La vita consacrata dopo la crisi

di:

monastero

Care sorelle, cari fratelli,

il nostro pensiero, accompagnato da fraterno affetto, desidera raggiungere le comunità e le persone della Vita Consacrata presenti nella nostra Regione.

A causa degli effetti devastanti della pandemia, stiamo attraversando un tempo di deserto, in un quotidiano aspro e tormentato. Ora vorremmo sostare con ognuna delle vostre comunità per rileggere insieme, in luce di fede, il duro cammino di questo periodo, per cogliere tracce di vita, per raccogliere drammi, travagli, fatiche e pesanti ombre di morte. E per guardare al futuro con uno sguardo illuminato dalla buona notizia del vangelo: che Dio Padre non abbandona mai i suoi figli, soprattutto nell’ora della tempesta e del naufragio.

A partire dalla pandemia

Covid-19: una sigla per dare un nome all’angoscia degli ultimi tempi, dilagata in ogni parte del mondo. Siamo stati colti di sorpresa, come sempre avviene quando si vive candidamente adagiati sul divano delle nostre pigre abitudini. Tutto si è fermato all’improvviso, e ci siamo ritrovati soli e smarriti nelle nostre case, in un silenzio esterno che ha messo in evidenza, in breve tempo, la nostra annosa fatica al silenzio interiore.

L’emergenza Covid-19 ha portato alla luce quanto la scienza – peraltro importantissima e indispensabile – non possa tutto. Soprattutto non può scongiurare ogni vulnerabilità della persona umana. Questo gli scienziati lo sanno, ma la nostra cultura continua ad anestetizzarci con i suoi miti illusori per farci dimenticare quanto la vita risulti impresa ardua e molto delicata. E così un invisibile virus ci ha ricondotti alla reale misura di noi stessi. Si è fatto beffe della presunzione dell’uomo che si fa da sé, ha portato allo scoperto la nostra illusione di onnipotenza, mandando in frantumi il meccanismo ben oliato di una cultura malata di narcisismo e di una mentalità inquinata dai “gas tossici” di un individualismo asfissiante e triste.

Ma non è ancora tutto. La pandemia ha anche fornito l’occasione per far emergere ciò che di più bello e prezioso racchiude la nostra umanità: l’empatia, la compassione, la solidarietà, la disponibilità a mettersi al servizio di chi è nel bisogno, l’amore che porta a sacrificarsi per il bene dell’altro, chiunque esso sia, generosamente e gratuitamente. È la profezia che, da sempre, la Vita Consacrata ha da offrire al mondo: lo stupore di donne e di uomini vergini che dicono con la vita che l’esistenza vale solo se è donata, condivisa, offerta per amore.

Domande ineludibili

Ora dobbiamo chiederci se questo tempo sia stato per noi un’esperienza di ascolto profondo, in grado di toccare le corde più intime della nostra interiorità, senza comodi alibi e senza ingenue, pericolose illusioni.

O se invece, anche per noi, come per il resto della società, questo non sia stato pure il tempo della facile retorica e di stucchevoli luoghi comuni. «Nulla sarà più come prima!», «Ce la faremo!», «Ne usciremo migliori» si è detto e ripetuto con l’enfasi roboante di un ottimismo troppo ingenuo per risultare affidabile. In verità tutto, prima o poi, torna inesorabilmente come prima, anche per noi della Vita Consacrata, se non facciamo tesoro della seria, severa lezione, che ci viene da quanto stiamo vivendo e soffrendo.

A questo punto ci chiediamo quale sia la prima domanda da porci. Tra le mura delle nostre comunità religiose e parrocchiali è risuonato un interrogativo ineludibile: «Ma che cosa ci sta dicendo Dio in questo tempo di pandemia?». Domanda legittima, certo, ma che reclama di venire depurata da qualche malinteso per essere posta in modo corretto. Perché Dio non ci parla giocando di sponda con gli eventi della natura, cercando, in modo sfuggente, di farci sapere cose che ancora non sapevamo. In realtà, Dio non ci dice niente di altro, rispetto a quanto ci ha già comunicato con la sua Parola incarnata nel Figlio crocifisso e risorto. Pertanto la domanda più corretta sembra debba essere un’altra: «Che cosa vogliamo rispondere noi oggi a quanto Dio ci sta dicendo e proponendo da sempre?». Dio è fedele all’alleanza con noi suo popolo, e non si è mai stancato di chiamarci a conversione.

Ripartire o risorgere?

Riconosciamolo. La forzata convivenza, imposta dalla pandemia, ci ha offerto una fotografia della reale condizione della vita consacrata, purtroppo al di sotto degli slogan correnti, con i quali siamo abituati a definirci. Ma soprattutto distante dall’alta, esigente bellezza di una vita profumata di vangelo. Un “codice”, il vangelo, che non possiamo limitarci a “predicare”, ma che siamo impegnati a “praticare” con l’umiltà di discepoli che si sanno fragili e incoerenti, eppure innamorati dell’unico Maestro. È vero: siamo generosi nel “fare apostolato”. Siamo tanto presi e ci sentiamo spesso risucchiati dalle attività e dalle varie occupazioni del nostro ministero. Ma non possiamo non renderci conto che sono le relazioni fraterne, vissute nelle nostre comunità, a dover essere nutrite della linfa di una umanità più vera e più piena, proprio perché più cristiana.

Riconosciamolo. La pandemia, per noi, è stata anche un’esperienza di spoliazione. Siamo rimasti storditi e disorientati dall’improvvisa cancellazione di impegni, dal continuo rinvio a tempo indeterminato di scadenze programmate e magari preparate con un massimo di zelo. Ci siamo sentiti interiormente svuotati dall’assenza di riti, di celebrazioni, di “strutture” comunitarie.

Riconosciamolo. La pandemia ci ha rivelato, ancora una volta – ma stavolta con spietata evidenza – quanto siamo deboli, limitati e vulnerabili. E ci ha ricordato che siamo davvero poveri. Tutti! Ma ci ha anche permesso di capire meglio che, proprio per questo siamo stati desiderati, scelti, voluti e amati da sempre, da parte di un Dio che è nostro Padre, e non ci chiede di essere diversi per poterci “meritare” il suo gratuito, indefettibile amore.

Riconosciamolo. La pandemia ci ricorda ancora che ogni nostro bisogno non costituisce solo l’evidenza di un vuoto che ci punge. Ma è insieme luogo concreto di vocazione. Siamo chiamati a prendere coscienza del Dono che ci abita – lo Spirito di Dio –, della possibilità che ci è offerta di riprendere il timone della nostra barca e di valorizzare al meglio i talenti ricevuti. In una parola, siamo consapevoli del nostro infinito bisogno di essere amati e della capacità di amare, donataci per grazia. Non siamo e non ci sentiamo come anfore vuote in ardente attesa dell’acqua per la nostra sete, ma abbiamo la lieta, grata certezza di essere umili vasi di creta, contenenti frammenti di un tesoro di incalcolabile valore: l’amore di Dio. Perciò, la nostra povertà, con il suo inevitabile strascico di difficoltà, fatiche, malattie, incomprensioni o delusioni, non è un impedimento ad amare, ma il luogo in cui la nostra libertà è chiamata ad aprirsi in pienezza alla tenerezza di Dio, e a passare per il crogiuolo dell’amore, per farsi dono gratuito a tutti. E, primi fra tutti, ai più poveri.

A cominciare da casa nostra

Come abbiamo potuto constatare, la gravità del coronavirus ha “imposto” ad ognuno – con rigorose prescrizioni e precise, minute disposizioni igieniche e sociali – l’attenzione all’altro. Viene spontaneo domandarsi: ci voleva proprio una pandemia tanto devastante per guarire dalla nostra penosa cecità e riuscire a vedere da vicino chi ci vive accanto? Perché facciamo così tanta fatica a esercitare ogni giorno l’attenzione al fratello, come nostra libera scelta? Sembra curioso: dell’indicazione a mantenere le distanze per salvaguardare la salute di chi ci è vicino, anche noi, membri della Vita Consacrata, sembriamo aver recepito benissimo la prima parte (mantenere le distanze), mentre la seconda (la ricerca del bene del prossimo) forse si sarà un po’ persa nella grigia nebbia della vita ordinaria.

Lo stesso pare si possa dire per l’ammirazione, più che legittima e doverosa, nei confronti di quanti, in tempi così difficili, si sono occupati dei malati negli ospedali e nelle case. Ma perché accontentarci di ammirare la loro infaticabile generosità e non viverla anche noi nel nostro quotidiano, e non solo in circostanze eccezionali? Nello scorrere dei giorni possiamo farci carico gli uni degli altri con attenzione delicata e gratuita, con sentita partecipazione, con il sostegno concreto e, anche «settanta volte sette», con il perdono limpido e cordiale.

Carissime sorelle, carissimi fratelli,

“sepolti” nelle nostre case, abbiamo celebrato «a porte chiuse» la Pasqua, vita nuova ricevuta in dono dallo stesso Crocifisso risorto. Abbiamo scoperto in una forma del tutto insolita che fuoco, acqua, pane di vita non lo è solo Gesù per noi, ma lo siamo anche noi gli uni per gli altri. La nostra identità di figli di Dio, che ci accomuna tutti, porta con sé anche questa vertiginosa dignità e implica una grande, imprescindibile responsabilità.

Con Gesù vivo, che ci vuole vivi, fedele compagno dei nostri poveri giorni, potremo rendere il mondo terra ospitale e casa benedetta per ogni sorella, per ogni fratello, che i nostri passi incroceranno sulle strade della vita.

Bologna, 26 giugno 2020.

In fraternità sincera,
La Commissione Episcopale per la Vita Consacrata

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