Maria, l’«amen» della gloria

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Il rapporto di Maria con la Trinità è continuo; ogni aspetto della sua esistenza appartiene a quel mistero: l’ideazione della sua singolare vocazione, la sua concezione immacolata, la sua perpetua condizione verginale, la sua divina maternità, la sua compagnia materna data al Figlio in ogni passaggio della sua missione messianica, la sua maternità ecclesiale.

È certamente vero che nessuna creatura ha avuto né avrà tanta relazione con la Trinità: Padre, Figlio e Spirito. Ciascuna delle tre divine Persone ha posto sull’esistenza di Maria, in modo proprio, l’impronta della sua somiglianza.

Il Padre ha chiamato Maria alla gloria

Il Padre, come è all’origine di tutta l’opera salvifica, è anche all’inizio dell’avventura di grazia vissuta da Maria come madre messianica: la grazia di Maria viene dal Padre e porta al Padre, che la glorifica chiamandola vicino Figlio che siede alla sua destra. Maria è stata assunta: non si è autoelevata in cielo; non è ascesa al cielo per forza propria. Occorre perciò indicare il soggetto attivo dell’Assunzione, se vogliamo comprendere e spiegare, nella fede, l’ultimo privilegio mariano. Quel soggetto attivo è il Padre. È lui che ha chiamato e portato in cielo la Madre del Figlio.

La glorificazione di Maria con l’assunzione al cielo è tema immediatamente mariano, ma fondamentalmente è tema teologico, nel senso che è una delle iniziative del Padre su Maria. La Vergine riceve la grazia dell’Assunzione, come aveva ricevuto quelle dell’Immacolata Concezione, dell’Annunciazione, della Maternità divina…

L’Assunzione, iniziativa del Padre, conferma in modo plastico che nel cristianesimo non esiste l’autoredenzione e, perciò, neppure l’autoglorificazione. Maria non si è autoredenta (è il senso dell’Immacolata Concezione); perciò non si è neppure autoglorificata (è il senso dell’Assunzione).

L’uomo di oggi di fronte all’icona della Glorificata

L’uomo contemporaneo consuma la sua esistenza nel quotidiano; egli pone ormai le sue scelte nella breve terra dell’oggi, senza pretendere che esse debbano venire da lontano (assenza della tradizione) o debbano portare lontano (assenza dell’apertura al futuro). All’uomo dei nostri giorni sembra bastare quanto entra nelle strette stive di una «nave» che solca un mare senza orizzonti lunghi.

Il cristianesimo non s’arrende al nichilismo, ma è fiducioso di scuoterlo con la sua profezia escatologica. Dinanzi al labirinto nichilistico che smarrisce l’uomo di oggi o orientandolo al passato per la paura sul futuro, o inchiodandolo al solo presente, o convincendolo che gli bastano futuri brevi, o allevandolo al cinismo di una vita senza «giudizio ultimo», il cristianesimo vuole aiutare l’uomo contemporaneo ad uscirne.

Il cristianesimo, anche con l’ostensione dell’icona della Glorificata, dinanzi a un uomo che ama raccontarsi come un essere senza radici e senza promesse, invita a non aver paura del futuro, ma a riassumerlo con fiducia e serietà, a interrogarlo con radicale rigore.

La riproposizione, da parte del cristianesimo, del futuro ultimo (nel cui mistero è inserita la glorificazione di Maria) vuol far sentire la sua stimolazione, critica e incoraggiante, al nostro tempo debole che pretende di farsi bastare il solo presente, tempo troppo corto per il desiderio che anche gli uomini di oggi hanno: aspirare all’Oltre e all’Altrove.

L’Assunzione sfida alla gioia un’epoca segnata dalla tristezza

C’è una vena di tristezza che connota la nostra ora storica, ed è così profonda da non poter essere nascosta dal frastuono del suo vitalismo. L’epoca contemporanea, nonostante tutto, è un’epoca triste. La sua è una tristezza che ne segna vistosamente il volto fino a contraddistinguerla. La nostra epoca, fra l’altro, sarà ricordata come un’epoca che ha conosciuto la tentazione della disperazione.

C’è stato nell’Occidente del Novecento, il terribile secolo da non molto spirato, una venatura amara nella vita privata, nella vita sociale e politica, e perfino nella cultura: Baudelaire, Mallarmé, Camus, Gide, Bernanos, Pavese, Tomasi di Lampedusa sono solo alcuni nomi di quel filone nerastro della sua letteratura che tinge di tristezza il frontespizio del tempio della cultura contemporanea. Senza dire delle correnti malinconiche, tristi, disperanti della filosofia contemporanea, che in tanta parte è filosofia nichilista o comunque della crisi della ragione e dei comuni valori.

Tristissimo, poi, è lo scenario se guardiamo all’ambito socio-politico su scala planetaria: sono vistosi i segni di tristezza causati dalla fame e dalla guerra sul volto dei popoli, specie su quello dei cosiddetti «popoli ultimi» e dal terrorismo che rattrista e getta nel panico tutti con i suoi progetti di violenza e di morte.

C’è oggi una «difficoltà a dir di sì», affermava anni fa J.B. Metz. Si constata una marcata indisponibilità alla gioia, e ciò nonostante le ostentazioni vitalistiche del nostro tempo, e nonostante le grandi vittorie che l’uomo d’oggi indubbiamente si è date in campo scientifico e tecnologico. Paradossalmente, tanta parte della tristezza patita dall’uomo contemporaneo dipende proprio da quelle presunte e improprie «vittorie»: basti il solo cenno al guasto ecologico per intenderci.

La Chiesa osserva ed è preoccupata. Essa sa che nel lungo elenco dei «prodotti» dell’Homo faber d’oggi non si trova la gioia. Si constata, fra l’altro, una tacita confessione di debolezza e d’impotenza da parte di una civiltà che pure mostra di poter tanto; basti pensare all’incapacità della nostra civiltà a fronteggiare serenamente la morte, intorno a cui non sa fare altro che organizzare una specie di congiura del silenzio. Scriveva Paolo VI quasi quarant’anni fa: «La società tecnologica ha potuto moltiplicare le occasioni di piacere, ma essa difficilmente riesce a procurare la gioia. Perché la gioia viene d’altronde. È spirituale» (esortazione apostolica Gaudete in Domino [9.5.1975]).

Ora, di fronte a questa profonda e vasta tristezza che permea dei suoi neri umori un’intera epoca, la Chiesa sente di dover reagire: presenta, anzitutto dinanzi ai suoi occhi (cf. Lumen gentium, n. 68), ma anche in faccia al mondo, un segno di speranza, ed è Maria Assunta: «La solennità del 15 agosto celebra la gloriosa Assunzione di Maria al cielo: è, questa, la festa del suo destino di pienezza e di beatitudine, della glorificazione della sua anima immacolata e del suo corpo verginale, della sua perfetta configurazione a Cristo risorto; una festa che propone alla Chiesa e all’umanità l’immagine e il consolante documento dell’avverarsi della speranza finale: ché tale piena glorificazione è il destino di quanti Cristo ha fatto fratelli» (Paolo VI, esortazione apostolica Marialis cultus, n. 6).

Con Maria l’«amen» della gloria

Il popolo messianico sarà glorificato con la gloria del Messia e canterà amen a Dio che l’ha creato, salvato e glorificato.

L’amen innalzato dalla Chiesa nel Cielo trinitario è il frutto dell’amen trinitario pronunciato da Dio nella storia della salvezza; evoca pertanto il detto dal Padre in Gesù (cf. 2Cor 1,19-20), il detto dal Figlio al Padre (cf. Mt 11,26; 2Cor 1,19-21), il detto dallo Spirito alla chiesa (cf. Ap 14,13).

La storia della Chiesa, così, nata dal cuore del Padre, finisce nel cuore del Padre; nata dall’amen creatore del Padre, finisce con l’amen della gratitudine e della lode al «Padre della gloria» (Col 1,17).

L’amen escatologico è anche un amen mariano: non solo perché lo grida anch’essa con la Chiesa, ma anche perché, insieme agli amen messianici di Cristo, il suo amen dell’annunciazione, espanso fin sotto la croce del Figlio, ha contribuito a renderlo possibile.

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