Il Memoriale di Tibhirine

di:

ilio

Dopo chilometri e chilometri di regione desertica, si approda, finalmente, a Midelt: un altopiano a 1.500 metri, un monastero di nome Notre Dame de l’Atlas, dei monaci, come quelli di Tibhirine.

Vi accoglie, in pieno ambiente berbero, un’atmosfera particolare tra l’esotico e il mistico. Così, entrate facilmente nell’abituale ritmo monastico di preghiera, di riflessione e silenzio. Tutto vi aiuterà a contemplare… La solitudine della kasbah Myriem (il suo nome di origine), la pace spirituale che si respira come sospesa nel tempo, la vegetazione tutt’intorno dagli ampi spazi, una corte silenziosa e un incantevole color ocra, che su ogni muro si distende come un manto.

Una sorpresa, però, vi aspetta… Ed è proprio nel cuore del monastero. È il suo tesoro nascosto: il Memoriale dei sette monaci martiri. Bisognerà, però, come per le cose che hanno il sapore di Dio e del suo mistero, introdurvi e accompagnarvi.

Lo farà ben volentieri lo stesso priore, Jean Pierre. Il suo sorriso di empatia è disarmante. L’avventura ardua, meditativa. E trasformante. Sì, perché il suo messaggio vi arriverà fino in fondo al cuore.

Si entra, così, nella nuova cappella di Charles de Foucauld. Figura di santità, questa, particolarmente importante per tutta l’Africa del nord. Molte comunità religiose si ispirano a lui, infatti, anche se non ne ha fondata nessuna. È per davvero la storia del chicco di grano caduto nella terra, che muore e dà frutti sorprendenti in ogni terra. Come l’umiltà, l’inculturazione, la fratellanza universale, l’abbandono a Dio, l’amore per l’altro differente da noi.

Accanto, riposa père Albert Peyriguère, suo discepolo, eremita, morto nel 1959. Si era dato anima e corpo alla povera gente della regione di El Kebab. Curava centinaia di persone al giorno. Perfino re Hassan II venne fin qui a ringraziarlo, cosa impensabile in questo Paese.

Il suo più bel ritratto, in fondo, appare sulle labbra di un giovane berbero nel giorno della sua sepoltura, quando moltissimi musulmani vennero qui a piangere. «Il marabout (santo) non aveva né donna né bambini: tutti i poveri erano la sua famiglia, tutti gli uomini erano suoi fratelli. Ha dato da mangiare a coloro che avevano fame. Ha rivestito coloro che erano senza vestiti. Ha curato i malati. Ha difeso coloro che erano trattati ingiustamente. Ha accolto chi non aveva casa. Tutti gli uomini erano suoi fratelli. Dio sia misericordioso con lui!». Parole che rileggiamo ad alta voce.

«Eccole, le beatitudini… – mi soffia il priore, ancora una volta commosso –. Sai, da poco è iniziata la causa di beatificazione».

Poi si entra in una grotta, quella dei sette santi dormienti della tradizione popolare, ma una storia sacra anche nel Corano, misteriosa allusione ai nostri sette monaci martiri.

Così, in uno spazio completamente buio, contempliamo a lungo una piccola icona della Vergine. Bella, luminosissima, rivestita d’oro, di azzurro e un bel rosso-sangue. La ammiriamo risplendere nell’oscurità.

Sembra di essere a fine Compieta, ogni sera, al monastero, quando si spengono tutte le luci, si illumina unicamente un’icona di Maria, mentre si snoda triste e soave il canto gregoriano della Salve Regina.

Una stretta al cuore, però, vi prende subito al commento di père Jean-Pierre: «Davanti a questa stessa immagine sappiamo che i sette martiri hanno cantato la loro ultima Salve Regina. Venivano poi catturati in piena notte!».

E così si passa a contemplare la lettera di impegno di ognuno per la loro professione religiosa. Tutto steso e sottoscritto di proprio pugno. Per la vita e per la morte. Come Il testamento spirituale, in copia originale, di Christian e quel suo incredibile perdono all’uccisore, che ha sconvolto il mondo.

Poi oggetti, vestiti, appunti…, diventati ora reliquie preziose. Accanto, la sala capitolare: semplicemente un tavolo e le loro sette sedie vuote. Qui discutevano e prendevano le decisioni, tra cui quella – tormentata e tragica – di restare in Algeria, nonostante il pericolo di morte imminente.

In bella calligrafia, su un cartoncino, i nomi dei monaci occupano il loro posto abituale. Ora, a caratteri d’oro, nel palmo delle mani di Dio, come promette l’Apocalisse.

Solo metà di loro, inizialmente, era d’accordo di restare. Nella visita a una famiglia di vicini, però, confessando la loro inquietudine e incertezza, come degli uccelli su un ramo… interveniva una voce di donna: «Ma gli uccelli siamo noi, voi siete i nostri rami! Se ci abbandonate, cosa faremo noi?!». Decisero insieme, allora, di restare. E insieme di morire…

Questo Memoriale è un inno grandioso, potente, commovente all’amicizia. Quella che legava nella fedeltà e nella reciprocità i monaci a questa terra e a questa gente. Un inedito cammino, per cristiani e musulmani, di un amore condiviso. E questo – come il Cristo – fino al dono totale di sé. Forte e deciso. Perché l’amicizia ha sempre due volti: «Il primo, la scoperta di ciò che ci rende simili, il secondo è il rispetto di ciò che ci fa diversi», come precisa Stephen Littleword.

Continuando la nostra visita, incontriamo anche Elisabeth Lafourcade, donna chirurgo, che operò per anni qui tra la povera gente fino all’ultimo istante, quando le cadde il bisturi dalle mani per un tumore al braccio. Visitava, allora, i suoi pazienti in barella, fino alla vigilia della sua morte.

Si contempla, poi, una nera tenda berbera di peli di cammello, ben distesa con ogni oggetto di vita quotidiana. Era di suor Cécile, una pioniera, che accompagnava come infermiera i nomadi nel loro estenuante vagare per il deserto. Nomade tra i nomadi.

«Ricordo ancora quando celebravo la messa sotto questa tenda – mi fa nostalgico il priore –. Sentivo, per davvero, come Dio cammina con noi».

…E che sempre ci precede nel costruire ponti di umanità, come qui si ammirano. Con emozione.

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