Siamo “gli ultimi cristiani”… premoderni

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gli ultimi cristiani«Questo contributo è stato scritto nel 1998, su richiesta della rivista Qüestions de Vida Cristiana n. 190 (p. 22-28): “Siamo gli ultimi cristiani?”. Ho preferito non cambiarlo e lo presento nella traduzione apparsa nel mio libro Quale futuro per la fede? Le sfide del nuovo orizzonte culturale, Elledici, Torino 2013, 211-219». Così scrive il teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga nell’offrire il suo apporto al dibattito suscitato dall’intervento di Marcello Neri sul ruolo della teologia in riferimento al futuro del cristianesimo (cf. Settimananews 11 maggio 2017; ad esso hanno fatto seguito gli interventi di M.G. Masciarelli, il 24 maggio, di J. Deibl dell’8 giugno, e di Ch. Theobald, il 23 giugno).

Saremo realmente gli ultimi cristiani? Che ci si ponga questa domanda non dovrebbe, in linea di principio, spaventare. In verità, si tratta di una domanda perenne: in un modo o nell’altro, sempre l’umanità, combattuta tra l’ansia/presentimento di piena felicità e la concreta situazione più o meno sfortunata, si è posta interrogativi simili. Per questo tutte le religioni parlano dello stato di “caduta” o affermano che viviamo nell’ultima fase discendente della storia, come quella del Kali Yuga indù o quella dei sette soli mesoamericani*

Ciò che ci deve maggiormente preoccupare non è che ci si ponga tale domanda in senso generale, ma che essa riguardi in particolare il cristianesimo e che, in qualche modo, sia viva nella coscienza diffusa. Questo può indicare – e credo che indichi – una situazione grave, un problema urgente. Per questo è necessario affrontare la domanda con somma attenzione. Unicamente a ciò aspirano queste righe.

Il presupposto di fondo che le sorregge è che la crisi nasce dal cambiamento radicale prodotto dall’avvento della modernità. Solo prendendolo sul serio e, pertanto, trasformando quanto sia necessario trasformare, risulta possibile affrontarla. La trasformazione deve realizzarsi necessariamente su due fronti: quello del pensiero e quello dell’istituzione, quello della teologia e quello del governo ecclesiale. Non sono tutto, poiché al di sotto, alla radice, ci sono l’esperienza e la vita; ma è chiaro che esse sono trasformazioni indispensabili.

Rigore intellettuale: ripensare la fede

Infranto con l’avvento della modernità l’antico paradigma culturale – oggettivista, astorico, presecolare[1] – con cui erano inevitabilmente solidali sia l’espressione sia l’istituzionalizzazione della fede, il cristianesimo ha bisogno di ritradursi nel nuovo quadro. Ritradursi non è “vendersi” alla moda né “abdicare” al proprio essere; tutto il contrario: significa esercitare il diritto primario e il dovere fondamentale di ogni vita che è quello di conservarsi mediante la trasformazione nel tempo e, nel caso della vita umana, mediante la creazione di nuova storia. L’altro atteggiamento – aggrapparsi alle forme del passato – sembra indicare continuità, ma significa mummificazione; sembra assicurare la vita, ma equivale a vendersi alla morte. Siamo stati messi sull’avviso fin dall’inizio: «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,25).

Per questo bisogna fare molta attenzione con le vecchie abitudini, che si celano come presupposti inconsci e come credenze incontrollate. Nel bel mezzo dello sforzo rinnovatore, esse trascinano dietro a sé costellazioni di idee, ipotesi e intenzioni che lo inficiano alla radice. Niente di meglio, per spiegarmi, che un esempio, tratto da un articolo di J.-M. R. Tillard.

L’articolo si apre con una citazione di Yossel Rakover che, rivolgendosi a Dio nei duri tempi del nazismo, gli dice tra l’altro: «Hai fatto di tutto perché non credessi più in te! Ma muoio esattamente come sono vissuto: in una fede incrollabile in te»; «è il tempo in cui l’Onnipotente distoglie lo sguardo da coloro che lo implorano». Tillard non solo ripete la citazione nel testo, ma la fa propria a chiusura della sua, peraltro, lucida ed eccellente riflessione: «Io crederò sempre in te, anche malgrado te».[2]

Ebbene, no!

Rispettiamo i sentimenti che soggiacciono all’espressione, ammiriamo il coraggio soggettivo di questa fede, ma riteniamo con franchezza che teo-logicamente è uno sproposito e che religiosamente sfiora la bestemmia. Se fosse così, una persona sensata e dignitosa non potrebbe credere. Un dio che “distolga lo sguardo” e non abbia compassione, quando tutto il mondo trema per l’orrore, non merita di essere creduto; un dio che “faccia” tanto male (si ricordi: «Hai fatto di tutto perché non credessi più in te») o che non lo eviti – se, come si suppone, ciò fosse possibile – non merita di essere adorato.

Non c’è nulla di più pericoloso – Hegel lo disse energicamente nel proemio alla sua Fenomenologia – di un discorso edificante fuori luogo. Si risparmia il lavoro del concetto per rifugiarsi nel sentimento o nella retorica. Si ripetono frasi teologiche che sembrano belle, che ebbero senso o almeno risultavano tollerabili in un altro contesto, e che possono perfino trovare appoggio in una lettura fondamentalista della Scrittura, ma che oggi, per una coscienza uscita irreversibilmente dall’ambiente di cristianità, sono espedienti suicidi e costituiscono semina d’inevitabile ateismo.

Ho accennato a un problema molto concreto, quello del male. Un problema che si è acutizzato all’estremo nel contesto moderno, fino a diventare per molti la “roccia dell’ateismo”, come ha detto G. Büchner. Nonostante questo, invece di trasformare radicalmente il modo di affrontarlo, si continua a interpretarlo con le categorie di una visione del mondo sacrale e “mitologica”, in cui il divino avvolgeva e permeava tutto, interferendo continuamente nelle leggi del cosmo e nelle dinamiche della libertà. Allora era inevitabile pensare così; ma potevano assorbire lo scandalo di questo dio che mandava o permetteva il male perché la cultura non metteva in discussione la realtà del Divino né aveva collocato al suo centro l’affermazione dell’autonomia del creato e delle sue leggi. Ricorrere oggi al “mistero” per coprire la contraddizione di un “dio” che, avendone la possibilità, non vuole né può eliminare il male, è mettere la testa nella sabbia e dare in anticipo ragione alla tesi ateistica.

Non si è ancora capito – ripetiamolo per l’ennesima e, in questo libro, ultima volta – che solo mediante una trasformazione delle categorie teologiche, che prenda sul serio la nuova e – su questo punto – irreversibile visione secolare del mondo, si può affrontare con successo il problema. Un Dio che guarda con infinito rispetto l’autonomia delle sue creature e la cui azione consiste nel confermarle con amore incondizionato, «non distoglie il suo sguardo» dinanzi al dolore, né cade nella mostruosità d’inviarlo, «facendo di tutto perché non crediamo». Tutto il contrario: lotta al nostro fianco contro di esso e ci sostiene con la speranza che, infranti i limiti della storia, egli finirà per vincerlo, riscattando tutte le vittime. Cosa che, del resto, emerge con forza da una lettura aggiornata e non fondamentalista della croce e della risurrezione di Gesù.

Questo però è solo un esempio simbolico delle tante questioni che ricalcano lo stesso schema. Non solo questioni laterali o secondarie, ma fondamentali, che toccano la rivelazione, la cristologia, i novissimi e la preghiera, il peccato e i rapporti tra religione e morale… Basti pensare alla rivelazione come un “dettato” fatto solo a pochi; o all’inferno come “punizione” eterna; o alla preghiera come petizione continua a qualcuno che risulta non “ascoltare” né “avere pietà” ecc.

O le verità profonde che sono latenti in tali concezioni si ripensano e si riesprimono in modo da risultare intelligibili e sperimentabili nella nuova situazione culturale, oppure esse andranno inevitabilmente a finire nel baule dei ricordi, buoni solo per la nostalgia dei nonni e per le burle dei nipoti.

Dall’esterno del cristianesimo, molti già pensano in questo modo, confondendo la forma espressiva con la sostanza della cosa.

Dall’interno, sovrabbondano coloro che s’impegnano a confermare i primi nel loro parere. Che un clima dottrinale di taglio restaurativo e anche molta teologia, disposta solamente ad aggiornarsi a metà, continuino a resistere a questo ri-pensamento, risulta difficilmente comprensibile.

Coraggio del cambiamento: rinnovare l’istituzione

Non si tratta, naturalmente, solo di idee. La religione comprende la vita intera e si cristallizza necessariamente in istituzioni che, anch’esse, si configurano con le risorse che offre la cultura di ogni epoca. Il cristianesimo, con la sua storia bimillenaria, si presenta rivestito dei pesanti panni di una rigida istituzionalizzazione. Eredità religiosa ebraica, mentalità politica romano-ellenistica, stile feudale del medioevo e anche influsso assolutista dell’Ancien Régime: tutto ha lasciato la sua impronta. Il che era in qualche modo inevitabile; e, in ogni caso, è comprensibile. Proprio per questo, però, ha bisogno di revisione.

In realtà, si tratta della stessa struttura di fondo del paragrafo precedente, applicata però ora alla secolarizzazione del potere. La frase di san Paolo, «non c’è autorità se non da Dio» (Rm 13,1) – riferita direttamente alle autorità civili! – riuscì a “secolarizzarsi” per quanto concerne il potere politico, innescando il processo di democratizzazione: esso viene da Dio, ma attraverso il popolo. Suárez, il grande e dimenticato Suárez, seppe farlo energicamente valere di fronte alle pretese di Enrico VIII d’Inghilterra.

Non si ebbe però la stessa cosa in ambito religioso, nonostante che a tal fine il cristianesimo contasse sull’avvertimento esplicito del Fondatore: «Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore» (Mc 10,43; cf. Mc 10,42-45; Mt 20,25-28; Lc 22,25-27). È chiaro che, anche qui, niente si oppone a sostenere che l’autorità nella Chiesa viene sì da Dio, ma attraverso la comunità. In fondo, il cambiamento di prospettiva è già implicito nella concezione ecclesiologica del Vaticano II, che pone la comunità – colmata di grazia da Dio – alla base di tutto, e le altre istanze come funzioni al suo interno.

Se questo cambiamento non si realizza, la Chiesa risulta un’istituzione anacronistica, non assimilabile da parte (del meglio) della nuova sensibilità democratica, così lentamente e duramente conquistata. E non solo diventa “incredibile” dal di fuori, ma si trova con gravissimi problemi all’interno.

Primo, perché in un mondo in cambiamento, intimamente lavorato da una cultura dell’innovazione, una Chiesa non democratizzata risulta incapace di rinnovarsi a fondo e, pertanto, di rendere attuale un’esperienza e un messaggio che non sono nulla se non appaiono come manifestazione del Dio vivo. «Una Chiesa che non serve, non serve a nulla», è stata opportunamente intitolata la traduzione spagnola di un coraggioso libro scritto da un vescovo.[3]

Secondo, perché la mancanza di democratizzazione ostacola la normale espansione della vita ecclesiale. Segnalo due punti.

In primo luogo, la “demonizzazione della critica”. In un sistema teocraticamente autoritario, il necessario elemento profetico – e pertanto critico – di ogni religione che voglia rimanere viva, appare necessariamente come disubbidienza o aggressione. Il genuino impegno, che non è mai stato né ripetizione morta del passato né pura sottomissione alle istituzioni – si pensi a Gesù di Nazaret: il Grande Inquisitore di Dostoevskij l’ha compreso molto bene – viene interpretato come ribellione e minaccia. Con un risultato che aggrava la situazione. La critica messa a tacere all’interno, dove era forza trasformatrice mossa da amore realistico, emigra all’esterno, dove si trasforma in attacco iroso e discredito per la fede. Sovrabbondano gli esempi dolorosi in questi difficili tempi di crisi.

In secondo luogo, l’impoverimento e la monotonia della vita della Chiesa, sottoposta a un’“ipoteca gerarchica” che assorbe in sé tutte le sue funzioni. Nel secolo XIX, Newman – il sensibile, il fine, il censurato Newman – disse che «una Chiesa senza laici apparirebbe sciocca».[4] Ma lo apparirà ancora di più se si manterrà come Chiesa senza donne pienamente riconosciute e senza teologi che si esprimano liberamente ed esercitino con efficacia il loro specifico e insostituibile lavoro di far avanzare l’intellectus fidei, cioè la comprensione aperta e aggiornata dell’esperienza credente.

Se a questo si aggiunge che le cariche gerarchiche sono vitalizie e non elettive, risulta molto difficile sottrarsi all’impressione che la barca di Pietro si sia trasformata in una pesante chiatta, incapace di muoversi nel fiume della storia. E, naturalmente, solo così si capisce lo stile di certe manifestazioni ufficiali che sconcertano i propri fedeli e gli estranei. Vengono da luoghi che hanno perso il contatto effettivo e immediato con la vita reale. È questa forse l’impressione che per lo più produce un’istituzione che sta mancando il proprio futuro.

Le espressioni che uso sono dure, ma sono nate dall’interno: dalla scomoda responsabilità di chi non vuole reprimere ciò che ritiene sia il suo necessario – e forse anche sbagliato; così fosse! – contributo alla comune missione. E, naturalmente, non pretendono in alcun modo – con che diritto, del resto? – di trasformarsi in un giudizio sulle intenzioni soggettive, né, ancor meno, di avallare l’idea che tutto nel governo ecclesiale funzioni così. Si tratta di dinamismi “oggettivi”, che funzionano in modo strutturale e finiscono per imporre uno stile.

Nonostante tutto, la speranza

Per fortuna, e “grazie a Dio”, questo non è tutto. La situazione è molto dura, certamente, e mostra il fallimento della reazione che, nel complesso, ha prevalso dinanzi alla crisi: volgersi al passato e chiudersi all’interno, coltivando il “piccolo gregge”. La Chiesa però è molto di più, e c’è in essa un ricco pluralismo di vita e d’iniziative.

La crisi stessa, con le sue manchevolezze, ha anche effetti positivi. Uno soprattutto: va imponendo alla coscienza generale la vera differenza teologica. Solo Dio è Dio; tutto il resto, Chiesa compresa, è unicamente segno – “sacramento” – che rimanda a lui, solamente ed esclusivamente a lui. Né la Chiesa è il Regno né la gerarchia è la Chiesa, sebbene tutto abbia la sua irrinunciabile funzione.

Non possono esserci speranze astratte, di facile soprannaturalismo, come allorché si dice che Dio sistemerà le cose, che egli non può permettere che la Chiesa fallisca. In questo il Nuovo Testamento è stato più audace e realista. Luca ha osato la domanda radicale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Tuttavia, è certamente possibile la speranza concreta, l’attesa attiva e fiduciosa, e perfino il realismo storico.

Perché, storicamente, non siamo dinanzi ad un caso unico. Risulta difficile calcolare se nel passato c’è stata qualche crisi oggettivamente più grave. Ciò di cui non si può dubitare è che una sensazione simile si è prodotta molte volte. Inoltre, non sono mancate previsioni di una fine “imminente” del cristianesimo, che fortunatamente non è mai arrivata.

Il Vaticano II, il cui “ammortizzamento” ha causato negli ultimi tempi grave delusione in non pochi, costituisce comunque un segno positivo. Mostra, infatti, come la Chiesa conservi la sua capacità di reagire perfino in situazioni che, anche viste dal presente, avrebbero fatto sembrare improbabile, se non impossibile, tale reazione.

Soprattutto, continuano e continueranno sempre ad esserci le due radici da cui germoglia perennemente – “benché nella notte” – la fonte dell’esperienza religiosa. Antropologicamente, come dice bene Tillard, «ci saranno sempre cuori umani alla ricerca di senso», aperti alla grande domanda kantiana: «Che cosa mi è lecito sperare?». E, soprattutto, teologicamente “sappiamo” che Dio è sempre lì, gridando – secondo la magnifica espressione di san Giovanni della Croce – «con le mille voci» del suo amore, facendosi sentire nel profondo e attirando sempre verso di sé il cuore dell’umanità.

Nella misura in cui la nostra esperienza religiosa è riuscita a scoprire che questa Presenza è la realtà che ci sostiene e promuove, abbiamo il diritto di nutrire la convinzione che, in un modo o nell’altro, essa continuerà a manifestarsi nella storia, suscitando nuove forme di religione o promuovendo il rinnovamento e il dialogo tra quelle esistenti. E, nella misura in cui la nostra esperienza cristiana sperimenta che in Gesù di Nazaret ci è stata manifestata un’articolazione di tale Presenza che colma le nostre aspettative, al punto di essere disposti a vendere tutto per viverla, coltivarla e comunicarla, potremo essere sicuri che essa continuerà a germogliare nella comunità, rompendo abitudini, promovendo novità, aprendo verso un universalismo sempre rinnovato.

È accaduto all’inizio e non c’è motivo che non accada ora. Una speranza realistica non prenderà queste convinzioni come un cuscino su cui posare pigramente la testa. Ma certamente essa è pienamente legittimata ad appoggiarsi su di esse e a confidare nel futuro. Un futuro che ha imparato l’umiltà dalla propria storia e che, naturalmente, non potrà più essere esclusivista, ma si sentirà incluso nel dialogo con le altre ricerche – con le altre religioni e anche con gli altri sforzi culturali – sapendo che, accogliere i loro contributi, le loro critiche e le loro sfide non allontana dalla propria essenza, ma l’arricchisce, nello stesso tempo che essa arricchisce gli altri.

Dall’umile esperienza della propria fede e dall’onesto riconoscimento degli errori della propria Chiesa, anche un cristiano d’oggi può dire fiducioso: «Crederò sempre in Te». Ma senza mai cadere nella pericolosa retorica del «nonostante Te». Al contrario, proclamando di nuovo l’umanissima e realistica sicurezza: «Grazie a Te, spero di credere sempre in Te».


* Per Mesoamerica s’intende una regione di culture indigene precolombiane molto avanzate, che si estende dalla capitale del Messico sino all’America Centrale di Honduras e Nicaragua [ndt].
[1] Tra le innumerevoli descrizioni e diagnosi, si veda quella eccellente di M. Corbí, Los rasgos de una religiosidad viable en la nuevas condiciones culturales de las sociedades industriales, nell’opera collettiva Religiones de la tierra y sacralidad del pobre. Aportación al diálogo interreligioso, Santander 1998, pp. 65-100.
[2] J.-M. R. Tillard, Siamo gli ultimi cristiani? Lettera ai cristiani del duemila, Queriniana, Brescia 1999, p. 35. Si ricordi che anche J.P. Jossua ricorrerà a questo stesso esempio: cf. supra, cap. I, nota 66. Contra lo que muchos suponían al inicio, Yossel Rakover es un personaje de novela, no un rabino real: Zvi Kolitz, Yossel Rakover Speaks to God: Holocaust Challenges to Religious Faith”, Ktav Pub Inc 1995).
[3] J. Gaillot, Una iglesia que no sirve, no sirve para nada, Santander 1990.
[4] M. Trevor, John H. Newman. Crónica de un amor a la verdad, Salamanca 1989, p. 205.

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Un commento

  1. Giorgio De Checchi 19 giugno 2020

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