Umanizzare il morire

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A partire dalla Dichiarazione congiunta delle religioni monoteiste abramitiche, firmata il 28 ottobre 2019, l’autore dell’articolo don Domenico Morrone, docente di teologia morale, sviluppa, con lineare chiarezza, alcune preziose considerazione sull’etica di fine-vita e un’analisi dei risvolti operativi.

Le mutate condizioni in cui oggi si muore sono in gran parte riconducibili alle aumentate potenzialità tecniche della medicina. Ci siamo accorti, finalmente, di quanto si muoia male nella nostra società. Per tanti motivi: non ultimo quello culturale, vale a dire la rimozione della morte come momento inevitabile e necessario della vicenda umana. Ma si muore male anche a causa della medicina stessa. Non per colpa delle sue insufficienze, bensì – paradossalmente – a causa della sua efficacia.

Oggi si muore male

Trattamenti come la ventilazione meccanica, la rianimazione cardio-polmonare, la dialisi e i trapianti, l’alimentazione artificiale, la terapia antalgica e la sedazione profonda possono controllare il processo del morire, rendendo la medicina sempre più responsabile non solo del modo, ma anche del momento in cui si muore.

Il rischio che si paventa è quello di rimanere ostaggi di trattamenti intensivi a oltranza e di venire “espropriati” della propria morte. Questi timori contengono in realtà una pressante richiesta: la richiesta agli operatori sanitari di garantire cure efficaci e proporzionate insieme con il diritto del malato terminale di essere rispettato come persona.

Ciò che oggi fa problema è il morire, il processo che conduce una persona alla morte, più ancora che la morte stessa. Oggi l’ideale della “bella morte” riveste la forma della morte repentina, improvvisa e incosciente, di cui “non ci si rende nemmeno conto”, in cui non solo non si soffre fisicamente, ma non si patisce nemmeno la fatica del pensare, dell’anticipare la propria morte, del veder arrivare la propria fine, e non si soffre il movimento del morire. La “bella morte” è oggi una morte senza il morire. Ed è sul morire che si scatenano le battaglie ideologiche tra chi, in nome di un radicalismo individualista, invoca il diritto di morire come, quando e dove si vuole, e chi difende la vita in maniera oltranzista, senza se e senza ma, sempre e in ogni caso.

In particolare, oggi si assiste al delinearsi di due atteggiamenti culturali nei confronti del morire che si possono riassumere in due modelli in tensione tra di loro. Un modello di controllo e un modello di cura. Potremmo anche parlare di un modello di dominio e di un modello di responsabilità.

Il fatto nuovo è che oggi si muore male. Oggi moriamo in braccio alla medicina. Le decisioni mediche determinano il tempo e il modo del morire.

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Prospettiva sapienziale 

Un simile contesto, e un siffatto problema, pone in questione anche i comportamenti dei cristiani. È necessario porre in essere dei comportamenti sapienziali quali assumersi la responsabilità di una “certa” gestione del morire e non abdicare alla libertà e alla coscienza e alla volontà di una morte il più possibile degna e umana.

La prospettiva sapienziale prende le distanze da un umanesimo di dominio che ritiene che i limiti debbano essere sistematicamente superati dalla tentazione di rendere la vita, nel suo aspetto puramente biologico, un feticcio.

È necessario un umanesimo che metta alla scuola dei limiti ritenendoli costitutivi della condizione umana ed essenziali per fondare un’antropologia corretta.

Ritengo che questa visione di umanesimo emerga dalla Dichiarazione congiunta delle religioni monoteistiche abramitiche del 28 ottobre 2019.

Criteri etici generali

Dalla succitata Dichiarazione emergono quattro criteri etici fondamentali che, nel corso di questo articolo, cercherò di dettagliare nei loro risvolti operativi.

  • «Gli interventi sanitari tramite trattamenti medici e tecnologici sono giustificati solo nei termini del possibile aiuto che essi possono apportare. Per questo il loro impiego richiede una responsabile valutazione per verificare se i trattamenti a sostegno o prolungamento della vita effettivamente raggiungono l’obiettivo e quando invece hanno raggiunto i loro limiti».
  • «Quando la morte è imminente malgrado i mezzi usati, è giustificato prendere la decisione di rifiutare alcuni trattamenti medici che altro non farebbero se non prolungare una vita precaria, gravosa, sofferente».
  • «Tuttavia, anche quando il persistere nel cercare di scongiurare la morte sembra irragionevolmente difficile e oneroso, dobbiamo comunque fare quanto possibile per offrire sollievo, alleviare efficacemente il dolore, dare compagnia e assistenza emotiva e spirituale al paziente e alla sua famiglia in preparazione alla morte».
  • «Il personale sanitario e in generale la società dovrebbero avere rispetto dell’autentico e indipendente desiderio di un paziente morente che voglia prolungare e preservare la propria vita anche se per un breve periodo di tempo, utilizzando misure mediche clinicamente appropriate. Ciò implica la continuazione del supporto respiratorio, nutrizione e idratazione artificiali, chemioterapia o radioterapia, somministrazione di antibiotici, farmaci per la pressione e altri rimedi».

Alla luce di questi criteri mi soffermo ad esplicitare dei criteri operativi che possano concorrere a rendere più umano e più dignitoso l’atto del morire. È importante notare che la Dichiarazione esprime una sapienza etica maturata lungo millenni di storia di oltre la metà del genere umano dal punto di vista quantitativo. Qualitativamente è segnata da un linguaggio piano, lineare, essenziale, scevro da ogni perentorietà ma pur sempre incisivo nella forma e nei contenuti. Può costituire una pregevole piattaforma di dialogo con i non credenti per superare ogni deriva ideologica e oltranzista su tematiche che esigono un approccio condiviso e maturo.

Per un’etica dell’accompagnamento a morire con dignità: le cure palliative

Nel contesto culturale sopra delineato possono nascere problemi drammatici come quelli dell’accanimento terapeutico e dell’eutanasia.

L’alternativa è l’accompagnamento, una strategia che è, al contempo, assistenziale ed etica.

La pratica dell’accompagnamento riconosce al malato terminale la dignità di persona e ne valorizza la dimensione relazionale. È su questi presupposti di natura antropologica che si fondano le strategie terapeutiche dell’accompagnamento; strategie centrate più sul prendersi cura che sul curare e orientate a mantenere il rapporto di aiuto nella logica dell’ascolto e del camminare accanto.

Se morire con dignità è il desiderio legittimo di ogni persona che si trova nella fase finale della vita, l’etica dell’accompagnamento può rappresentare una valida risposta alla richiesta di una morte umanamente degna e costituire una reale alternativa sia all’accanimento terapeutico sia all’eutanasia.

L’azione della cura deve riguardare tutta la persona e curare significa sollevare dalla sofferenza, anche quando non si può guarire. La medicina non deve dimenticare questa dimensione di accompagnamento propriamente umano, interessandosi solo alla guarigione corporale e non anche alla guarigione psichica.

Nella pratica della cura bisogna imparare cosa significa “persona intera”. La cura globale della persona contribuisce a un “morire meglio che si può”.

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Illuminante la prospettiva adottata al proposito dal Codice di deontologia medica, il cui art. 39 afferma che «in caso di malattie a prognosi sicuramente infausta o pervenute alla fase terminale, il medico deve improntare la sua opera ad atti e comportamenti idonei a risparmiare inutili sofferenze psico-fisiche e fornendo al malato i trattamenti appropriati a tutela, per quanto possibile, della qualità di vita e della dignità della persona. In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile, evitando ogni forma di accanimento terapeutico».

In questa prospettiva le cure palliative (Legge n. 38 del 15.03.2010) soddisfano proprio una tale esigenza, dal momento che si tratta di interventi che non hanno lo scopo né di affrettare né posporre la morte, ma di migliorare la qualità della vita dei pazienti e dunque di influenzare positivamente il decorso della malattia, attraverso il sollievo del dolore e degli altri sintomi, l’integrazione degli aspetti psicologici e spirituali nell’assistenza, il supporto della famiglia anche di fronte al lutto.

Il concetto di proporzionalità terapeutica 

Il fatto che esistano alcuni trattamenti che possono prolungare la vita di un paziente per un certo periodo di tempo, non è di per sé un motivo sufficiente per applicare quel trattamento. In questo senso, un imperativo tecnologico non è un imperativo morale. Ciò che deve guidare la messa in atto dei trattamenti medici è il principio terapeutico che ne giustifichi l’impiego.

Un tema chiave che si pone, dunque, in modo trasversale a tutte le questioni etiche di fine vita è quello della proporzionalità dei trattamenti, concetto questo fondamentale per esprimere un giudizio di eticità in merito alle varie decisioni da intraprendere di fronte al paziente.

Sin dal XVI secolo la tradizione morale cattolica ha affrontato la questione di discernere i limiti dell’uso delle tecnologie mediche per preservare la vita. Elemento centrale della riflessione è stata la distinzione tra mezzi ordinari e mezzi straordinari, al fine di discernere, da parte dei medici, dei pazienti e delle istituzioni sanitarie, quali dovessero essere le obbligazioni a conservare la vita.

Possiamo definire mezzi straordinari quelli che potrebbero costituire un’impossibilità morale (ad impossibilia nemo tenetur) per gli esseri umani in generale (norma assoluta) o per una particolare persona (norma relativa). Gli studiosi di etica hanno usato da tempo una varietà di frasi per descrivere tale impossibilità, tuttavia esse si possono raggruppare in cinque capisaldi.

  1. Straordinari sono mezzi che presentano una certa difficoltà se non impossibilità (quaedam impossibilitas) ad essere applicati, sia in senso morale sia in senso fisico. Tale valutazione, naturalmente, non va fatta matematicamente ma secondo il ragionevole giudizio di una prudente e coscienziosa persona;
  2. si tratta di mezzi che richiedono uno sforzo eccessivo e/o che sono di difficoltosa applicazione (summus labor et media nimis dura): nessuno può essere obbligato a fare un lungo “viaggio della speranza” per poter ricevere un trattamento sperimentale né tantomeno a sottoporsi ad un intervento chirurgico molto rischioso;
  3. la grave sofferenza o l’insopportabile dolore causati dall’intervento (quidam cruciatus et ingens dolor) sono decisivi per valutare la straordinarietà, una volta che sia impossibile poter controllare opportunamente questi effetti collaterali determinati dall’intervento;
  4. anche il terrore o la ripugnanza del paziente per certi trattamenti (vehemens horror), per quanto possano essere giudicati irrazionali e ingiustificati da altri, potrebbe rappresentare un elemento di straordinarietà, anche se il medico dovrebbe fare tutto il possibile per far superare le ragioni di un tale orientamento del paziente;
  5. infine, entra pure nella valutazione della straordinarietà dei mezzi il loro costo economico (sumptus extraordinarius, media pretiosa et media exquisitat), in particolare quando il carico è sul paziente, e in questo senso la valutazione va fatta secondo lo stato economico di questi e della sua famiglia. L’argomento va considerato nell’ambito più generale dei sistemi sanitari e dunque varia da stato a stato, tuttavia si può affermare che, dal punto di vista etico, la situazione economica del singolo paziente non dovrebbe mai costituire un elemento decisivo per poter ottenere o meno un intervento sanitario che sia necessario, di provata efficacia, per la sua vita o salute.

Anche per definire l’ordinarietà dei mezzi terapeutici la tradizione morale ha definito degli elementi indicativi, distinguendo l’ordinarietà in senso morale dall’ordinarietà delle procedure mediche, nel senso che una comune (ordinaria) procedura medica potrebbe non di meno essere straordinaria per un determinato paziente.

  1. C’è da considerare, innanzitutto, la prospettiva di un beneficio per la vita e/o la salute (spes salutis) che l’intervento deve offrire per essere considerato come ordinario e dunque obbligatorio (per il medico e per il paziente).
  2. Un altro elemento frequentemente menzionato è l’ordinarietà dei mezzi utilizzati (media communia), anche se questa determinazione va contestualizzata a tutte le circostanze relative al caso concreto.
  3. Anche la difficoltà che i mezzi presentano (media non difficilia) costituisce criterio di giudizio. Si tratta di una difficoltà in senso generale che coinvolge diversi elementi come il dolore provocato e incontrollabile, il pericolo per la vita che è connesso ecc.
  4. Inoltre, viene rilevato come la posizione sociale o un particolare stato del paziente possano costituire un elemento di valutazione dell’ordinarietà dei mezzi (secundum proportionem status). Si tratta di un criterio che può essere discutibile in quanto, sul piano oggettivo del dovere di conservare la vita, sovrastrutture come lo stato sociale o la particolare condizione di una persona non possono mai costituire da sole un elemento di tale valore da richiedere una deroga al dovere di cui sopra.
  5. In generale, mezzi ordinari sono quelli che possono essere impiegati convenientemente e ragionevolmente e che implicano solo una moderata difficoltà (media facilia).

Tutti gli elementi che abbiamo precedentemente indicato, a sintesi di quanto la tradizione morale ha considerato in tema di mezzi ordinari e straordinari, devono essere valutati, nella singola situazione concreta.

Considerando l’ulteriore elemento delle condizioni “oggettive” del malato e della proporzionalità “oggettiva” dei trattamenti la Congregazione per la dottrina della fede nella Dichiarazione sull’eutanasia (5.5.1980) (parte IV) arriva a formulare le seguenti indicazioni:

    1. in mancanza di altri rimedi è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se ancora allo stadio sperimentale e non esenti da qualche rischio;
    2. è anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi. Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tenere conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti;
    3. è sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire. Non si può quindi imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto sia già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso;
    4. nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi.

Dunque, l’inizio e/o l’interruzione delle misure di sostegno di base o avanzate delle funzioni vitali deve essere deciso sempre in base al principio di proporzionalità terapeutica “attuale”, che cioè consideri lo status clinico presente del malato e quello comunemente pronosticabile.

Se, ad esempio, si valutasse che un atto medico – in un determinato momento – sia proporzionato e, per il sopraggiungere di circostanze imprevedibili a priori, questo atto risultasse poi sproporzionato, si dovrebbe lecitamente poter interrompere il trattamento proprio sulla base del principio di proporzionalità terapeutica che, configurabile in un primo momento, possa successivamente non essere più tale. Sono gli elementi di giudizio che possono mutare, permanendo costante il criterio di fondo.

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Lo stesso ragionamento vale anche per la terapia delle complicanze che possano subentrare al trattamento di base che si è deciso di iniziare. La decisione di un trattamento non può, infatti, essere unicamente subordinata alle possibili (o probabili) difficoltà che si potrebbero incontrare come conseguenza dell’atto stesso: laddove si verificheranno, queste verranno valutate sul piano della proporzionalità terapeutica ed eventualmente, se risultassero conferire sproporzione all’intervento stesso, questo potrà, per quello che si è detto, essere lecitamente interrotto.

In linea con quanto detto è anche il magistero della Chiesa che insegna che ognuno è tenuto a conservarsi in salute fruendo dei mezzi proporzionati. Giovanni Paolo II nell’enciclica Evangelium vitae afferma che «si dà certamente l’obbligo morale di curarsi e di farsi curare, ma tale obbligo deve misurarsi con le situazioni concrete; occorre cioè valutare se i mezzi terapeutici a disposizione siano oggettivamente proporzionati rispetto alle prospettive di miglioramento. La rinuncia a mezzi straordinari o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte» (EV 65).

La Congregazione per la dottrina della fede nella Dichiarazione sull’eutanasia (5.5.1980) al par. IV fornisce alcuni criteri pratici:

  • «È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire». Anzi l’uso dei mezzi normali o proporzionati è doveroso.
  • «È lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi quando i risultati deludono le speranze riposte in essi». È infatti sempre valido l’assioma «nemo ad inutile tenetur» (nessuno è tenuto a ciò che è inutile).
  • «Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi».
  • Ciò significa che non vi è il dovere di usare quei mezzi che prolungherebbero la vita così brevemente da poter essere considerati moralmente come un nulla.
  • Qui si può applicare il principio «parum pro nihilo reputatur» (il poco è come il niente).
  • «Non si può imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere a un tipo di cura, per quanto già in uso, che tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio. Significa piuttosto semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa all’opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, o volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia e alla collettività».
Il concetto di futilità dei trattamenti

Più recentemente, nella letteratura medica ed etica si è cominciato a introdurre esplicitamente il concetto di “futilità” come elemento per dare un giudizio sulla ordinarietà/straordinarietà degli interventi medici e dunque sulla doverosità morale di attuare o no tali interventi. Per la verità, la futilità è un concetto clinico molto antico (Platone, Ippocrate).

Dal punto di vista clinico vi sono diversi modi di considerare la futilità.

Secondo alcuni un trattamento è chiaramente futile

  • innanzitutto quando fallisce sotto l’aspetto strettamente fisiologico: una dialisi che non è in grado di purificare più il sangue, un vasopressorio che non fa risalire più la pressione, una cardioversione o un antiaritmico che non sono in grado di arrestare la fibrillazione cardiaca sono interventi futili in quanto inefficaci.
  • Ma un trattamento può essere considerato futile anche quando, sebbene funzioni in senso fisiologico diretto o localmente, esso non fa altro che posporre la morte di pochi minuti: la cardioversione fa ripartire il cuore ma questo si ferma subito dopo e così ogni volta che si defibrilla; la dialisi è in grado di purificare il sangue ma nel paziente moribondo a causa di un arresto cardiaco essa non è in grado di posporre la morte dovuta ad altra causa. Entrambi questi criteri sono di natura strettamente medica e non si richiede alcun consenso informato al paziente o alla famiglia: la decisione di inutilità dell’intervento è presa dal medico esperto.

Altri nel considerare il concetto di futilità propongono una combinazione dei due diversi aspetti, oggettivo e soggettivo, che effettivamente non sono facilmente quantizzabili, utilizzando il concetto di futilità come una guida prudenziale per bilanciare tre criteri:

  • il criterio di efficacia, nel senso di capacità di modificare positivamente la storia naturale della malattia o i sintomi;
  • il criterio del beneficio globale, nel senso di ciò che il paziente/tutore percepisce come bene per il paziente stesso;
  • il criterio del gravame, nel senso di costi fisici, emotivi, finanziari o sociali che derivano al paziente (e in alcune circostanze anche al medico e alla società) dal trattamento.
Come possono essere qualificate l’alimentazione e l’idratazione artificiale? 

Da una parte, vi è chi sostiene che nutrizione e idratazione in quanto «sostegni vitali» devono essere comunque sempre somministrate; dall’altra, chi, insistendo sulla modalità con cui la somministrazione avviene, ritiene che nutrizione e idratazione possono essere incluse nell’attività di “cura”, e debbano pertanto essere in molti casi sospese.

Questa contrapposizione, soprattutto se radicalizzata, risulta, per molti aspetti, artificiosa. È difficile negare che nutrizione e idratazione siano, in senso antropologico, «sostegno vitale»; ma è altrettanto difficile misconoscere che, in alcune circostanze, siano a tutti gli effetti, per il modo con cui la somministrazione si realizza (intervento chirurgico e preparazione di sostanze chimiche) «atto medico» (e dunque curativo anche se non direttamente terapeutico).

Per affrontare correttamente il problema, bisogna collocarlo in quell’area di questioni di frontiera. Questo implica che si debba di volta involta decidere, tenendo conto della concretezza delle situazioni, con la consapevolezza che lo stesso intervento può, in taluni casi, se evitato, risultare omissione di soccorso; in altri casi, se effettuato, può invece comportare accanimento terapeutico.

In questa ottica, nutrizione e idratazione devono essere valutate caso per caso, con attenzione alla situazione complessiva del paziente.

La Congregazione per la dottrina della fede ha affrontato il problema nella sua risposta del 1° agosto 2007 a due domande poste dalla Conferenza episcopale americana. La Congregazione definisce la somministrazione di cibo e acqua «in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita» e sottolinea che l’alimentazione artificiale deve essere prolungata nella misura in cui e «fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». In tal modo si evitano le sofferenze e la morte dovute all’inanizione e alla disidratazione. Finché raggiunga in maniera dimostrabile la sua finalità propria, vale a dire l’approvvigionamento del paziente con acqua e cibo». L’interruzione dell’alimentazione artificiale è giustificata solo laddove «cibo e acqua non vengano più assimilati dal corpo del paziente oppure non gli possano essere somministrati senza causare un rilevante disagio fisico».

La questione della sedazione del malato in fase terminale

In relazione all’interrogativo che spesso si pongono gli operatori sanitari sul significato della sedazione del malato terminale nell’ambito delle cure palliative, ritengo che si possano formulare le seguenti indicazioni.

La sedazione palliativa è un atto di cura che consiste nel diminuire o togliere la coscienza ad un malato, con il suo consenso, quando la sofferenza non può più essere controllata dalle migliori cure disponibili.

Può essere temporanea o continuativa, parziale oppure completa, cioè profonda. La prima si effettua quando, ad esempio, in un momento della giornata un sintomo della malattia del paziente è molto intenso e i farmaci non riescono a controllarlo, in questo caso si domanda al malato se vuole dormire, almeno la notte o qualche ora durante il giorno. Talora al risveglio il sintomo può essere più tollerabile. Se invece il sintomo è veramente refrattario, è opportuno iniziare una sedazione permanente in cui la coscienza viene tolta in maniera continuativa fino al decesso naturale.

La sedazione profonda si applica quasi sempre nelle ultime ore di vita, in presenza di un sintomo refrattario grave che genera una sofferenza intollerabile a giudizio della persona che muore. I sintomi sono intollerabili quando il paziente non ne porta più il peso nonostante tutti i migliori tentativi terapeutici di alleviarli.

Ci sono linee guida pubblicate dalla Società Italiana di Cure Palliative. Dicono che è necessario informare e raccogliere il consenso del paziente. La sedazione profonda è necessaria solo quando esiste un sintomo intollerabile che non risponde nemmeno alle migliori terapie sintomatiche. Diversamente non è possibile effettuarla, anzi è eticamente sbagliato perché la coscienza è un bene indispensabile della persona, anche alla fine della vita, un momento in cui molte persone hanno paura di morire e desiderano poter mantenere un contatto con la vita che resta e con i propri cari.

Pio XII disse che era lecito sopprimere i dolori con l’uso dei narcotici «se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali», riferendosi «unicamente» alla volontà di «evitare al paziente dolori insopportabili».

Se l’organismo della persona non dà segni di una morte imminente, e magari la prognosi di sopravvivenza è oltre le tre-sei settimane (esistono scale di valutazione prognostica in cure palliative), effettuare la sedazione profonda, magari sospendendo l’idratazione e l’alimentazione, è un atto moralmente illecito che accelera la morte. La finalità della sedazione non è quella di provocare la morte ma di curare la sofferenza.

È etico sedare il paziente che, in assenza di ventilazione meccanica, muore in stato di gravissima sofferenza. Altra questione è l’opportunità di cessare volontariamente la ventilazione artificiale lontano dall’imminenza della morte.

Pertanto, nell’ambito delle cure palliative, ma solo in presenza di circostanze ben precise, può essere somministrata la sedazione profonda. Poiché comporta la riduzione e/o soppressione della coscienza, viene praticata solo in presenza dei cosiddetti «sintomi refrattari» ai consueti trattamenti e in fase di morte imminente, ossia quando l’aspettativa di vita del malato viene giudicata compresa tra poche ore e/o pochi giorni (13gg).

Occorre chiarire che non ha nulla a che vedere con l’eutanasia e il suicidio assistito, e che i farmaci impiegati sono sostanze sedative e non letali. La sedazione profonda è «un estremo rimedio» che «richiede attento discernimento e molta prudenza», e che già negli anni ’50 papa Pio XII ne aveva legittimato l’impiego.

Conclusione

Arrivato ad una fase avanzata della malattia, probabilmente solo raramente il medico può intervenire per giungere ad una guarigione (to cure); spesso, però, può intervenire per alleviare le sofferenze (to relieve): oggi il controllo del dolore ha raggiunto livelli elevatissimi.

Ma il medico può sempre prendersi cura (to care) di lui, per cui non si può mai dire che non ci sia più niente da fare: si tratta di trovare la cosa giusta da fare e in questo consiste l’etica del prendersi cura. Accompagnare il malato con la cura, il sollievo, l’aiuto proporzionato, il conforto spirituale è espressione di solidarietà.

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Occorre pertanto un grande sforzo comune al fine di:

  • informare – in modo corretto e chiaro – sui termini in tema di cure palliative, accanimento terapeutico ed eutanasia;
  • intervenire a livello sociale affinché si incrementi l’accesso dei malati e il contributo dei medici alle cure palliative e alla terapia del dolore;
  • riconoscere che l’assistenza al paziente terminale non è una “sconfitta”, ma un’opportunità di praticare “alta” medicina e assistenza con il supporto di un approccio multidisciplinare attento ai reali bisogni del paziente.

Le cure palliative indicano una riscoperta della vocazione più profonda della medicina, che consiste prima di tutto nel prendersi cura: il suo compito è di curare sempre, anche se non sempre è possibile guarire.

Ogni situazione e ogni persona vanno considerate non solo alla luce di principi etici generali, ma anche nella loro unicità, per cui non esiste il malato terminale, ma tanti singoli malati che si stanno avvicinando alla morte.

L’umanizzazione del morire è un dovere morale di tutti coloro che hanno scelto una professione sanitaria. L’efficienza di un operatore sanitario dipende più dalle sue qualità morali che dalle particolari tecniche da lui usate.

L’assistenza al malato terminale va curata come ogni tipo di assistenza alle persone malate, ma presenta anche aspetti e difficoltà tipiche. Umanizzare il morire significa migliorare la qualità di vita di chi sta per lasciarci, assicurandogli il morire bene in serenità e pace.

Domenico Marrone, sacerdote, è docente di Teologia Morale presso l’Istituto Superiore Metropolitano di Scienze Religiose “San Sabino” – Bari.

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3 Commenti

  1. Claudio Bargna 25 novembre 2019
    • Marcello Passagrilli 26 febbraio 2020
  2. Marcello Passagrilli 23 novembre 2019

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