siamo.

«Perché la temerarietà della questione emerga occorre che si palesi anche un tratto paradossale dell’esperienza temporale – tratto che quotidianamente è esperito pur non essendo. Si tratta della con-temporaneità» (C. Cannullo). Mi sembra possa emergere già qui una struttura del definitivo che è tale, in quanto aperto/deciso su un compimento su cui non può disporre proprio nel momento in cui lo autorizza a decidere di sé e della propria vicenda.

Note a margine

Vorrei concludere con due semplici note questo breve resoconto di un Convegno di cui ci auguriamo che gli atti escano in tempi relativamente brevi – proprio per la pertinenza epocale del tema indagato.

Per quanto riguarda l’impellenza culturale della decisione della Facoltà di ricalibrare il teologico cristiano nell’orizzonte del compimento del tempo (escatologia, appunto), credo che la relazione del prof. Klaus Müller ne sia stata come una sorta di sigillo (sul suo intervento SettimanaNews tornerà con un approfondimento ulteriore).

Joseph de Maistre

Joseph de Maistre

Da un lato, il transumanesimo, realizzato e prossimamente realizzabile grazie alla potenza delle biotecnologie e dell’intelligenza artificiale, rappresenta l’azzeramento dell’escatologia nella forma della sua immanentizzazione totale. D’altro lato, l’apocalittica realizzata del ceto cattolico oltranzista, che va da Bannon al card. Müller, è attualmente la «contestazione più radicale dell’universalismo insito nell’escatologia cristiana» (K. Müller).

Se le mosse di Dio decidono del compimento, talvolta quelle delle semplici istituzioni umane, come è una facoltà teologica, possono tenere aperti spazi per un’esperienza reale della grazia presente. Ma questo diventa anche un compito esigente per l’istituzione milanese.

E qui mi permetterei una piccola, e conclusiva, annotazione critica. Si tratta di una certa disinvoltura con cui viene utilizzato il termine «cultura», in particolare nel suo nesso con l’evento cristiano di Dio. Ora l’affermazione dell’esistenza di tale nesso non significa ancora l’esplicitazione del suo significato e rilievo per la cultura stessa – in particolare quella contemporanea.

La «mossa di Dio», «il farsi carne del Figlio», le «figure del compimento», non hanno un’immediata auto-evidenza culturale, proprio nel momento stesso in cui radicano il cristianesimo nel cuore della cultura occidentale. Ossia, al di fuori del codice teologico che le rende intellegibili non parlano al linguaggio quotidianamente frequentato dall’esperienza umana – anche quella consapevole della grazia presente.

Ma se non parlano al linguaggio comunemente accessibile a tutti si affievolisce, al tempo stesso, anche la portata teologica di quei codici che sono per noi così familiari ed evidenti. E questo, noi teologi e teologhe, facciamo proprio un po’ fatica a percepirlo e farcene carico come parte specifica del nostro lavoro quotidiano per una più alta intelligenza del Vangelo.

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