Il magistero è un fiume, non una pietra

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Ancora una volta una reazione piuttosto ottusa di fronte al grande testo di Amoris titia. Con la pretesa di rappresentare molti, addirittura di agire “in persona ecclesiae”, ma con l’unica sicurezza di parlare “in persona ipsius loquentis”, un gruppo di laici, vescovi e cardinali – sempre quelli, in servizio già da due anni – si sono espressi con una triste “formula di fede” intorno al matrimonio. Nel suo cuore le “6 proposizioni” suonano così:

Perciò noi testimoniamo e confessiamo in accordo con l’autentica tradizione della Chiesa che:

  1. il matrimonio tra due battezzati, rato e consumato, può essere sciolto solo dalla morte.
  2. Perciò i cristiani che, uniti da un matrimonio valido, si uniscono a un’altra persona mentre il loro coniuge è ancora in vita, commettono il grave peccato di adulterio.
  3. Siamo convinti che esistono comandamenti morali assoluti, che obbligano sempre e senza eccezioni.
  4. Siamo anche convinti che nessun giudizio soggettivo di coscienza può rendere buona e lecita un’azione intrinsecamente cattiva.
  5. Siamo convinti che il giudizio sulla possibilità di amministrare l’assoluzione sacramentale non si fonda sull’imputabilità o meno del peccato commesso, ma sul proposito del penitente di abbandonare un modo di vita contrario ai comandamenti divini.
  6. Siamo convinti che i divorziati risposati civilmente e non disposti a vivere nella continenza, trovandosi in una situazione oggettivamente in contrasto con la legge di Dio, non possono accedere alla Comunione eucaristica.

Sostanzialmente ritroviamo qui i contenuti dei “5 dubia” tradotti dalla forma di “domande poste all’autorità” alla forma di una “dichiarazione/confessione” con pretese di autorevolezza, presunta e non poco presuntuosa.

Non mi soffermo se non sulle proposizioni 1 e 5, che presentano, in modo assai chiaro, una lettura della tradizione cattolica pesantemente condizionata da due fattori: da un lato dalla “lotta contro lo stato moderno”; dall’altro dalla perdita di coscienza della ampiezza e della complessità della tradizione penitenziale della Chiesa. Proprio coloro che pretendono di essere “fedeli alla tradizione” si lasciano schiacciare dalla prospettiva più recente e dimenticano le cose precedenti, con tutta la loro sapienza.

Infatti, nel momento in cui, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, la Chiesa ha potuto illudersi di dover identificare “ordine matrimoniale” e “ordine pubblico”, ha gradualmente irrigidito il trattamento di questa materia, facendola diventare quasi il “banco di prova” della propria autorità. Per garantire i diritti di Dio, ha sempre più esasperato i propri diritti in campo pubblico, spesso entrando direttamente in conflitto con gli ordinamenti statali e perdendo la memoria delle sue prassi tradizionali.

Il n. 1 presenta un testo che ripete senza dubbio una sapienza antica, medievale e moderna, elaborata lungo i secoli, ma non riesce a cogliere il paradosso per cui la ripetizione, nel 2018, di quella frase, così come si è costruita di generazione in generazione, fino ad essere formulata, così come la leggiamo, soltanto nell’ultimo secolo, dice una grande verità, ma in modo drammaticamente astratto. Anzitutto parla della fedeltà solo in negativo, attribuendo un potere di scioglimento soltanto “alla morte”. Ma ha al suo interno la sapienza di generazioni, che hanno specificato il matrimonio con due aggettivi – rato e consumato – i quali introducono, accanto al potere della morte, anche quello della nascita. Ossia, se lo scioglimento è attribuito solo alla morte, la nascita è condizionata dalla coscienza e dal corpo dei soggetti. Cosicché al “potere della morte” si affianca il “potere del consenso/coscienza” e il “potere del corpo/sesso”. Tutto questo sta già dentro la tradizione classica, che nella proposizione della “Declaratio” non solo “patet”, ma anche “latet”. È come se i firmatari nascondessero anche a se stessi tutta questa ricchezza (e complessità), visto che non esplicitano tutto ciò che quella frase, di per sé, già dice. Ma non basta. In quella frase il senso di “rato” e di “consumato” non può essere semplicemente pensato secondo le caratteristiche di un “contratto”, ma va inteso come “storia di una alleanza”, quindi come “esperienza e percorso di soggetti”, come “coscienza di persone”, come “elaborazione di identità della e nella relazione sessuale”. Quella frase, pur nella sua classica autorevolezza, parla tuttavia di un mondo, da un mondo, e per un mondo, in cui si poteva presumere che la storia dei soggetti, la coscienza delle persone e la sessualità di uomini e donne fossero “grandezze residuali” o addirittura “accidenti irrilevanti”. Chi oggi sintetizza in questo linguaggio vecchio e semplicistico la grande dottrina matrimoniale della Chiesa pensa di svuotare l’oceano con un cucchiaino. E scambia per “autentica tradizione” la propria incompetenza non aggiornata. Quel poco che sa, di famiglia e di matrimonio, non basta più e rischia di fare solo danni.

Altrettanto si deve dire del dettato della proposizione n. 5. La quale si avventura su un terreno come quello del sacramento della penitenza, che pensa di poter strumentalizzare in funzione “antipapale”. Vediamo come. Il testo esprime la convinzione secondo cui

«il giudizio sulla possibilità di amministrare l’assoluzione sacramentale non si fonda sull’imputabilità o meno del peccato commesso, ma sul proposito del penitente di abbandonare un modo di vita contrario ai comandamenti divini».

Si pretende, in altri termini, di tradurre la condizione di “divorziato risposato” in una sorta di “responsabilità oggettiva”. La lettura “oggettivistica” (e politica) della tradizione è a tal punto forzata, che risulterebbe del tutto irrilevante ogni indagine sulla “piena avvertenza” o sul “deliberato consenso” del soggetto. La sola “materia grave” impedirebbe ogni assoluzione fino a che il soggetto non si sia proposto di “abbandonare il peccato”, cioè di abbandonare o il secondo partner, o, almeno, l’esercizio della sessualità con esso. Il bene possibile concreto è negato in ragione del bene massimo astratto.

Anche qui, come è evidente, non si considera per nulla il profilo del soggetto, la sua storia, la sua coscienza, la sua relazione spirituale, corporea e sessuale, storicamente divenuta e spesso del tutto irreversibile. Si resta fermi ad una versione di Familiaris consortio, ma depurandola accuratamente di ogni umanità e di ogni pastoralità. Si fa di FC un testo “politico”. È, questa “confessio romana”, una sorta di Familiaris consortio per canonisti limitati e per laici di corte vedute. Tutto il pathos pastorale, che FC chiedeva già nel 1981, nella forma di un prezioso discernimento, qui viene spento e silenziato. Resta solo una sorta di “furia oggettivistica”, che può concepire una via di salvezza soltanto nella “continenza”, che sembra intesa più come una sanzione irrogata al soggetto, che come una espressione simbolica della fedeltà. Ma nessuno ha segnalato, ai solerti firmatari della Declaratio, che questa “invenzione della continenza per l’accesso all’eucaristia” introdotta da FC nel 1981, era stata pensata secondo la mens del codice allora vigente, quello del 1917, che definiva il matrimonio come “ius in corpus”. Ed era ovvio che, se allora il matrimonio consisteva ancora – almeno in diritto canonico – nel diritto che ogni coniuge acquisiva sul sesso dell’altro ai fini della procreazione, nel caso in cui si sospendessero gli atti sessuali, di fatto non c’era più alcun (nuovo) matrimonio, qualunque fosse lo “stato civile” dei soggetti! Ma già il codice del 1983 non stava più in quella logica, poiché non accettava più di definire il matrimonio senza riferirsi alla “comunità di vita e di amore” tra i coniugi che il Concilio Vaticano II aveva irreversibilmente introdotto nel linguaggio e nella esperienza ecclesiale. Questa meravigliosa complessità d’amore i nostri rigorosi testimoni si sono proprio dimenticati di confessarla! Forse qualcuno avrebbe dovuto suggerire, a questi bravi “araldi della fede”, un piccolo stratagemma: senza pretendere da loro la troppo ardua opera penitenziale di una attenta lettura di Amoris titia, avrebbero potuto almeno ripassarsi con cura il Codice del 1983, anche a costo di esporsi al grave rischio di aver a che fare con le famiglie reali, e non solo con i propri tristi fantasmi, frutto di un cattolicesimo sfigurato, inaridito, ridotto a formulette dottrinali e a diktat disciplinari.

Pubblicato il 8 aprile 2018 nel blog: Come se non.

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