La lettera, genere originario della teologia

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Nel quadro del dibattito su una teologia a-venire in corso su SettimanaNews, capace di raccogliere in un unico gesto dell’intelligenza cristiana il Vangelo di Gesù, i vissuti concreti nel nostro tempo e l’esigenza di una destinazione alle generazioni più giovani, è stato organizzato un piccolo seminario di studio sul tema «In forma di lettera», in collaborazione col Dipartimento di teologia cattolica dell’Europa-Universität di Flensburg (25 ottobre 2017). Alcune brevi relazioni (J. Deibl, G. Cova, A. Torresin, E. Antoniazzi) hanno offerto un terreno fecondo per una discussione tra i partecipanti, che ha permesso uno scavo ulteriore non solo delle forme teologiche adeguate a un’epoca di trasformazione, ma anche sulla sua destinazione al cristiano/alla cristiana che vive concretamente dentro una storia più ampia dei vissuti di fede. Come approfondimento del dibattito ci sembra opportuno offrire ai lettori e lettrici di SettimanaNews i testi di alcune delle relazioni della giornata di studio.

Ripensare i contenuti della teologia richiede anche una riflessione sulla forma in cui essa si esprime, ed è questo aspetto che vorrei prendere in analisi nelle considerazioni seguenti. Tale compito ci spinge verso la domanda sulla forma di lettera come genere originario della teologia.

Dopo aver posto alcune domande (1), intendo mostrare che le lettere rappresentano l’inizio e la particolarità dello scrivere nel Nuovo Testamento (2).

Poi vorrei cercare di mostrare, in abbozzo, il significato particolare della tipologia della lettera. La situazione comunicativa legata alla lettera racchiude due momenti importanti: l’attendere e l’esporsi all’altro. Inoltre, merita fare attenzione all’inizio e alla fine delle lettere, ossia all’apertura e al congedo (3).

Il fatto che il divenire del cristianesimo e della Chiesa sia collegato inseparabilmente con lo scrivere delle lettere lo riflette Paolo nell’immagine della comunità come lettera che si trova nella seconda lettera ai Corinzi (4). Chiuderò le mie considerazioni con alcuni sguardi prospettici (5).

Lettera e teologia

1) Domande

Già da lungo tempo mi ha colpito il fatto che la maggior parte del Nuovo Testamento sia in forma di lettera. Parliamo della “rivelazione divina” e di “parola di Dio”, benché si tratti delle lettere. Questi testi non hanno un’origine che si sottrae sprofondando nel buio di un passato primordiale, e neppure hanno qualcosa di straordinario. Sappiamo bene che sono stati scrittori umani a redigerli, di cui conosciamo i nomi, che hanno inviato quei testi a comunità o a persone singole – e anche nel loro caso ne conosciamo i nomi. Queste lettere danno forma al legame fra comunità disperse. Una religione basata su una sacra Scrittura che abbraccia una raccolta di lettere? Si tratta di testi appropriati per la rivelazione?

Se siamo d’accordo che l’intero Nuovo Testamento dev’essere letto in corrispondenza con l’Antico, dove si trovano allora i punti di riferimento rispetto alle lettere? C’è forse un qualche influsso della lettera nel capitolo 29 di Geremia (forse la lettera più importante dell’Antico Testamento) sulle lettere del Nuovo Testamento? I testi dei profeti, che sono anche contrassegnati dal loro indirizzarsi agli ascoltatori, possono rappresentare un modello per le lettere neotestamentarie? Il passaggio dall’Antico Testamento al Nuovo Testamento può essere compreso come passaggio dal profeta allo scrittore di lettere? Giovanni Battista come l’ultimo dei profeti e Paolo come il primo degli scrittori? Dalla profezia alla lettera – un indebolimento che rispecchia il carattere kenotico della narrazione di Gesù?

La teologia cristiana ha preso in considerazione quella specificità che caratterizza il genere di lettere che si trova alla sua origine? Come si trasformerebbe la teologia accademica se prendesse in considerazione il genere originario dello scrivere nel cristianesimo?

 2) Le lettere nel Nuovo Testamento: inizio e particolarità dello scrivere cristiano

I primi cristiani hanno trovato la sacra Scrittura nella Torah, negli scritti dei profeti e nei salmi cf. (Lc 24,44), ossia nel Tenach ebraico. Non c’era la necessità di scrivere nuovi e altri testi nei primi anni dello sviluppo di questo movimento.

È stato Paolo che ha sentito per la prima volta la necessità di rivolgersi in modo scritto alle comunità. Doveva lasciare Tessalonica immediatamente. È partito per Berea e poi per Atene (Atti 17) e Corinto. Sila e Timoteo, compagni di Paolo, sono andati a trovare i Tessalonicesi. Poi Paolo ha scritto loro una lettera, il primo documento scritto cristiano. Essa è stata la conseguenza di una dislocazione, di una presenza rinviata, dilazionata. Si apre uno spazio di distacco all’interno del quale si inserisce la prima lettera (cristiana).

Seguono poi altre lettere. Alla comunità dei Colossesi ordina di leggere la lettera che hanno ricevuto e di inoltrarla a Laodicea. D’altro canto, i Colossesi avrebbero dovuto leggere la lettera mandata ai Laodicesi (cf. Col 4,15) Forse possiamo immaginarci un dipinto delle prime comunità cristiane come un tessuto collegato mediante lettere, visite e viaggiatori come Paolo. Forse c’era una fragile rete di lettere inoltrate da una comunità all’altra.

La prima forma dello scrivere cristiano è dunque quella della lettera. Non solo il testo più antico e quello più recente del Nuovo Testamento sono delle lettere, ossia esse sottendono tutto l’arco di tempo del suo sorgere. Ma anche l’ordinamento canonico dei testi del Nuovo Testamento mostra un passaggio alla forma della lettera. Con il Vangelo di Luca e con gli Atti degli apostoli, nella sequenza delle scritture neotestamentarie, si dà già un avvicinamento alla forma della lettera – questo attraverso lo stile di un discorrere indirizzato (cf. Lc 1,1-4; At 1,1s.).

In maniera esplicita, la forma della lettera comincia con quella che Paolo scrive alla comunità di Roma; essa non verrà poi più abbandonata fino alla fine del Nuovo Testamento. L’Apocalisse di Giovanni non solo contiene sette lettere, ma ha la forma di una lettera stilizzata. In tal modo, gran parte di quei testi che sono sorti come documenti originari del cristianesimo ha la forma di una lettera.

All’inizio della teologia cristiana, come teologia scritta, sta quindi il medium della lettera che mantiene un significato centrale per secoli anche oltre il Nuovo Testamento. A cominciare con la Prima lettera di Clemente, passando attraverso lo scambio epistolare fra Girolamo e Agostino, per arrivare fino alle lettere di Anselmo d’Aosta – solo per fare alcuni esempi. Non saprei dire quando la lettera, quale mezzo essenziale della discussione teologica, finisce con lo scomparire e viene soppiantata del tutto dalle somme, dai trattati, dai manuali… Ci sono eccezioni che riprendono la forma della lettera, ad esempio il dialogo scritto fra Carlo Martini e Umberto Eco.

Con Evangelii gaudium, il suo documento inaugurale, anche papa Francesco ha ripreso questa forma dello scrivere. Nella maniera più bella, per me questo lo si può trovare nel seguente passaggio: «Mi piacerebbe dire a quelli che si sentono lontani da Dio e dalla Chiesa, a quelli che sono timorosi e indifferenti: il Signore chiama anche te ad essere parte del suo popolo e lo fa con grande rispetto e amore!» (EG 113). Il papa non decreta, ma esprime al condizionale come gli farebbe piacere rivolgersi anche a coloro che sono lontani dalla Chiesa. Egli desidera raggiungere anche costoro quali destinatari della sua lettera amica. E non parla solo dell’amore di Dio per gli uomini, ma anche – e questo mi sembra decisivo – del rispetto di Dio nei loro confronti.

Rimane la questione del perché dalla teologia sia scomparsa la forma dello scrivere un discorso indirizzato amichevolmente. In questo, la teologia non potrebbe orientarsi seguendo il gesto del papa per trovare così di nuovo destinatari reali? Ciò non vuol dire che in futuro i teologi e le teologhe debbano esprimersi di più in forma di lettera; ma che il gesto di un discorrere indirizzato e amichevole (qualsiasi sia la sua forma concreta), e con questo il ritrovamento di destinatari reali, è qualcosa che ritengo imprescindibile per la teologia stessa.

 3) Considerazioni rispetto al genere delle lettere

La lettera implica una precisa situazione di comunicazione, caratterizzata da due aspetti centrali: attendere una risposta ed esporsi all’altro. Ciò che contraddistingue una lettera, in primo luogo, è che si tratta di un discorso indirizzato/destinato. Abbiamo un mittente che ha in vista un destinatario o un gruppo di destinatari. Non si scrive una lettera per trattare un tema, o per tenere vivo il discorso di una scientific community, ma perché c’è qualcuno da cui si può sperare un qualche interesse e una risposta.

Molto più di ogni altro testo, la lettera attende risposta. Non si tratta di un testo autosufficiente, finito in se stesso e completamente inserito nel mondo dei discorsi che si rinnova continuamente. Piuttosto, la lettera plasma una situazione del dare e del ricevere che rimane aperta; essa non è in grado di abbracciare il suo contenuto da sola. Scrivere una lettera rende lo scrittore esposto ai destinatari e alla loro risposta. Questo fa della lettera un modo molto debole di scrivere, fragile e vulnerabile.

Negli anni ’20 Heidegger ha tenuto delle lezioni sulle lettere ai Tessalonicesi (Introduzione alla fenomenologia della religione, semestre invernale 1920/21). In queste lezioni elabora già molti concetti centrali della sua filosofia. Heidegger ha mostrato che Paolo dipende completamente dalla comunità: non ha un “io” isolato e chiuso in se stesso, ma è esposto e aperto ai Tessalonicesi. Dice Paolo: «voi siete la nostra gioia» (cf. 1Tes 2,20). Separato da loro, Paolo non ha una propria individualità. È collegato con la comunità attraverso le lettere.

Il legame delle comunità cristiane è lo Spirito. Forse si può dire che la prima espressione dello Spirito sono le lettere in quanto esprimono il tessuto relazionale della Chiesa nascente.

L’inizio e la fine, apertura e congedo, sono quei luoghi che mostrano più di altri la particolarità delle lettere. È necessario plasmare sia l’inizio sia la fine delle lettere in modo molto accurato. Certo, ogni testo inizia e finisce; ma in una lettera bisogna dedicare una cura particolare all’apertura iniziale e al congedo finale.

Questa configurazione particolare della lettera può essere illustrata attraverso un esempio preso dall’estetica di Hegel. Egli afferma che è necessario dare forma precisa sia allo zoccolo sia al capitello di una colonna per fare in modo che il suo passaggio al pavimento e all’architrave non sembri essere soltanto casuale. Altrimenti qualcuno potrebbe ritenere che il tetto sia troppo pesante e che la colonna venga spinta nel pavimento.

Similmente si può dire della lettera, che non trasmette solo un contenuto ma è una forma complessiva che deve mettere mano con cura al suo inizio e alla sua fine. Senza saluto e congedo una lettera non è una forma compiuta. Ci si potrebbe chiedere se il modo proprio dello scrivere non sia quello che si rivolge-a e si congeda-da, ossia quello della lettera; così che gli altri generi di scrittura (senza saluto e congedo) sarebbero da pensare a partire da essa, come se derivassero dalla lettera – mancando solo del momento del rivolgersi-a e del prendere congedo-da.

L’inizio e la fine sono dei luoghi di saluto che esprimono grande densità e precarietà. Come dice il filosofo Hans-Dieter Bahr, prima di salutare qualcuno c’è un istante di incertezza che mantiene in sospeso se si tratti di incontrare un amico o un nemico. È il piccolo spazio che precede l’identificazione dell’altro mediante i nostri concetti di ordinamento.

Ritengo che anche il momento del congedo porti con sé una simile incertezza. Rispetto alle lettere, possiamo chiederci come finire un testo. Forse abbiamo fatto esperienza di questa paura che l’ultimo gesto, l’ultima parola, l’ultimo movimento di un incontro con qualcuno, possa cambiare tutto il discorso precedente. La fine di un incontro o di una lettera destinata a qualcun altro è un luogo di estrema densità e precarietà. Si devono lasciare le parole all’interpretazione di qualcun altro. Lo scrittore non ha più nessun controllo sul processo del dare significati.

Rivolgiamo ora la nostra attenzione alla lettera di Paolo ai Romani. Il suo inizio, già il saluto, è un esempio di una grande teologia. Lo hanno mostrato in maniera mirabile Jacob Taubes (La teologia politica di san Paolo) e Giorgio Agamben (Il tempo che resta. Un commento alle Lettera ai Romani). Ogni parola sembra essere scelta accuratamente.

Ma, al termine, ci sono due capitoli che sono i tentativi di Paolo di finire la lettera. Egli si rivolge sempre di nuovo ai suoi destinatari, senza riuscire a trovare il punto di approdo finale. Non si tratta, però, di capitoli inutili, ma piuttosto di versetti estremamente ricchi di significato. Mostrano la difficoltà del congedo di un incontro.

Le lettere, più di altri generi letterari, sono in grado di rivelare questa incertezza della fine di un testo perché rappresentano una situazione dell’incontro, dell’incontrarsi. Perciò le lettere sono un modo estremamente peculiare dello scrivere. Lo scrivere in forma di lettera sa che ogni testo ha un inizio e una fine, e che nessun testo (sia esso anche teologico) può dire tutto. In tal modo, la limitatezza dello scrivere si palesa in maniera estremamente chiara soprattutto nel genere della lettera.

4) Interpretazione teologica: Chiesa come lettera

Penso che Paolo, e poi anche gli altri apostoli, si siano trovati davanti alla necessità di rivolgersi alle comunità attraverso delle lettere. Non volevano scrivere testi che ritenevano sacra Scrittura. La sacra Scrittura era allora il Tenach. Ma, passo dopo passo, si sono accorti che si stava sviluppando un nuovo modo particolare dello scrivere, che andava assumendo un certo tipo di forma. Questo processo richiedeva una riflessione. È stato di nuovo Paolo a riflettere su questo sviluppo. Egli interpreta teologicamente qualcosa che sembra essersi sviluppato soltanto a partire da una necessità contingente.

Faccio riferimento al terzo capitolo della seconda lettera ai Corinzi. Si tratta di uno dei brani di più grande densità teologica del Nuovo Testamento. Paolo fa riferimento a testi molto importanti dell’Antico Testamento e paragona la comunità a una lettera. Ma come inizia il testo?

«Cominciamo forse di nuovo a raccomandare noi stessi? O forse abbiamo bisogno, come altri, di lettere di raccomandazione per voi o da parte vostra? La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,1-3).

Paolo prende innanzitutto distanza da un punto di partenza dello scrivere che risiederebbe nell’auto-identità del mittente, ossia in lui e nei suoi collaboratori («noi stessi»). Non c’è un punto di partenza in se stesso e Paolo non ha un’identità chiusa in stessa; la sua identità è collegata con i Corinzi a cui scrive. Decisivo è il legame con la comunità a cui si rivolge («la nostra lettera siete voi»).

Parla delle lettere di raccomandazione. Si tratta del punto di avvio per inserire il motivo della lettera nel discorso appena cominciato. Da quelle lettere Paolo differenzia un altro tipo di lettera. Si tratta di una lettera che rappresenta la comunità: «La nostra lettera siete voi» (2Cor 3,2).

Come caratterizza questa lettera? In che modo è stata scritta? Paolo parla di una «lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini» (2Cor 3,2). La lettera impersonata dalla comunità sta, da un lato, per la più grande interiorità/intimità («scritta nei nostri cuori)» e, dall’altro, per la più grande generalità e il massimo ampliamento che va al di là di un gruppo limitato di lettori («conosciuta e letta da tutti gli uomini»). Si tratta, quindi, di una lettera di portata universale, che può essere letta da tutti gli uomini e le donne e deve essere traducibile in ogni lingua.

Si tratta di una lettera di carattere pentecostale, che ricorda l’evento di un comprendersi che va oltre ogni confine (linguistico) di separazione: «E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa?» (At 2,8). Infatti, subito dopo la leggibilità della lettera per tutti gli esseri umani si parla esplicitamente di una «lettera di Cristo» scritta «con lo Spirito del Dio vivente» (2Cor 3,3).

Questo passo apre un movimento che viene illustrato per mezzo del motivo della lettera: lettere di raccomandazione – la nostra lettera – lettera scritta nei nostri cuori – lettera di Cristo. Siamo così condotti dall’ambivalenza di un testo di raccomandazione alla lettera che è la comunità, che a sua volta lega Paolo e le comunità cristiane; a una lettera che giunge fino al cuore degli uomini ed è immagine della comunità come lettera di Cristo. Questo invito alla risposta raggiunge anche noi oggi. Non dovrebbe questa risposta, che può essere data dalle comunità, dai credenti, dai teologi e dalle teologhe, lasciar trasparire anche elementi del carattere della lettera?

Paolo incastona il tema della comunità come lettera di Cristo e della sua rivelazione nella forma di lettera all’interno della ripresa, o esegesi, di passi centrali dell’Antico Testamento che vengono intrecciati fra di loro (Esodo, Geremia ed Ezechiele): «Scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2Cor 3,3).

Se la Legge consegnata da Dio a Mosè era scritta su tavole di pietra (cf. Es 24,12), la lettera di Cristo è scritta nei cuori – il contrassegno, secondo Geremia, del nuovo Patto (cf. Ger 31,31-33). Sì, la lettera di Cristo viene scritta su tavole di carne, riprendendo l’immagine di Ezechiele di un cuore di carne che prende il posto di un cuore di pietra (cf. Ez 11,19; 39,26). Paolo sovrappone qui ad arte motivi dell’Esodo e dei libri dei profeti Geremia ed Ezechiele.

«Questa è la fiducia che abbiamo per mezzo di Cristo, davanti a Dio. Non però che da noi stessi siamo capaci di pensare qualcosa come proveniente da noi, ma la nostra capacità viene da Dio, che ci ha resi ministri adatti di una Nuova Alleanza, non della lettera ma dello Spirito; perché la lettera uccide, lo Spirito dà vita» (2Cor 3,4-6).

Abbiamo anche una breve professione di fede: fiducia e fede ci vengono mediante Cristo davanti a Dio nella forza vivificante dello Spirito («lo Spirito dà vita»). Paolo vede il dono dello Spirito come segno della nuova Alleanza annunciata da Geremia (cf. Ger 31,31-33).

«Il Signore è lo Spirito e dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà. E noi tutti, a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,17s).

Nella libertà dello Spirito accade una trasformazione («veniamo trasformati») della comunità che è lettera di Cristo. L’immagine di Cristo rappresenta l’umanità, la nuova rappresentazione degli esseri umani. Il passaggio finale è una formula liturgica che chiude il passo sulla lettera come il finale di una lettera: «di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore».

Paolo riflette qui sulla nuova forma dello scrivere che inizia a svilupparsi in modo teologico nel cristianesimo incipiente. Lo fa connettendo strettamente la teologia con la comunità: «La nostra lettera siete voi». Non ci sono le comunità e poi le lettere, ma le comunità e la forma letteraria della lettera si costituiscono vicendevolmente. D’altro lato, Paolo mette mano ad un’immagine geniale riconfigurando in maniera nuova passi centrali dell’Antico Testamento. Nel testo vengono integrati anche il tema della trasformazione della comunità e una professione di fede. Chiudendo il tutto con una formula liturgica che fa apparire il testo stesso come una lettera.

 5) Sguardi prospettici

Come si trasformerebbe la teologia se prendesse sul serio il suo inizio nelle lettere del Nuovo Testamento? Vorrei semplicemente menzionare quattro aspetti in merito.

– La teologia non dovrebbe più essere un sistema auto-referenziale. Dovrebbe tentare di rompere sempre di nuovo la propria autoreferenzialità mettendosi in cerca di destinatari reali del suo discorso.

– La teologia dovrebbe comprendersi come una lettera che si sa destinata alla cultura del proprio tempo e luogo. Desiderando così di dare un contributo alla configurazione di questa cultura, astenendosi quindi da ogni nuova forma di guerra culturale.

– La teologia, poi, dovrebbe essere compresa come una risposta alle lettere (libri, testi, testimonianze) del passato che ci raggiungono nel nostro oggi.

– Inoltre, la teologia dovrebbe cercare di destinare queste testimonianze anche alle generazioni a venire così che anch’esse possano formulare la loro risposta a ciò che si rivolge loro.

Jakob Deibl

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