Sinodalità fraintesa

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Quando si parla della sinodalità nelle comunità cristiane, non di rado si corre il rischio di essere fraintesi. Chi è meno addentro alle questioni teologiche, infatti, è portato istintivamente ad intenderla come una riedizione ecclesiale dei modelli democratici di governo su cui si basano i moderni stati occidentali, quelli che prevedono che le decisioni che riguardano il bene comune siano oggetto di un dibattito pubblico paritario tra i cittadini, e che poi siano prese da figure istituzionali legittimamente elette come loro rappresentanti.

In tale ottica, lo stile sinodale dovrebbe comportare anche nella Chiesa una sorta di consultazione paritaria dei fedeli, volta a cogliere le loro convinzioni sulla fede, sull’etica cristiana e sulle scelte pastorali, per poi affidare a figure di specialisti il compito di fare sintesi di quanto emerso e di proporlo come posizione ufficiale e normativa.

Dietro a quest’aspettativa si cela una visione costruzionista della dottrina della fede, cioè la persuasione che questa non sia un dono ricevuto, ma il frutto della libera stipulazione dei credenti che, in modo consensuale e dialogico, si mettono d’accordo su quello che si deve credere e praticare in quanto cristiani.

Come va pensata la sinodalità

Tale pericoloso fraintendimento della nozione di sinodalità è scongiurato da questo importante passaggio del documento della Commissione teologica internazionale La sinodalità nella vita e nella missione della Chiesa: «La dimensione sinodale della Chiesa implica la comunione nella Tradizione viva della fede delle diverse Chiese locali tra loro e con la Chiesa di Roma, sia in senso diacronico – antiquitas – sia in senso sincronico – universitas –. La trasmissione e la ricezione dei Simboli della fede e delle decisioni dei Sinodi locali, provinciali e, in modo specifico e universale, dei Concili ecumenici, ha espresso e garantito in modo normativo la comunione nella fede professata dalla Chiesa ovunque, sempre e da tutti (quod ubique, quod semper, quod ab omnibus creditum est)» (n. 52).

Il senso di queste parole, sebbene un po’ complesse, è molto semplice: esse affermano che la Chiesa che vive oggi non può inventare la fede che professa, ma è chiamata a riceverla dalle generazioni cristiane passate, che l’hanno trasmessa nella forma della Tradizione. Questa, che ha le sue origini nell’esperienza credente della comunità apostolica, è attestata in modo normativo nella Scrittura e in forme più o meno autorevoli dai documenti del magistero, ma è ben più ampia di ogni sua testimonianza scritta: rappresenta infatti la completezza di ciò che la Chiesa ha creduto e vissuto fino ai giorni nostri.

È vero, dunque – come sottolineato frequentemente da Benedetto XVI anche negli anni del suo insegnamento teologico –, che il cristianesimo non è un percorso individuale nel quale ci si costruisce la propria visione di Dio, di Gesù, della Chiesa, del mondo e di sé stessi, ma è l’ingresso in una realtà ecclesiale che ci precede – il corpo di Cristo –, e la cui appartenenza consiste essenzialmente nel fare propria la sua fede.

Insomma, non si diventa cristiani semplicemente grazie ad un percorso intellettuale in cui si scopre che la visione di Dio che si ritiene ragionevole è relativamente simile a quella cattolica, ma in quanto ci si arrende all’annuncio evangelico attestato dalla comunità ecclesiale, poiché se ne intuisce la bontà e la bellezza, e si sceglie di farne parte.

Dimensione sinodale e Tradizione

Nello stesso tempo, però, il citato passaggio del documento della Commissione teologica internazionale non vede alcuna contraddizione tra una fede ricevuta nella forma della Tradizione e la dimensione sinodale della Chiesa, al punto che ritiene che la prima sia implicata nella seconda. In effetti, le caratteristiche dell’esperienza cristiana che ci è stata trasmessa dalle generazioni passate non sono riducibili ad una serie di affermazioni dottrinali note e definitive. Esse parlano del mistero del Dio trinitario e della relazione che ha voluto costruire con l’umanità, cosa che nessuna formulazione potrà mai cogliere in modo definitivo e conclusivo. Così la Tradizione cresce (cf. DV 8), nel senso che la Chiesa, attraverso la riflessione e la prassi evangelica di tutti i suoi membri, comprende in modo sempre più pieno ciò che Dio ci ha donato in Cristo, e non di rado esprime quest’accresciuta consapevolezza in termini nuovi.

Dunque, la sinodalità non serve alla Chiesa per reinventare l’esperienza cristiana in base alle idee, ai bisogni e alle esigenze dei credenti, ma per comprendere sempre più profondamente quella Tradizione che le è trasmessa dalle generazioni passate di credenti. Insomma, la dinamica sinodale è il modo con cui la comunità cristiana si mette in ascolto di quel Dio che non cessa di interagire con la sua Chiesa e di farla progredire nella comprensione della sua verità.

Questo significa che nella vita ecclesiale il tema della sinodalità dovrebbe essere declinato sempre con una certa cautela, e soprattutto nel quadro di una chiara comprensione dell’identità della Chiesa e della sua radicale dipendenza dalla parola di Dio. In altre parole, la sinodalità non può rappresentare il punto di partenza della vita di una comunità, anche se la sua prossimità con le istanze democratiche del nostro tempo e la conseguente simpatia che questo tema trova in ampie porzioni del popolo di Dio potrebbero spingere in tale direzione. In realtà, solo una comunità che ha già interiorizzato la necessità di ricomprendere continuamente la sua fede nell’ascolto della Tradizione della fede, attestata anzitutto nella Scrittura, può cogliere il senso profondo dello stile sinodale e praticarlo in modo fecondo.

Ciò non toglie che le modalità e le strategie adottate nei processi democratici civili non possano ispirare pratiche virtuose e funzionali anche in ambito ecclesiale, al punto da rendere più agevole ed effettivo l’ascolto di quanto emerge dal senso di fede di tutti i credenti. L’importante è che tali influenze non finiscano per determinare una visione costruzionista della fede, in cui ci si illude di reinventarla semplicemente a partire dai tratti della cultura imperante e dai bisogni delle persone del nostro tempo, ma si custodisca la finalità propriamente teologica della sinodalità.

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