Giovanni Paolo II, la scienza, la fede cristiana

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Il gesuita George V. Coyne, astronomo, direttore della Specola Vaticana per quasi trent’anni (1978-2006), è morto martedì 11 febbraio, a Syracuse, New York. Aveva 87 anni. Era stato nominato direttore della Specola Vaticana all’età di 45 anni (da Giovanni Paolo I). Il suo è stato il mandato più lungo come direttore della Specola Vaticana. Padre Coyne è stato un promotore convinto del dialogo tra scienza e teologia. In stretto contatto con Giovanni Paolo II, negli anni Novanta del secolo scorso ha organizzato una serie di conferenze sull’Azione di Dio nell’Universo presso il quartier generale della Specola Vaticana a Castel Gandolfo, in collaborazione con il Center for Theology and the Natural Sciences di Berkerley, in California. La lettera indirizzata da Giovanni Paolo II a padre Coyne in occasione del trecentesimo anniversario dei Principia Mathematica di Newton (1988) rimane ancora una delle più dettagliate dichiarazioni da parte cattolica sulla relazione esistente tra scienza e fede. Lo ricordiamo riprendendo un suo scritto del 2011 pubblicato sul portale disf.org.

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Fin dall’inizio del pontificato di Giovanni Paolo II, vi è stato un profondo rinnovamento nel rapporto tra scienze naturali e credo religioso. Questo contributo tenta di esplorare la portata di tale affermazione.

Sebbene il punto di vista di Giovanni Paolo II sul rapporto fra scienza e fede si può desumere da molti dei suoi messaggi, ne propongo cinque principali su questo argomento: il discorso pronunciato alla Pontificia Accademia delle Scienze il 10 novembre 1979 per commemorare il centenario della nascita di Albert Einstein [1]; il discorso pronunciato alla Pontificia Accademia delle Scienze il 28 ottobre 1986 in occasione del 50° della rifondazione dell’Accademia [2]; la lettera datata 1 giugno 1988, indirizzata al Direttore della Specola Vaticana e scritta in occasione del 300° anniversario della pubblicazione dell’opera di Isaac Newton, Principia Mathematica, poi presentata come Introduzione agli Atti di un Convegno tenuto presso il Vatican Observatory, pubblicati nel 1988 con il titolo Physics, Philosophy and Theology, A Common Quest for Understanding [3]; il messaggio circa alcuni aspetti dell’evoluzione biologica indirizzato alla Assemblea Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze il 22 ottobre 1996 [4]; ed infine l’enciclica Fides et ratio, pubblicata il 14 settembre 1998 [5].

Sul ruolo di Galilei

Il punto di vista di molti studiosi, tra scienziati, filosofi e storici della scienza, storici della Chiesa, riguardo i primi due discorsi, è stato quello di sottolineare le dichiarazioni del Papa sulla controversia tolemaico-copernicana del XVII secolo ed in particolare sul ruolo di Galileo in tali controversie. Queste affermazioni del Papa certamente hanno posto le basi per una nuova apertura della Chiesa al mondo della scienza.

Tuttavia, tale apertura, non deve essere vista in maniera restrittiva, in quanto essa si è espressa attraverso sforzi costanti e instancabili di questo Pontefice, durante tutto il suo papato, al fine di stabilire un clima di dialogo fra la Chiesa e tutti gli aspetti della cultura moderna. Il suo ruolo nella redazione della costituzione pastorale del Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, ben studiato dagli storici del Concilio, ne è una convincente testimonianza.

Le preoccupazioni pastorali di Giovanni Paolo II dominano il suo desiderio di vedere la Chiesa impegnata con il mondo moderno, e quindi con le scienze, che occupano un ruolo sempre maggiore nella definizione della cultura moderna. Ciò lo si nota, a mio avviso, attraverso un’indagine degli ultimi tre dei cinque messaggi papali sopra elencati. Allo scopo di procedere con un discorso più ordinato, preferisco posporre il commento del documento [3] dopo quello dei documenti [4] e [5].

Sull’evoluzione

Il messaggio di Giovanni Paolo II alla Pontificia Accademia delle Scienze sull’evoluzione [4], è caratteristico della sua apertura al dialogo con le scienze. Mentre l’enciclica di Papa Pio XII nel 1950, Humani Generis, considerava la dottrina dell’evoluzione un’ipotesi seria, degna di indagine e di approfondimento pari a quello delle ipotesi opposte, Giovanni Paolo II afferma nel suo messaggio: «Oggi, circa mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’Enciclica, nuove conoscenze conducono a non considerare più la teoria dell’evoluzione una mera ipotesi» ([4], n. 2).

Le frasi che seguono questa dichiarazione indicano che la «nuova conoscenza», alla quale il papa fa riferimento, è per lo più conoscenza scientifica. Aveva, infatti, appena dichiarato: «L’esegeta e il teologo devono tenersi informati circa i risultati ai quali conducono le scienze della natura».

Il contesto del messaggio rafforza proprio questo concetto. Poiché il tema specifico scelto per la sessione plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze era L’Origine e l’Evoluzione della Vita, l’Accademia aveva riunito alcuni fra i ricercatori più attivi nel campo delle scienze della vita per discutere di argomenti che andavano dalla più dettagliata analisi chimica molecolare all’analisi radicale della vita nel contesto di un universo in evoluzione.

Solo pochi mesi prima della sessione plenaria dell’Accademia, la rinomata rivista Science pubblicava un articolo che annunciava la scoperta che, in passato, sul pianeta Marte potevano essere state presenti forme primitive di vita. Inoltre nei due anni precedenti, molte pubblicazioni scientifiche avevano annunciato la scoperta di pianeti extra-solari. Questo fermento nella ricerca scientifica non solo rese il tema della sessione plenaria dell’Accademia di grande attualità, ma creò anche le premesse concrete per il messaggio pontificio.

Sull’umano

L’argomentazione del messaggio prosegue con la presa in considerazione di alcune verità rivelate riguardanti la persona umana, come confessate della Chiesa. La scienza ha scoperto alcuni fatti sulle origini della persona umana. Ogni teoria, che basandosi su quei fatti intenda contraddire le verità rivelate, non può essere corretta. Da notare il ruolo antecedente e primario dato alle verità rivelate in questo dialogo; ma è anche da notarsi lo sforzo per restare aperti a una teoria corretta sulla base dei fatti scientifici. Il dialogo continua, in tensione per così dire, tra questi due poli.

Nella prassi tradizionale delle dichiarazioni papali, il contenuto essenziale della dottrina in materia proclamato da papi precedenti viene di solito rivalutato. E così l’insegnamento di Pio XII nella Humani Generis secondo il quale, se il corpo umano trae origine da materia vivente preesistente, l’anima spirituale è invece creata da Dio. Viene così risolto il dialogo, abbracciando l’evoluzionismo riguardo il corpo ed il creazionismo riguardo l’anima? Si noti che la parola «anima» non si ripresenta nel resto del dialogo. Piuttosto, il messaggio continua a parlare di «spirito» e «spirituale».

Se si considera la verità religiosa rivelata sull’essere umano, prosegue il papa, allora abbiamo un «salto ontologico», una «discontinuità ontologica» nella catena evolutiva sulla comparsa dell’essere umano. È questo conciliabile, si chiede il papa, con la continuità nella catena evolutiva vista dalla scienza? Un tentativo di risolvere il problema critico è dato dall’affermazione: «Il momento del passaggio all’ambito spirituale non è oggetto di un’osservazione di questo tipo, che comunque può rivelare, a livello sperimentale, una serie di segni molto preziosi della specificità dell’essere umano» ([4], n. 6). Il suggerimento sembra dato dal fatto che la «discontinuità ontologica» può essere spiegata da una discontinuità epistemologica.

È ciò sufficiente o il dialogo può ulteriormente proseguire? È necessaria una teoria creazionista, ovvero interventista, per spiegare le origini della dimensione spirituale dell’essere umano? Siamo costretti dalla verità religiosa rivelata ad accettare una visione dualistica delle origini della persona umana, evoluzionista per quanto riguarda la dimensione materiale, creazionista e interventista rispetto alla dimensione spirituale? Quando negli ultimi paragrafi si parla del Dio della vita, il messaggio credo dia forti indicazioni sul fatto che il dialogo è ancora aperto in relazione a queste domande.

Fides et ratio

La spinta principale dell’enciclica Fides et ratio [5] di Giovanni Paolo II, un documento che riassume il pensiero del suo pontificato sul rapporto tra fede e ragione, è motivare a non lasciare da parte la ricerca della verità ultima. Scrive, ad esempio: «Essa [La Chiesa] infatti vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l’esistenza dell’uomo. […] desidero anch’io rivolgere lo sguardo a questa peculiare attività della ragione. Mi ci spinge il rilievo che, soprattutto ai nostri giorni, la ricerca della verità ultima appare spesso offuscata» ([5], n. 5).

In questa ricerca ci sono vari modi di conoscere, e tra questi egli confronta la filosofia con le scienze naturali: «Può essere utile, ora, fare un rapido cenno a queste diverse forme di verità. Le più numerose sono quelle che poggiano su evidenze immediate o trovano conferma per via di esperimento. E questo l’ordine di verità proprio della vita quotidiana e della ricerca scientifica. A un altro livello si trovano le verità di carattere filosofico, a cui l’uomo giunge mediante la capacità speculativa del suo intelletto» ([5], n. 30). È chiaro che la filosofia e le scienze naturali dovranno avere la loro autonomia: «Sant’Alberto Magno e San Tommaso, pur mantenendo un legame organico tra la teologia e la filosofia, furono i primi a riconoscere la necessaria autonomia di cui la filosofia e le scienze avevano bisogno, per applicarsi efficacemente ai rispettivi campi di ricerca» ([5], n. 45).

Anche se l’enciclica non si focalizza principalmente sulle scienze naturali, essa tenta ugualmente di porre le basi per un dialogo con esse. La ricerca scientifica, specialmente nel nostro tempo, non può essere esclusa dalla ricerca del significato ultimo. Oggi gli scienziati, all’interno del proprio metodo ben determinato, si pongono alcune questioni come: perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla?; l’universo è finito o infinito nel tempo e nello spazio?; l’universo è «sintonizzato» per favorire la comparsa della vita intelligente?; gli esseri umani sono comparsi mediante processi necessari o casuali, o attraverso una combinazione dei due, in un universo fecondo, tale da consentire ad entrambi di fruttificare insieme?

Correttezza del rapporto

La novità in ciò che Giovanni Paolo II ha detto a proposito del rapporto tra scienza e religione consiste nell’aver assunto una posizione necessariamente diversa da quella che aveva ereditato. Questa affermazione è giustificata a partire da tutti i documenti sopra citati, ma in particolar modo nel terzo, ovvero nel messaggio preparato in occasione del terzo centenario della pubblicazione dei Principia Mathematica di Newton [3].

Giovanni Paolo II afferma chiaramente che la scienza non può essere utilizzata in modo semplicistico, come una base razionale della fede religiosa, né va giudicata come atea per sua natura, contraria alla fede in Dio.

Il Papa scrive invece: «Il cristianesimo ha in se stesso la sorgente della propria giustificazione e non pretende di fare la sua apologia appoggiandosi primariamente sulla scienza. La scienza deve dare testimonianza a se stessa. Mentre religione e scienza possono e debbono ciascuna poggiare l’altra come dimensioni distinte della comune cultura umana, nessuna delle due dovrebbe pretendere di essere il necessario presupposto per l’altra. Oggi abbiamo un’opportunità senza precedenti di stabilire un rapporto interattivo comune in cui ogni disciplina conserva la propria integrità pur rimanendo radicalmente aperta alle scoperte e intuizioni dell’altra» ([3], p. M9).

Afferma inoltre: «La scienza infatti si sviluppa al meglio quando i suoi concetti e le sue conclusioni vengono integrati nella più ampia cultura umana e nei suoi interessi per la scoperta del senso e del valore ultimo della realtà» ([3], p. M13).

Nulla di più lontano da molte delle reazioni che la Chiesa ebbe in passato nei confronti dell’anticlericalismo del XVII e del XVIII secolo, come le seguenti parole di Giovanni Paolo II: «Con l’incoraggiare l’apertura tra la Chiesa e le comunità scientifiche, non ci proponiamo un’unità di contenuti tra teologia e scienza come quella che esiste nell’ambito di un dato campo scientifico o della teologia vera e propria. Col crescere del dialogo e della ricerca comune, ci sarà un progresso verso la mutua comprensione e una graduale scoperta di interessi comuni che forniranno le basi per ulteriori ricerche e discussioni» ([3], p. M7).

Domande serie e aperte

L’ultimo elemento nella nuova visione proveniente da Roma, è l’avere espresso un’incertezza su dove il dialogo tra scienza e fede potrà condurre. Considerando che l’apertura della Chiesa alla scienza moderna ha talvolta portato nel XX secolo ad una troppo facile appropriazione dei risultati scientifici allo scopo di rafforzare alcune convinzioni religiose, Giovanni Paolo II esprime piuttosto l’estrema prudenza della Chiesa nel definire il suo ruolo di partner in questo dialogo: «Sta al futuro stabilire in quale forma questo avverrà» ([3], p. M7).

Questa è chiaramente la posizione più innovativa e importante che la Chiesa contemporanea ha assunto nel suo approccio verso la scienza. È radicalmente nuova e in totale contrasto con la storia passata, diametralmente opposta ad una posizione che accusi la scienza di ateismo e ad un atteggiamento di antagonismo: vi è un risveglio e un’aspettativa.

Nel suo messaggio in occasione del terzo centenario dei Principia di Newton il Papa pone la questione: «Può anche la scienza trarre vantaggio da questo interscambio?» ([3], p. M7). Ci vuole grande coraggio e apertura per porre tale quesito senza avere una risposta molto chiara. In realtà, è molto difficile vedere quali potrebbero essere i benefici per la scienza in quanto tale, come modi specifici per la conoscenza.

Nel messaggio papale si è lasciato intendere che il dialogo aiuterà gli scienziati a capire che le scoperte scientifiche non possono essere sostituite alla conoscenza delle verità ultime. In che modo, però, fare scoperte scientifiche e, insieme alla filosofia e alla teologia, partecipare alla ricerca del fine ultimo? Questa è una domanda seria e aperta. Ovviamente, la nuova visione dell’interazione tra scienza e fede religiosa non ha tutte le risposte, ma è un invito ad una ricerca comune.

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