La fatica della sinodalità

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Quando si hanno alle spalle diversi anni di servizio negli organismi ecclesiali parrocchiali, diocesani o associativi, vi sono alcune parole che possono suscitare immediatamente un senso di disagio. Una di queste è sinodalità.

Cos’è la sinodalità

Come indicato dal recente documento della Commissione teologica internazionale La sinodalità nella vita della Chiesa, questo termine «nel greco ecclesiastico esprime l’essere convocati in assemblea dei discepoli di Gesù e, in alcuni casi, è sinonimo della comunità ecclesiale. […] Con un significato specifico, sin dai primi secoli, vengono designate con la parola “sinodo” le assemblee ecclesiali convocate a vari livelli (diocesano, provinciale o regionale, patriarcale, universale) per discernere, alla luce della parola di Dio e in ascolto dello Spirito Santo, le questioni dottrinali, liturgiche, canoniche e pastorali che via via si presentano» (nn. 3-4).

Il documento, poi, continua affermando che oggi il sostantivo sinodalità fa riferimento al coinvolgimento e alla partecipazione di tutto il popolo di Dio in questo discernimento della voce dello Spirito relativo alla vita e alla missione della Chiesa (cf. n. 7).

La ragione dell’emozione non sempre positiva che questo termine può suscitare, insieme ad altri dal significato simile, è data dal fatto che esso evoca innumerevoli e faticose riunioni, commissioni e gruppi di lavoro con cui si è cercato di portare avanti un discernimento ecclesiale, e che però non di rado non è pervenuto a risultati significativi, o i cui esiti non sono stati recepiti dalla base ecclesiale.

Una delle ragioni di queste difficoltà nel vivere i processi sinodali potrebbe consistere in una comprensione inadeguata delle sue caratteristiche teologiche, cosa che fa nascere pericolosi equivoci sul suo funzionamento. Vorrei proporre tre esemplificazioni.

Non significa per forza consenso condiviso

Il fraintendimento più grave che si può determinare in un percorso sinodale è il ritenere che esso possa produrre un consenso così ampio da consentire decisioni condivise, al punto che queste non generano conflitti di sorta. Del resto, il sogno di ogni pastore è quello di poter svolgere il proprio ministero in santa pace e senza doversi imporre dolorosamente su una parte della sua comunità. Così la sinodalità, a volte, è messa in campo con il segreto auspicio che riesca a mettere tutti d’accordo. In realtà, questo non avviene quasi mai. Anche se ciò che lo Spirito suggerisce ai credenti va nella stessa direzione, non tutti sono realmente capaci di ascoltare la sua voce e di distinguerla dalle proprie opinioni non evangeliche.

La sinodalità, dunque, consegna sempre ad una comunità cristiana una serie di soluzioni contrastanti, audaci progetti di riforma mescolati alla paura e al desiderio di non cambiare nulla per il timore di forti lacerazioni nel tessuto ecclesiale. Per questa ragione i percorsi sinodali possono finire per produrre decisioni irrisorie, o terminare con il semplice passaggio ad un altro argomento, senza alcuna conclusione. In alcuni casi, vengono tenuti in stand by per molti anni, fino a che ci si è dimenticati del percorso fatto in modo da poterlo iniziare di nuovo.

Tuttavia, se ci si mette in ascolto dello Spirito in modo sinodale, poi non ci si può tirare indietro dal momento decisionale, perché questo significherebbe ignorare la sua voce e peccare molto gravemente. Occorre invece accettare che, al termine di un percorso di discernimento comunitario, il pastore debba prendere delle decisioni che sono necessariamente discutibili, e che purtroppo sia inevitabile che qualcuno ritenga opportuno “tirarsi fuori” o addirittura andarsene.

La sinodalità, al pari del Vangelo, è “pericolosa”, e questa caratteristica si ripercuote necessariamente sul ministero di chi è stato chiamato a presiedere la comunità cristiana. Lo dimostra il fatto che qualunque riforma significativa della Chiesa ha sempre provocato piccoli o grandi scismi, analoghi alla forte reazione di una parte del mondo cattolico ad alcune decisioni di papa Francesco.

Non significa decisioni senza verifica

Un secondo possibile fraintendimento del percorso sinodale è quello che si preoccupa di elaborare decisioni programmatiche senza verificare la loro attuazione nella vita delle comunità cristiane.

Non dobbiamo dimenticare che la parola umana dei documenti ecclesiali, a differenza di quella divina, non è creatrice, cioè non realizza immediatamente quello che dice, ma necessita sia di un’ampia divulgazione e spiegazione sia di una verifica della sua recezione.

Quest’ultimo momento della recezione, poi, rappresenta l’inizio di un nuovo percorso sinodale, nel quale le decisioni prese vengono recepite creativamente dalle varie comunità, e quindi non deve essere scambiato con un processo di imposizione. Non si può tollerare, tuttavia, una chiusura pregiudiziale o ideologica nei confronti di quanto è stato stabilito al termine di un effettivo percorso sinodale, perché questa rappresenterebbe una chiusura alla voce dello Spirito.

Non significa fissarsi sui problemi di partenza

Un ulteriore equivoco della sinodalità è quello di fissarsi sui problemi di partenza. In realtà, se ci si mette in ascolto dello Spirito, occorre riconoscergli la possibilità di cambiare le domande con cui si è cominciato a riflettere. Così, ad esempio, si può iniziare un percorso sinodale sul problema della ristrutturazione della diocesi, e capire, strada facendo, che per portarla avanti occorre comprendere nuovamente che cosa sia il Vangelo e in che modo le comunità possano rinascere da esso. A quel punto, se ci si arrocca sulle questioni di partenza, impedendo a chi coglie la necessità di un cambio di prospettiva anche solo di poterlo proporre, ci si chiude ancora una volta alla voce dello Spirito.

La logica della sinodalità richiede di rinunciare a prevedere lo sviluppo del percorso di riflessione ecclesiale e di essere pronti a cambiare le domande di partenza o a trovare risposte inaspettate.

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