Vescovi tedeschi: la parola coraggiosa

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In occasione dell’anniversario della fine della Seconda guerra mondiale i vescovi tedeschi riconoscono la responsabilità dei loro predecessori per la mancata opposizione al Reich e alla sua guerra di distruzione.

Un atto di coraggio e un discernimento prezioso: così può essere indicata la dichiarazione dei vescovi tedeschi del 29 aprile, in preparazione ai 75 anni dalla fine della seconda guerra mondiale (8 maggio 1945) con il titolo I vescovi tedeschi nella guerra mondiale.

«Da ultimo i vescovi non trovarono nessuna via di uscita dalla tensione che si dava tra le rappresentazioni comuni di un’obbligazione patriottica durante la guerra, la legittimità del potere statale, il dovere di obbedienza che ne risultava e i crimini palesi compiuti. I criteri cristiani mediante i quali inquadrare la guerra evidentemente non bastavano più. In questo modo rimase preclusa una visione adeguata per questioni che riguardavano i propri soldati e le sofferenze degli altri. Le dichiarazioni dei vescovi, pur con tutte le sfumature legate a ogni singola personalità, fallirono davanti alla realtà di un potere criminale»; rimanendo così prigionieri nell’illusione «di un cambio di comportamento da parte della leadership politica, del mantenimento degli accordi giuridici e della virtuosa esecuzione del dovere di coloro che da quella leadership erano guidati. In un certo modo, si attestarono dunque sulla linea di una vita ben condotta nella falsità (Adorno)». Di più: «Non pronunciando un chiaro “no” alla guerra, ma rafforzando, da parte della maggioranza, la volontà di prosecuzione del conflitto, sono diventati complici nella guerra».

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Anche noi complici della “società di guerra”

La qualità del giudizio emerge immediatamente se paragonata alle parole episcopali del 24 gennaio 1983 sul tema del rapporto fra Chiesa e nazismo. Allora si riconosceva che «anche nella Chiesa c’è stata colpa», ma in questa formulazione: «Molti membri della Chiesa si sono lasciati trascinare nell’ingiustizia e nella violenza. Ma possiamo anche testimoniare, ancora un volta, che Chiesa e fede sono state fra le maggiori forze di opposizione, addirittura di resistenza, contro il nazionalsocialismo, per certi aspetti anche la forza maggiore… Per tanto non abbiamo il diritto di giudicare a posteriori indiscriminatamente i casi in cui la chiamata alla testimonianza ha indicato a qualcuno la via diretta del confronto aperto, e quelle in cui la responsabilità per altre persone ha richiesto una via indiretta, fatta di prudenza e riflessione. Non deve esserci né giustificazione, né accusa, ma solo autocritica».

Il documento recente non teme di affrontare la responsabilità diretta dei vescovi e si sviluppa in quattro parti: l’attualità della memoria; il comportamento dei vescovi cattolici in Germania durante la seconda guerra mondiale; ragioni per capire; insegnamenti per il futuro.

La guerra, le vittime, le perdite, le privazioni, i sensi di colpa, la vergogna e le umiliazioni hanno segnato la vita dei sopravvissuti e delle generazioni tedesche del dopoguerra. E anche i vescovi hanno sentito il dovere di riflettere e visitare la storia recente. Lo hanno fatto più volte a partire del 1945. Anch’essi sono stati segnati dalle violente migrazioni di popolazioni alla ricerca di una patria ospitante.

Solo dopo anni la ricorrenza della fine della guerra è stata avvertita dalla maggioranza della popolazione come un giorno di liberazione. E solo nella Repubblica federale (rispetto alla Repubblica democratica dell’Est) il cammino non ha conosciuto nuovi servilismi alle memorie dei vincitori. Un lungo processo ha collocato l’anniversario nel contesto proprio, cioè il futuro unitario dell’Europa, e la pratica paziente del dialogo e della riconciliazione con i popoli dei paesi vicini (in particolare Francia e Polonia) ha permesso ai tedeschi di riconciliarsi con se stessi assumendo il loro passato. «Per questo coloro che oggi perseguono una società e statualità altre e chiuse, mettono in discussione il largo consenso raggiunto».

Il suono delle campane e il silenzio dei pastori

La guerra è iniziata nel 1939 con l’occupazione della Polonia, la decapitazione delle classi dirigenti polacche, la deportazione di due milioni di persone per i lavori forzati in Germania e l’avvio dell’Olocausto. «Nonostante la distanza sostanziale dal nazismo e talora anche una aperta opposizione, la Chiesa cattolica in Germania era parte della “società di guerra”». Né la repressione, né la guerra di annientamento, né le crescenti perdite tedesche al fronte e neppure i bombardamenti sulle proprie città hanno modificato la sua collocazione.

Quando le truppe attaccarono la Polonia si alzò solo una voce critica, quella del vescovo di Berlino Konrad von Preysing. Non ci fu, per altro, un’esplicita attestazione di “guerra giusta”, ma quando l’esercito del Reich entrò a Parigi, suonarono tutte le campane delle chiese tedesche. Per oltre quattro anni non ci fu alcuna protesta formale dei vescovi contro la guerra di annientamento e le voci a difesa degli ebrei furono rare. Un primo sussulto di resistenza si ebbe davanti alla legislazione contro l’eliminazione degli handicappati.

Solo il 19 agosto 1943 la conferenza episcopale firmò la lettera (I dieci comandamenti come legge di vita dei popoli) in cui si connetteva l’ordine dello stato con la verità della legge divina, la difesa del matrimonio e della famiglia, il vincolo di obbedienza alla coscienza personale e il diritto incondizionato alla vita e alla proprietà. L’onda dei crimini e dell’orrore devastavano da tempo le coscienze dei militari e dei sopravvissuti al fronte.

Di particolare interesse la terza parte dedicata non alla giustificazione della posizione dei vescovi, ma al tentativo di comprensione delle ragioni che l’hanno favorita. Anzitutto la lunga tradizione che dalle lettere apostoliche attraversa l’intero Medioevo e segna anche i secoli successivi, cioè la legittimità dell’autorità dell’ordine imperiale e politico come dato che ha giustificazione spirituale.

È voluto da Dio. Una legittimazione che è proseguita a vantaggio in particolare delle monarchie e dei sistemi autoritari piuttosto che delle nascenti forme democratiche. «È successo così che lo stato tedesco, anche dopo che i nazisti salirono al potere e nonostante la loro visione del mondo fosse chiaramente respinta dai vescovi, è stato visto come un potere legittimo da rispettare e da garantire. Nelle condizioni di uno stato “ingiusto” come quello nazista la posizione della Chiesa è risultata ambivalente e problematica».

Il Kulturkampf e il concordato

Una seconda ragione è legata alla teoria della «guerra giusta». Nata con Cicerone, Agostino e Tommaso per limitare la violenza è diventata nella modernità fonte di giustificazione della stessa, nonostante la drammatica esperienza della Prima guerra mondiale. A questo si aggiunga nella prima metà del ’900 l’ampia accettazione sociale dell’esercito nella vita di tutti i giorni. Il soldato era onorato e riconosciuto e molte delle strutture formative (dalla scuola alle associazioni giovanili) ne riprendevano i metodi e le forme.

Una terza ragione è legata alla tradizione tedesca del Kulturkamp che ha visto il confinamento della tradizione cattolica in un’area culturale e sociale marginale e di seconda qualità. Lo sforzo secolare di pari dignità portava a giustificare le autorità dello stato. Del resto, i vescovi condividevano con l’opinione  pubblica il giudizio sul Trattato di Versailles come un’umiliazione indebita e ingiusta.

Inoltre, in particolare con l’aggressione nazista alla Russia il regime poteva giovarsi della radicale opposizione ecclesiale al comunismo. La sistematica persecuzione alle Chiese da parte di Stalin alimentava e giustificava la contrapposizione ideologica e le ragioni del conflitto, con un notevole potenziale di approvazione da parte della Chiesa cattolica.

Anche la firma del concordato col Reich nel 1933 se, da un lato, aveva legittimato la presenza della Chiesa cattolica, dall’altro, rese più precaria  l’opera pastorale. Per i nazisti era lo strumento per chiudere la Chiesa nelle sagrestie e veniva usato e strumentalizzato per chiedere un consenso acritico. Solo le crescenti violenze contro monasteri, parrocchie, clero e associazioni resero evidente la disparità fra lealismo ecclesiale e manipolazione del potere governativo.

Infine, la fragilità strutturale della conferenza episcopale, divisa nei tre ceppi (prussiano, bavarese e austriaco) impedì ogni posizione coraggiosa, anche per l’intervento sempre prudenziale del presidente, il card. Adolf Bertram. E questo nonostante le esperienze sempre più drammatiche. Fino alla presa di posizione del 1943.

Esempio per altri

La quarta parte (Insegnamenti per il futuro) valorizza il lungo cammino che ha visto il rifiuto ideologico del nazismo cumularsi progressivamente con il martirio dei testimoni, l’evidenza dell’olocausto e la difesa dei propri fedeli dalle prepotenze dei poteri. «Oggi guardiamo con tristezza e vergogna le vittime e tutti coloro le cui domande esistenziali di fronte ai crimini e alla guerra sono rimaste prive di una risposta ecclesiale». I lunghi processi di riconciliazione con le popolazioni aggredite e i mutamenti teologici, culturali e sociali dei decenni successivi hanno propiziato un cambiamento rilevante nell’orientamento della Chiesa. Essa difende oggi i diritti inalienabili di tutti e i principi morali dell’ordinamento sociale rispetto a ogni regime e forma statuale. Dall’affermazione di una «guerra giusta» si è passati a quella di una «pace giusta», che è il titolo di una fondamentale riflessione dell’episcopato tedesco del 2000.

La dichiarazione recente si innesta su riflessioni e documenti che hanno via via arricchito gli ultimi decenni. Anzitutto i testi dedicati alla guerra: dal documento del 1983 («Effetto della giustizia sarà la pace») a quello del 2000 («Pace giusta»; esso verrà ripreso prossimamente) e poi quelli legati alla riconciliazione tedesco-polacca (iniziato con uno scambio episcopale del 1965, ricordato e arricchito nei decenni successivi) e tedesco-francese (come il documento comune delle Commissioni giustizia e pace dei due episcopali del 2002). Si possono aggiungere le dichiarazioni legate al ricordo della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, quelle  comuni alle due Chiese tedesche maggiori e le prese di posizione rispetto a fenomeni violenti nuovi come il terrorismo (2011).

Un magistero che risponde alle particolari condizioni della storia tedesca, ma che suona come esempio per molti altri episcopati. È indicativo che né in Italia, né in Francia, né in Spagna abbia avuto spazio una riflessione similare per quanto riguarda l’atteggiamento dei vescovi rispetto al regime fascista, al regime di Vichy e a quello di Franco.

È anche uno stimolo per le Chiese dell’Europa centrale e orientale per rivedere criticamente e onestamente i decenni che dalla Seconda guerra mondiale sono terminati con la caduta dei regimi, senza sudditanze verso le ingiustificate pretese dei poteri politici di fissare ideologicamente le verità storiche.

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3 Commenti

  1. Silvano Scalabrella 10 giugno 2020
  2. Gabriele 4 maggio 2020
  3. Remigio Nino 30 aprile 2020

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