GP2: Fotografie, schieramenti, guerre di posizione. E poi?

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La “telenovela” sul Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per le scienze del matrimonio e della famiglia (come si sa: rinnovati Statuti e Ordinamenti, corsi e professori cambiati e ampie polemiche) all’inizio di agosto si è arricchita di un sensazionale reportage fotografico. Composto da una sola foto ma eloquentissima: il papa emerito insieme a don Livio Melina, il professore (già preside) colonna portante del “vecchio” Istituto il cui insegnamento non è stato confermato.

Pontificio Istituto Giovanni Paolo II

Benedetto XVI e Livio Melina

La foto è del 5 agosto. Perché parlarne ora? Perché quella eco non si è spenta.

A cosa serve portare in appoggio il papa emerito? Dobbiamo aspettarci un endorsement pubblico di Ratzinger?

Quale è il senso “ecclesiale” dell’operazione?

Il cambiamento di Statuti e Ordinamenti (e dunque del piano di studi, rispettando i percorsi già avviati dagli studenti) è deciso in base alla costituzione apostolica Veritatis gaudium del 2017 che ridisegna l’istruzione superiore cattolica. L’insegnamento su matrimonio e famiglia doveva rimanere indenne perché affidato all’eredità di Giovanni Paolo II? Cioè, in altri termini, davvero si può pensare che su matrimonio e famiglia il santo papa Giovanni Paolo II abbia detto l’ultima parola? Dopo di lui niente?

Sembra davvero esagerato.

E “arruolare” il papa emerito come indica la foto, non polarizza inutilmente una situazione ecclesiale già complessa? Davvero mons. Melina e gli altri docenti pensano che sia possibile un ritorno indietro come se fosse cancellabile il motu proprio del 2017 che decreta la chiusura del precedente Istituto e l’apertura del nuovo?

Siamo di fronte ad una situazione inedita. Con almeno un risvolto (drammatico davvero) da sottolineare. Tra le critiche, una soprattutto: non si accetta la dicitura «scienze del matrimonio e della famiglia», invisa e irrisa dall’anziano prof. Grygiel perché – ha detto in un’intervista ad un canale polacco – non ci sono «scienze» che tengano: la verità sulla famiglia è di natura teologica e basata sul Vangelo.

Dal canto suo mons. Melina parlando a Brescia nel 2018 ha fornito una spiegazione della «irriducibilità». Ha aperto il suo intervento ricordando una lettera scritta da suor Lucia all’allora mons. Caffarra quando il Pontificio Istituto venne fondato. Suor Lucia, appoggiando la volontà del papa, scriveva a Caffarra che l’ultima battaglia tra la donna vestita di sole e il serpente avrebbe avuto per tema la famiglia.

Dunque non siamo nel campo del dibattito ecclesiale ma nel campo delle verità di fede, dei dogmi più intangibili, con l’avallo di suor Lucia e della Madonna.

Qui dovrebbe entrare in campo la psicologia, tanto irrisa, per sottolineare come abbiamo di fronte una sensazione di “investitura divina” che sottrae il dibattito allo scambio delle opinioni e lo ideologizza in un’aura sacrale. Naturalmente la lettera di suor Lucia è raccontata e non mostrata.

E poi si “arruola” il papa emerito. Cosa dobbiamo aspettarci ancora: un documento del papa emerito che sconfessa papa Francesco? Davvero si arriverebbe a questo?

La polemica è esagerata. Un contributo dirimente lo ha portato mons. Mauro Cozzoli su Avvenire del 29 agosto. Tutto da meditare. Nel passaggio centrale egli nota: «La teologia morale insegna che i criteri valutativi (le fonti di moralità) di un atto sono il finis operis, vale a dire la bontà o malizia oggettiva espressa dalla legge; le circumstantiae, ossia le situazioni e condizioni di vita delle persone; e il finis operantis, ovvero l’ intenzione del soggetto agente. Un legalismo e oggettivismo etico egemone sbilanciava sul finis operis e quindi sulla stima oggettiva della legge il metro di valutazione della morale. Bastava la disapprovazione della legge – valevole indistintamente per tutti: non importa chi – a delegittimare e a riprovare un comportamento.

Papa Francesco, senza nulla togliere al valore e al ruolo della legge, quel metro lo ha ri-equilibrato sulla persona, richiamando il contributo e il peso delle circostanze e delle intenzioni in cui e con cui il soggetto ha agito o agisce. Di qui il ripetuto appello al discernimento, volto a riconoscerle e ponderarle; e al foro interno: il “luogo” proprio del discernimento, dove la coscienza del soggetto incontra quella del pastore, in ordine al giudizio morale delle scelte compiute o da compiere. Il che porta alla legittimazione soggettiva di scelte non ancora conformi alla legge, in un cammino progressivo di avvicinamento alla piena conformità. Non senza l’aiuto della grazia anche sacramentale, stante il significato e il valore medicinale (curante e sanante) della grazia, piuttosto trascurato, ma che il papa rievoca e mette in evidenza.

Tutto questo – il contributo morale di circostanze e intenzioni, il discernimento delle situazioni e delle condizioni di vita delle persone, il valore e il peso giudiziale del foro interno e, con essi, il ruolo normativo della coscienza, l’efficacia medicinale della grazia – non è alieno alla traditio ecclesiae, ma le appartiene essenzialmente.

Queste componenti del pensare e del vivere morale – come tutte le realtà che sono nella storia – possono andare e sono andate incontro a perdite e a dimenticanze, a sbilanciamenti e ad offuscamenti. Francesco le ha richiamate, ribilanciate, rimesse in luce e in atto, in quel riassetto assiale della morale – avviato dal concilio Vaticano II – dal primato della legge al primato effettivo (non meramente teorico) della persona e, con essa, della grazia».

Chiaro ed efficace. E allora, di cosa stiamo parlando? Forse dovremmo discutere dell’appartenenza ecclesiale di docenti che hanno perso il senso della misura. O no?

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Un commento

  1. Stefano Saffioto 30 agosto 2019

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