Maria, la Glorificata

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Parlare di Maria è parlare del cristianesimo

È stato scritto che interrogarsi su Maria è interrogarsi sul cristianesimo, non nel senso che lei ne sia il centro, ma nel senso che vi è centrale. Guardando alla Vergine di Nazaret puntiamo lo sguardo sull’icona femminile del cristianesimo. Una domanda: guardando a questa Donna, si devia dagli interessi estremi dell’uomo? E se fosse l’icona di un cristianesimo debole e ingenuo?

Questo è un dubbio che debbono rimuovere anzitutto i cristiani. Per fugarlo aiuta un pensiero di Joseph Ratzinger, teologo, che alla crisi odierna della cristianità, alla quale da papa avrebbe dedicato analisi raffinatissime appassionate, si spinge a dire: «Potrebbe spettare alla devozione mariana operare il risveglio del cuore e la sua purificazione nella fede» (Maria Chiesa nascente, Cinisello B. – Milano 1998, p. 27).

La Glorificata ricorda che la storia non ci basta

Con la sua assunzione Maria anzitutto ci presenta il cristianesimo come religione del futuro assoluto, ma parla anche all’uomo contemporaneo che consuma la sua esistenza nel quotidiano e pone le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse debbano scaturire da lontano (assenza della tradizione) o debbano portare lontano (assenza dell’apertura al futuro ultimo).

D’altra parte, il presentismo non è il tempo buono per l’uomo del nostro “tempo debole”, né la storia, nel suo insieme, è adeguata risposta al radicalismo della tensione al futuro che è dentro il suo cuore: «L’istinto del cuore – afferma la Gaudium et spes – lo fa giudicare rettamente, quando aborrisce e respinge l’idea […] di un annientamento definitivo della sua persona» (n. 18). Perciò dice bene il filosofo Michele Federico Sciacca, quando afferma, con amabile ironia: «Io con la storia mi accendo la pipa» (Come si vince a Waterloo, Milano 19635, p. 12).

Purtroppo l’uomo contemporaneo sembra farsi bastare quanto entra nelle strette stive di una “nave” che solca un mare senza orizzonti lunghi. Al cristianesimo questo non basta: l’assunzione di Maria è quanto esso pensa sul destino ultimo dell’uomo: questi è chiamato a realizzarsi in pienezza e per sempre. È il senso della “Gloria”, parola che Hans Urs von Balthasar ha genialmente scelto per dire tutto il cristianesimo nella sua monumentale teologia.

La Glorificata invita alla speranza

è un fatto che molti uomini d’oggi – come denunciava Benedetto XVI – sono scivolati dentro l’anello nero e soffocante del nichilismo, che è filosofia debole, ma che ha certamente la forza di stringere al collo la «bambina speranza», di cui parlava Péguy, e di soffocarla. Dinanzi al labirinto nichilistico che smarrisce l’uomo di oggi disarcionandolo dalle “grandi narrazioni”, inchiodandolo al solo presente, convincendolo che gli possano bastare i futuri brevi, allevandolo soprattutto alla malsana idea di una vita senza “giudizio ultimo”, il cristianesimo, preoccupato, s’impegna ad aiutare l’uomo della post-modernità a uscirne per evitare che finisca nella fauci della tigre cinica.

La Glorificata è imitabile nella fatica dei giorni

Il cristianesimo, anche con l’ostensione dell’icona della Glorificata, dinanzi a un uomo che ama raccontarsi come un essere senza radici e senza promesse, invita a non aver paura del futuro, ma a riassumerlo con fiducia e serietà, a interrogarlo con radicale rigore.

In tal modo il cristianesimo pensa che si potranno smascherare:

la pretesa di un futuro senza passato e senza presente, che non spiegherebbe né da dove nasce né come si nutre la forza propulsiva della sua speranza e, inoltre, non spiegherebbe il perché della proiezione della vita verso un futuro che, a queste condizioni, sarebbe indeterminato e anonimo;

la pretesa di un passato senza presente e senza futuro, che reca con sé l’equivoco irrisolto di aver mitizzato un brano del tempo (il passato, appunto), mentre non rende conto di aver operato lo svuotamento valoriale nei confronti del presente dove si svolge la nostra vita e del futuro dove ci spinge la forza della speranza;

la pretesa di un futuro solo utopico, il cui troppo debole vettore di speranza non può che conficcarsi, con caduta assai infelice, nello stretto recinto dei cimiteri degli uomini;

la pretesa di un presente senza passato e senza futuro, la cui condizione di tempo incontaminato (perché senza legami con il passato compromesso e fallito e irretito solo nei futuri brevi), non giustifica il suo valore e non lascia intendere quanto possa durare.

Scelte sapienziali

Il cristianesimo come religione del futuro assoluto invita l’uomo di oggi malato di presentismo ad alcune scelte sapienziali di grande urgenza.

Liberarsi dal frammentarismo della storia. La modernità ha concepito la storia come un cammino regolato da un codice necessario e inesorabile. A questo logicismo finalistico è seguita, per reazione, una sua dolorosa frammentazione che finisce per trasformarsi in una serie puntiforme di flashes, privi di qualsiasi vero filo conduttore. Il Magnificat, il canto della Figlia di Sion, invita a rileggere la storia sulla filigrana di disegni di Provvidenza.

– Vincere la paura del futuro. Dopo l’entusiasmo utopico, s’insinua nella psicologia della cultura occidentale il sospetto sulla tenuta del principio speranza e sulla credibilità delle sue promesse. Il cristianesimo affida all’icona della Glorificata l’esemplificazione più forte della sua fiducia giustificata verso il futuro.

Non affidare il tema del futuro umano al “computer”. Si pone oggi il problema di una nuova memoria, quella del computer, che può essere trasmessa al futuro in misura assai ricca e in un modo sorprendentemente ampio e preciso: al futuro, prossimo e remoto, ci si può disporre con maggiore affidabilità e avvedutezza, ma resta del tutto intatta la domanda sul futuro ultimo, che, da un certo punto di vista, è di natura completamente diversa: nell’esperienza dei “futuri brevi” tutto consiste nell’andare verso il futuro, mentre per la fede cristiana il futuro di Dio è misteriosamente anticipato ed è possibile viverlo nella contemporaneità con i nostri giorni.

Abbandonare il cinismo di una vita senza “giudizio finale”. L’uomo post-moderno che vive senza la speranza in un futuro ultimo e nel convincimento conseguente di non dover rendere conto a nessuno la sera della sua vita, cade nelle fauci della tigre cinica. Oggi, negli orientamenti culturali, nelle scelte politiche, negli stili di vita delle società occidentali, diviene sempre più palese la “crisi” dei valori e delle fedi moderne per l’offuscarsi dell’orizzonte di senso: è la nascita di un cinico mondo senza speranze, senza futuro e sembra portare in sé i germi della sua stessa fine.

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