J. Moltmann: Dio e il dolore del mondo

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Secondo il teologo J. Moltmann tutto il dolore del mondo è stato assunto nel dolore del Padre, nella consegna del Figlio e nella forza dello Spirito.

Si sta sentendo di tutto in questi tempi di coronavirus. Ad esempio, il vescovo di Cuernavaca (Messico), Ramon Castro Castro, in un’omelia domenicale – non in un’intervista, in una conferenza o in un dibattito –, ha detto che Dio se l’è presa perché si è data via libera all’aborto, all’eutanasia e alla diversità sessuale. Ha tirato in campo i furti, la corruzione, la violenza, ma non il narcotraffico.

Certo, l’attuale pastore della diocesi di Cuernavaca non è neppure l’ombra del mitico Mendez Arceo, che diresse la diocesi dal 1953 al 1983, una delle figure più prestigiose del concilio Vaticano II. Basti pensare al suo appoggio alla teologia della liberazione e al Centro culturale di documentazione (CIDOC) del filosofo Ivan Illich, che ebbe tante grane con il Vaticano.

Il grido del vescovo Ramon Castro, che ha detto essere il «grido di Dio», non è certo sulla linea dell’intervento del noto gesuita James Martin, che sul The New York Times del 22 marzo poneva la domanda: dov’è Dio nella pandemia?

Il Dio crocifisso

Scomodiamo il grande teologo riformato, 93 anni, Jurgen Moltmann che, negli anni Settanta, pose la questione: Dio e il dolore del mondo, tema classico, da sempre presente nella riflessione teologica, tornato alla ribalta in questi tempi di coronavirus, non investendo solo i teologi, ma anche le comunità cristiane, alle prese con il digiuno eucaristico, le messe senza partecipazione corale, i riti più significativi dell’Anno liturgico (Il triduo pasquale).

Ricorda il teologo Rosino Gibellini, in Antologia del Novecento teologico (Queriniana, Brescia, 2011, p. 203), che già san Basilio nel IV secolo nelle omelie della maturità ne parlava come di un «problema spesso dibattuto».

Nei tempi moderni ne parlò il filosofo tedesco Leibniz (1646-1716) nei Saggi di teologia (1710). Come si può conciliare l’onnipotenza di Dio e la sua bontà con la presenza del male e del dolore del mondo? Come si può giustificare l’esistenza di Dio di fronte alla sofferenza?

Moltmann, Dio e dolore del mondo

In questi anni il filosofo-teologo spagnolo, Andrés Torres Queiruga, ne ha fatto oggetto di trattazioni di gran valore. I suoi testi sono al riguardo i più importanti e significativi nell’orizzonte teologico attuale.

Nessun teologo del XX secolo – che ha conosciuto Auschwitz, Hiroschima, l’Arcipelago Gulag – ha dato un contributo così importante e decisivo come il teologo Moltmann con l’opera Il Dio crocifisso (1972). È una riflessione che si radica nella Bibbia, percorre la filosofia e la teologia, interpella la vita quotidiana della sofferenza e della morte di tanti innocenti, vittime di guerre assurde, di ideologie demoniache, di comportamenti inumani.

Centro della riflessione di Moltmann è il coinvolgimento di Dio nella passione del mondo. La croce è vista e interpretata come «avvenimento di Dio», come «storia di Dio» e, di conseguenza, come «storia della storia umana». La conclusione è che la storia umana è Dio. Il Dio crocifisso è intimamente connesso con la speranza.

La sofferenza di Dio

Moltmann è il principale artefice della Teologia della speranza, che il teologo evangelico aveva delineato già nel 1964, quando insegnava teologia sistematica a Bonn e che continuerà nell’Università di Tubinga a partire dal 1967, dando vita e corpo alla cristologia escatologica, che si può riassumere nella celebre espressione: nella risurrezione di Cristo sono gettatele basi del futuro dell’umanità. Questo soprattutto dopo Auschwitz con la domanda inquietante: quale teologia dopo Auschwitz? Il Dio crocifisso – osserva Moltmann – dà profondità e radicalità alla speranza, introducendo nel movimento messianico la storia della passione umana.

Osserva Moltmann: la croce deve essere intesa in termini trinitari. «Ogni storia umana, per quanto contrassegnata dalla colpa e dalla morte, viene superata in questa “storia di Dio” e cioè nella Trinità, e viene integrata nel futuro come “storia di Dio”. Non esiste nessuna sofferenza che in questa storia di Dio non sia sofferenza di Dio, come non esiste nessuna morte che non sia diventata morte di Dio nella storia del Golgotha. Per cui non esisteranno nemmeno vite, felicità e gioia che non vengano integrate, mediante la sua storia, nella storia eterna, nella gioia infinita di Dio» (Il Dio crocifisso, p. 288).

«Pensiamo ai martiri»: scrive Moltmann (1972). «A proposito di queste persone, di queste mute vittime, possiamo dire solo in senso realmente figurato che Dio stesso pende dalla forca (riferimento alla scena descritta da Elie Wiesel, La Nuit, 1950, trad.it., La notte, Giuntina, Firenze 1980).

E, se lo affermiamo con serietà, dovremo anche aggiungere che, come la croce di Cristo, così anche il lager di Auschwitz si trova in Dio stesso, è stato cioè assunto nel dolore del Padre, nella consegna del Figlio e nella forza dello Spirito.

Ciò non comporta la minima giustificazione di ciò che è successo in quel campo di concentramento, delle atrocità sofferte da quelle vittime, perché la croce stessa segna l’inizio della storia trinitaria di Dio. Solo con la risurrezione dei morti, degli assassinati e dei gassati; solo con la guarigione degli angosciati e martoriati in vita; solo con la demolizione di ogni potere e dominio, con l’annientamento della morte, il Figlio consegnerà il regno al Padre, come Paolo afferma in 1Cor 15. Allora Dio tramuterà il proprio dolore in gioia eterna.

È in questi termini che si annunciano il compimento della storia trinitaria di Dio e la fine della storia del mondo, il superamento della sofferenza e l’adempimento della storia di speranze dell’umanità. Dio in Auschwitz e Auschwitz in Dio: è questo il fondamento di una speranza reale, che abbraccia la realtà del mondo e su di essa trionfa, ed è anche la ragione di un amore che è più forte della morte e che può «tenere fermo il mortuum». (espressione hegeliana che indica la forza di resistenza a tutto ciò che dissolve e annienta) (cf. Il Dio crocifisso pp. 325-327).

Vi sarà una teologia dopo la pandemia? L’interrogativo già serpeggia.

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