P. Bourgeois: i dehoniani nel post-concilio

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post concilio

Il 30 gennaio 2021 ricorreva il centenario della nascita di p. Albert Bourgeois, sesto superiore generale (1967-1979) dei dehoniani. Nato a Jeandelancourt, in Francia, è deceduto a Parigi il 21 novembre 1992. Una delle vie privilegiate per comprendere lo stato d’animo di un superiore generale è indubbiamente quella delle sue lettere circolari. Tra le tante questioni “scottanti” del post-concilio, ha affermato p. Andrea Tessarolo, che ha curato la pubblicazione delle sue 40 lettere, questi testi sono di una “importanza capitale” per cogliere lo spirito e la vita della congregazione fondata dal padre Leone Dehon.

La prima lettera, indirizzata da Bourgeois a tutta la congregazione, è del 16 giugno 1967. «Potete facilmente immaginare, con quali sentimenti vi scriva la mia prima lettera». Pur nella consapevolezza  dei suoi “limiti” e delle sue “deficienze”, si augura di non deludere la fiducia dei confratelli. La sua nuova esperienza di superiore generale la vive non come un’avventura, ma come una vera e propria “missione” in cui ha tutto da imparare.

Il suo compito “difficile e pesante” è anche “promettente” dal momento che abbraccia l’aggiornamento delle strutture, la formazione, l’azione apo­stolica e missionaria, il governo della congregazione. Fin dal primo momento intende raggiungere, almeno “con il pensiero”, non solo le 396 case e residenze dell’istituto, ma soprattutto i confratelli più lontani: da quelli dell’Africa, dell’Indonesia, dell’America del Sud, a quelli della Finlandia e della Polonia “particolarmente vicini nel cuore e nello spirito”.

Una buona metà di queste lettere è indirizzata direttamente ai superiori provinciali o scritta in occasione delle festività liturgiche del Natale e del S. Cuore. Sarà questo il punto di partenza di una rilettura personale dei testi, a cui seguirà, poi, quella di tutte le altre lettere scritte nelle più diverse occasioni.

Indicazioni programmatiche ai provinciali

Rivolgendosi ai superiori provinciali, il 7 agosto 1967, ricorda loro il mandato dell’ultimo capitolo (del 1966) in merito all’istituzione del “segretariato delle missioni”. Oltre alla scelta del luogo è in ballo l’individuazione della persona disposta a “sacrificarsi” per questa attività, una persona che potrebbe anche non essere mai stata in missione, purché “capace e sufficientemente aperta e interessata all’attività missionaria”.

Due anni dopo, il 16 ottobre 1969, richiama l’urgenza della costituzione dei due organismi voluti dalla precedente conferenza generale, e cioè il centro studi e la commissione per la revisione delle costituzioni. Il centro studi, da affidare ad un gruppo di ricercatori, dovrebbe comprendere due sezioni: una storica per le ricerche sul fondatore e sull’opera insieme alla pubblicazione dei testi più interessanti presenti negli archivi e l’altra teologica sullo spirito e la vita della congregazione.

La commissione per la revisione delle costituzioni dovrebbe essere costituita da  giuristi qualificati, da religiosi bene informati sulle condizioni di vita e di apostolato della congregazione, da pastori e teologi attenti alle realtà qualificanti la vita e lo spirito dell’istituto e sensibili alle attese e alla vita della chiesa. Tenuto conto dei tanti impegni delle persone coinvolte, non si tratterebbe di un “tempo pieno”, ma solo di alcune sessioni periodiche annuali.

Più ampia delle due precedenti è la lettera del 16 luglio 1970, nella quale vengono affrontate tre questioni particolarmente urgenti: la riunione dei provinciali, i lavori per la revisione delle costituzioni, il funzionamento degli organismi generali. Il tema più delicato è sicuramente quello riguardante l’iter della revisione delle costituzioni. Sono in gioco non solo un’autentica fedeltà al progetto iniziale della congregazione, ma anche una doverosa attenzione alle modalità espressive della vita religiosa nel mondo e nella chiesa di oggi.

L’apposita commissione incaricata della revisione delle costituzioni dovrebbe soprattutto recuperare i testi ufficiali della chiesa e della congregazione favorendo il più ampio coinvolgimento dei confratelli sotto la guida di alcuni qualificati esperti.

In vista di tutti questi impegni si è ritenuto opportuno avviare preliminarmente un’inchiesta; anche se economicamente onerosa, questa iniziativa ha costituito un’occasione privilegiata per una seria riflessione sui rischi e sui vantaggi e una reale presa di coscienza dei complessi problemi in gioco da parte dei religiosi, delle comunità, delle province e della congregazione stessa nel suo insieme.

Purtroppo, il funzionamento degli organismi generali si è rivelato fin da subito molto fragile; infatti, non solo le commissioni generali (spiritualità, formazione e apostolato,  segretariato dell’attività missionaria) hanno segnato una battuta d’arresto, ma anche il centro studi si è arenato ai blocchi di partenza; solo la commissione di revisione delle costituzioni ha preso un promettente avvio.

Nel luglio del 1971 vengono consultati i provinciali sul collegio internazionale nel quale erano allora ospitati 13 studenti, otto dei quali sacerdoti; due i problemi da risolvere con una certa urgenza: il primo sulla disponibilità dei locali, il secondo, “fondamentale”,  sulle finalità del collegio e il suo funzionamento. Con molta chiarezza il sup. gen. afferma che la curia e il collegio non sono “un albergo o un pensionato universitario”, ma un’autentica “comunità religiosa” che vive dell’impegno personale di tutti i suoi membri di cui andrebbero valutate le qualità “umane e religiose” prima ancora di quelle “intellettuali”; non rientra affatto nelle competenze del collegio risolvere i “problemi “insoluti” delle singole province; purtroppo «non sono mancate infelici esperienze al riguardo».

La successiva “breve” lettera indirizzata ai provinciali è del settembre 1976; è scritta unicamente per una consultazione sul programma prossimo futuro e per “qualche informazione”. In vista del “libro del centenario”, viene sollecitato almeno un articolo sulla storia della propria provincia. Nella stessa lettera Bourgeois ricorda che nel 1977 avrà luogo l’apertura dell’anno giubilare o centenario della congregazione»; è una preziosa occasione in vista, soprattutto, di «un’animazione  e di un rinnovamento adeguato alle proprie possibilità».

Tutti i provinciali, nella lettera del 1° settembre 1977, sono sollecitati ad approfittare di questa occasione per un rinnovamento adeguato alle proprie necessità e possibilità. In particolare, tutte le province dovranno programmare un apposito capitolo nel 1978, in vista di quello generale del 1979. Quale “migliore occasione” di questa per pensare seriamente alla missione della congregazione nella chiesa universale e in quella locale? Prima ancora dei problemi amministrativi e giuridici, vanno tenute in debito conto le finalità «religiose, spirituali e apostoliche».

Mistero del Natale e problematica sacerdotale

Oltre a questi testi direttamente indirizzati ai superiori provinciali, Bourgeois non perde occasione per rivolgersi a tutti i confratelli in prossimità delle feste natalizie. La prima lettera è del 6 novembre scritta in vista del Natale 1967. Da subito Bourgeois sente il dovere di precisare che la preparazione delle lettere circolari, insieme alle visite alle province, costituiscono uno degli impegni più importanti nell’esercizio pastorale del suo ufficio dal momento che sono finalizzate a garantire «l’unità dell’istituto e il coordina­mento delle attività nella comunione con lo Spirito».

Pochi mesi prima, in giugno, era stato aperto l’Anno della fede, un anno che nelle intenzioni del papa Paolo VI voleva essere un tempo di rinnova­mento e di approfondimento della fede per portare a maturazione i frutti del concilio; quale occasione più preziosa di questa per vivere e porre il mistero del Natale «al centro di tutti i proble­mi della fede e della vita della chiesa?». Proprio nelle feste natalizie un superiore generale non può dimenticare tutti i suoi confratelli “isolati in un posto di missione o alle prese con un’attività che non lascia loro respiro”; vorrebbe portare loro qualche “raggio di sole”, unen­doli alla vita della chiesa e di tutto l’istituto, rinnovando in tal modo la propria fede e lo spirito della propria vocazione.

Il Natale è lì a ricordare ai cristiani, ai religiosi, ai sacerdoti, a tutti, che la loro vita non trova la sua ragio­ne d’essere in una “ideologia”, ma nella risposta a quella “scottante” domanda posta da Gesù ai suoi discepoli: «Per voi, chi sono io?». L’impegno del cristiano, del religioso, del sacerdote, per la verità, è già una risposta che, però, ha sempre bisogno di essere purificata. Qualunque sia la propria attività: lavoro manuale, insegnamento, azione sociale o impegni direttamente pastorali e missionari, non si può mai evadere, infatti, dalla risposta della fede. Invece di perdersi inutilmente in “elucubrazioni teoriche”, ci si dovrebbe costantemente richiamare alla realtà dell’amore  del Cuore di Gesù.

Il mistero del Natale offre a padre Dehon lo spunto per una “contemplazione prolungata” delle condi­zioni storiche dell’incarnazione; non è mai troppo il tempo per soffermarsi in ammirazione di tutti gli esempi di umiltà, di ubbidienza e di povertà dei quali, non solo a Nazareth, Gesù è  per tutti “il più ammirabile modello”; mettersi alla sua sequela significa seguirlo non solo nella sua missione, ma anche nella sua “oblazione”, uno dei cardini spirituali fondamen­tali della congregazione.

Pensando ai tanti confratelli anziani, ammalati, sofferenti nel corpo e nello spirito, proprio quando la vo­lontà di Dio si manifesta in un “modo incomprensibile”, Bourgeois vorrebbe dire che proprio loro occupano il “pri­mo posto” non solo nel suo pensiero, ma anche nella “grande oblazione” che l’istituto ogni giorno offre a Dio. La preghiera “devota e ardente” ereditata dal passato, però, non basta più; andrebbe sostituita, a suo dire, da una preghiera più sobria, più biblica, più apostolica, più ecclesiale, con  prospettive teologiche e spirituali più ampie.

La successiva lettera natalizia, del 4 novembre 1968, inizia con una richiesta di scuse ai “fratelli coadiutori” se, questa volta, verrà interamente dedicata al “problema sacer­dotale”; quanto prima, comunque, non mancherà una lettera “tutta per loro”, ben sapendo che tanto i fratelli coadiutori che i sacerdoti sono strettamente uniti dal valore intrinseco della vita religiosa; ricorrendo, però, il 19 dicembre, il centenario dell’ordinazione sacerdotale del fondatore, Bourgeois ha pensato bene di affrontare i problemi della vita sacerdotale proprio dei “Sacerdoti del S. Cuore”, un “punto nevralgico” della vita della congregazione.

La problematica del sacerdozio, infatti, da alcuni anni è all’ordine del giorno; non per nulla, infatti, l’argomento – che chiama in causa la teologia, la sociologia e la psicologia –  è stato trattato da innumerevoli articoli, da libri a volte voluminosi e assai profondi, da riviste di semplice informazione o divulgazione; mai come ora «si analizza e si psicanalizza formazione e spiritualità sacerdotale, lavoro, sessualità e celibato, relazioni e funzione sacerdotale: niente sfugge allo studio e alla contestazione»; è sicuramente un problema «spesso interessante, qualche volta irri­tante, ma quasi mai senza utilità».

È un dato di fatto che qualcosa nella chiesa, soprattutto riguardo al sacerdozio, si sta muovendo; c’è solo da sperare che tutto questo sia causato «da una fede viva e da una carità illuminata, e non piuttosto da una certa incapacità di vedere e di vivere». Fra tutti i mali che potrebbero angustiare la chiesa, infatti, il disorientamento dei sacerdoti è senza dubbio tra i più gravi. Senza voler drammatizzare più di tanto la realtà, non si può negare, però, che l’incertezza e il disorientamento sono spesso all’origine di tante “defezioni”.

Il concilio ha detto cose importanti sulla missione, sul ministero e sulla vita spirituale del presbitero. Esiste ormai tutta una letteratura sull’argomento, corredata da inchieste e da studi di psico‑sociologia religiosa che sarebbe opportuno consultare per orientare in modo più sicuro la vita sacerdotale, compresa quella dei “Sacerdoti del Sacro Cuore”; anche la loro vita e il loro ministero, infatti, sono contrassegnati e sostenuti fortunatamente da quegli “orien­tamenti spirituali” che derivano da ciò che il concilio chiama “lo spirito e l’ispirazione originaria” di un istituto religioso.

Certamente padre Dehon è tributario della formazione sacerdotale, dell’idea di sacerdozio e del clima spirituale del suo tempo; tuttavia, «ha saputo dare prova di una lucidità e di un coraggio, di uno spirito di disponibilità e di una sensibilità ai “segni dei tempi”, che meritano tutta la nostra attenzione».

Padre Dehon si rende conto che la missione del suo istituto non può essere legata solo al culto; sollecita i suoi sacerdoti ad “andare agli uomini”, a ricercare soluzioni umane e cri­stiane ai loro gravi problemi; è fermamente convinto che il modo concreto per un apostolato vero ed efficace, è quello di agire e lavorare per il rinnovamento cristiano e per l’avvento del Regno di Dio. Dalla lettura dei suoi scritti appare con tutta evidenza l’intenzione di dar vita ad «una società di sacerdoti, la cui vita e il cui apostolato, in forza del loro stesso sacerdozio, sarebbero stati compe­netrati e animati da una intenzione riparatrice»; le modalità e la spiritualità animatrice non possono non essere condizionate, ovviamente, dal contesto teologico, spirituale, sociale e pastorale dell’epoca.

Fatte tutte queste considerazioni, Bourgeois prova a trarne alcune conclusioni. Non c’è dubbio che la fondazione, l’azione apostolica e caritativa rientrino nella natura stessa della “vita religiosa” dell’istituto. Da come si è mosso,  il fondatore ha fatto capire di voler  andare al popolo, ai poveri, instaurando un ordine sociale più giusto per l’avvento del “Regno del Cuore di Gesù”; è stato un esempio eloquente di “fedeltà dinamica”, di quella fedeltà realmente vissuta da sempre da tanti confratelli, soprattutto missionari, che a buon diritto si sentono figli e discepoli di padre Dehon. Ma una reale “fedeltà dinamica” non ha ragion d’essere senza una fedeltà convinta a ciò che è stato lo scopo della fonda­zione, vale a dire «il rinnovamento della vita sacerdotale al servizio della chiesa e per amore di Cristo».

Senza rinnegare affatto la riparazione “per il clero” come la intende padre Dehon, osserva Bourgeois, «tutto ci invita a quella forma di riparazione o di rinnovamento sacerdotale, che consiste nella collaborazione, nella partecipazione e nello sforzo con i nostri fratelli sacerdoti, in ascolto dei loro problemi, che sono pure i nostri». Oggi non è forse più di moda la lettura del testo del fondatore: “Cuore sacerdotale di Gesù”; quando, però, «se ne riscopre il disegno di fondo e si cerca di riscriverlo più o meno bene nella propria vita», allora ci si accorge di quanto potrebbe essere attuale.

L’urgenza di una rivitalizzazione

Nel 1969 non c’è traccia della consueta lettera natalizia; la ragione la si può forse ritrovare proprio nell’incipit di quella molto ampia del 28 novembre 1970, quando afferma che «da tre anni, ormai, stiamo visitando le province». Proprio in ragione di queste sue visite può dire di aver scoperto “una grande e bella realtà”, quella della fedeltà dei suoi religiosi allo “spirito e alla missione della congregazione”. Mentre tutto questo tempo è stato dedicato necessariamente ad una prima conoscenza delle persone e delle rispettive province, i prossimi tre anni «saranno essenzialmente condizionati dalla preparazione del capitolo del 1973».

Non si può non compiacersi, osserva, vedendo il “grande sforzo” di riflessione, di comunicazione e di coordinamento in atto; ovunque, infatti, «c’è buona volontà, chiarezza e comprensione, nella fede e nella carità». Allo stesso tempo, però, «non possiamo né dobbiamo chiudere gli occhi su certe debolezze o incoerenze in questa ricerca».

Dopo tre anni, infatti, si sente anche l’esigenza di un ripensamento, di una “autocritica” che potrebbe rivitalizzare lo stile di vita, le relazioni comunitarie, il governo, la formazione, gli orientamenti apostolici; potrebbe incidere anche sul prossimo capitolo generale chiamato a pronunciarsi sulla revisione delle costituzioni. Proprio in vista del capitolo, già nella conferenza generale del 1969, era stata avviata un’inchiesta da parte del centro internazionale ricerche sociali (CIRIS), allo scopo, fra l’altro, di chiarire le scelte più urgenti in merito alla natura e allo spirito dell’istituto.

Fin dal capitolo del 1967 si era aperta una strada alla “sperimentazione”, ma, purtroppo, senza precisarne le modalità; mai come oggi la si vede  come «una condizione indispensabile della vita e dell’adattamento continuo di una società in un mondo in continua e rapida evoluzione»; urge «una riflessione il più possibile coraggiosa su alcuni punti fondamentali: organizzazione delle comunità, partecipazione nella dire­zione, contenuti e ispirazione nella formazione, orienta­menti e scelte apostoliche»; mai come oggi, forse, si dovrebbe correre “il rischio della verità”, garanzia indispensabile della “vera libertà” delle persone e della “vera carità”.

Ma una “parola di verità” è altrettanto importante anche a proposito della missione attuale dell’istituto nella chiesa. Grazie alle numerose sue visite, Bourgeois si è convinto che una chiarifica del genere la si possa cogliere meglio “sui campi di battaglia”, quelli dell’evangelizzazione, della pastorale dei poveri, della premura per le persone, dell’azione incisiva della stampa, dell’insegnamento, dell’istruzione primaria, senza parlare «di quell’impegno quotidiano che è il servizio fraterno comu­nitario e anche, a volte, il confronto drammatico con l’età o la malattia, nella preghiera e nel sacrificio». Non saranno mai troppe «l’inventiva, la lucidità e la generosità del nostro spirito di amore e di oblazione ben compreso e vissuto»; non si può organizzare l’azione senza, prima, dare spazio alla riflessione e alla discussione.

Ancora nel settembre del 1888 padre Dehon, accennando all’udienza con Leone XIII dopo il decreto di lode, aveva trovato nelle parole del papa una corrispondenza significativa alla natura e alla finalità dell’istituto; basti pensare, in particolare, allo spirito di riparazione, all’insegna­mento e all’azione del papa anche nel campo dell’azione sociale‑poli­tica, alla dedizione ai sacerdoti, alle missioni lontane, all’adorazione. Riprendendo, più tardi, il riferimento a quell’udienza, padre Dehon, nella “Histoire de ma vie, potrà scrivere convintamente che in quell’incontro era stata colta in pieno la “nostra missione”.

Nella diffusione della congregazione in ben 25 nazioni, con una diversificata attività apostolica secondo i tempi e i luoghi, Bourgeois vede un chiaro “segno dei tempi”, grazie soprattutto ad una piena intesa «con la pastorale d’insieme delle chiese locali sotto la responsabilità dell’episcopato». Pensando alla possibilità di individuare, per l’intero istituto, alcune linee generali d’orientamento in merito alla sua attività, non vorrebbe che entrassero in conflitto con le più urgenti necessità locali. L’ultima conferenza generale, a questo riguardo, si era limitata solo a qualche generica direttiva.

La progressiva scomparsa, in alcune regioni, di significative opere di apostolato potrebbe anche costituire il segno di una “evoluzione inarrestabile”, causando però, qua e là, una certa dispersione  che «non è certo a vantaggio della coesione dello spirito né dell’efficacia dell’azio­ne». In mancanza di “opere comuni” occorrerebbero almeno “obiettivi comuni” che rispondano «sia al nostro spirito sia ai bisogni reali».

Un’eccessiva “disponibilità” potrebbe configurarsi anche come una “maschera per la comodità”; padre Dehon certamente «non la pensava così»; la sua “disponibilità”, pur accettando generosamente ogni richiesta di servizi, non perdeva mai di vista la priorità degli “obiettivi”.

C’è da sperare che la revisione delle costituzioni possa favorire «una seria riflessione su questo importante argomento»; infatti, sono in gioco la coesione delle province e dell’istituto, il risveglio e la perseveranza delle vocazioni e, più ancora, «la fedeltà dell’istituto alla chiesa e al Cuore di Cristo». La seconda fase del sessennio in corso «non dovrebbe costituire una curva discendente, ma una risalita da affrontare insieme».

È giunto il tempo di lasciare alle spalle non solo la prospettiva di una “apologetica inquieta” e molto spesso sterile e inefficace, ma anche una problematica generica, imprecisa e debilitante; più che mai è urgente «intenderci su obiettivi precisi, chiari, concreti, limitati, ma liberamente scelti, perché conformi alla dinamica di una fedeltà autentica».

Il lavoro di revisione delle costituzioni condizionerà inevitabilmente tutta l’attività dei prossimi tre anni durante i quali «verrete interrogati e chiamati al coraggio di una scelta personale e comunitaria per dare o ridare all’istituto la sua figura nella chiesa e nel mondo di oggi; posso confessarvi, conclude Bourgeois, che dopo questi tre anni di visite e di incontri, questo mi sembra un compito tanto appassionante quanto difficile, al quale non ci possiamo sottrarre, ma per il quale sappiamo di poter contare sull’amorosa assistenza del Cuore di Gesù».

In occasione del Natale 1971 viene inviato un messaggio molto breve come “doverosa espressione dei sentimenti di amicizia”; nessuno, però, «sarà dimenticato o confuso nell’anonimato della massa». Da parte del superiore generale non c’è la pretesa di conoscere tutti i confratelli “a prima vista”; però può dire con sicurezza che sarebbe in grado di individuare e collocare ogni confratello «là dove l’ha incontrato, visto o ascoltato». La sua conoscenza dell’istituto deriva proprio dai numerosi incontri personali, alcuni dei quali sono stati per lui “una vera occasione di luce e di conforto”.

Può assicurare con certezza di aver chiara davanti a sé la fisionomia delle singole comunità; in ognuna di esse è possibile vedere un’opera, un insieme di servizi per la missione, sia essa una parrocchia, una scuola, un’opera sociale, un’opera di studi, di ricerca, di apostolato missionario, di apostolato spirituale, di apostolato della preghiera e della sofferenza.

C’è davvero una grande ricchezza nella varietà. Anche se, per onestà, non mancano insufficienze, è convinto che il Signore non solo “sa apprezzare i nostri sforzi”, ma anche, contro ogni forma di pessimismo, sa “benedirne realmente i frutti”. In ogni caso è importante non solo «saper riconoscere gli aspetti fondamentali, i veri criteri di questa unità», ma anche saper «rivalorizzarli all’interno delle tante diversità».

Nel 1972 si riuniranno i capitoli provinciali in preparazione di quello generale del 1973. Non potendo anticipare nulla del programma dei prossimi mesi, fin d’ora, però «possiamo e dobbiamo cominciare a pensarci nella nostra preghiera e farne oggetto delle nostre aspirazioni». Ogni anno padre Dehon, in occasione del Natale, «ravvivava la coscienza e il fervore della sua vocazione d’amore e di riparazione, di dono e di oblazione»; è quanto di meglio si possa augurare, anche oggi, a dei ”Sacerdoti del Sacro Cuore”.

Ecco il nostro papa

Con l’ultima lunga lettera natalizia del 6 dicembre 1978, Bourgeois estende a tutti i suoi confratelli “i saluti, la parola e gli auguri” di Giovanni Paolo II. Insieme ad una novantina di altri superiori generali lo aveva potuto incontrare, per la prima volta, nell’udienza del 24 novembre. Fin dalle prime battute il papa aveva lasciato trasparire l’importanza di quell’incontro con tanti superiori generali espressamente invitati a trasmettere le sue parole ai propri confratelli, arricchendole, ha aggiunto, «con la vostra esperienza e la vostra saggezza».

Se, in tutta modestia, Bourgeois afferma di non avere tutta questa esperienza e questa saggezza, può, invece, testimoniare l’impressione che il papa ha fatto a tutti i presenti. «Mi trovavo, per caso, scrive, nella prima fila e ho potuto seguire, frase per frase, tutte le espressioni del volto e dello sguardo, le più piccole inflessioni e quasi il ritmo della respirazione. L’impressione generale era di sicurezza comunicativa, di equilibrio tranquillo, di forza dolce, di convinzione e di fervore da parte di un testimone, di un pastore e di un padre».

Il discorso del papa era articolato in quattro punti. Il primo riguardava la vita religiosa come via alla santità, attraverso l’amore vissuto e realizzato nei consigli evangelici. Non si tratta, ha detto, «di una santità astratta, ma di quella che trova, in ogni istituto, il proprio modello e prototipo nella figura del fondatore, sia egli già canonizzato o non ancora, col suo carisma particolare». Più che al passato, il papa intendeva riferirsi alla vita della Chiesa, nella sua dinamica più profonda, «alla vita quale si presenta ai nostri occhi oggi, portando con sé tutta la ricchezza del passato, consentendoci di beneficiarne oggi».

Il secondo punto era incentrato sulla “chiesa di oggi”, un’espressione che, in Bourgeois, ha evocato immediatamente un altro “oggi”, quello di Dio di cui parla la nostra regola di vita. La vocazione religiosa,  ha detto il papa, è “uno dei grandi problemi”. Rifacendosi alla “Evangelii Nuntiandi” di Paolo VI, ha accennato non solo al dinamismo della chiesa, assetata dell’assoluto di Dio, chiamata alla santità, desiderosa di abbandonarsi al radicalismo delle beatitudini, ma anche alla “totale disponibilità” di cui la vita dei religiosi deve essere testimonianza “per Dio, per la chiesa, per i fratelli”.

“Testimonianza” e non “contestazione”, “testificatio sic, contestatio non”, ha ribadito il papa. Con voce particolarmente grave e risoluta ha aggiunto che «su ogni comunità, su ciascun religioso pesa una responsabilità particolare per quanto  riguarda l’autentica presenza di Gesù nel mondo attuale, di Gesù mite e umile di cuore, crocifisso e risorto, il Cristo in mezzo ai fratelli». Lo spirito del “massimalismo evangelico” è totalmente diverso da qualsiasi “radicalismo socio-politico”.

Nel terzo punto il papa ha fatto un breve riferimento al documento “Mutuae relationes” tra i vescovi e i religiosi nella chiesa, un documento (del 14 maggio 1978) “molto importante”, a cui dovrà essere prestata una particolare attenzione negli anni a venire. In effetti, non vi è missione ecclesiale che non dica relazione a una o a più chiese locali. La “vocazione della chiesa universale” si realizza nel quadro della chiesa locale; proprio per questo anche la vita religiosa va collocata in una nuova e più ecclesiale prospettiva.

Il quarto e ultimo punto “fondamentale nella vita di ogni religioso, qualunque sia la famiglia alla quale appartiene» ha detto il papa, è quello «della dimensione contemplativa e dell’impegno della preghiera». Proprio a proposito di questo quarto punto, osserva Bourgeois, il papa gli è parso “particolarmente eloquente, convinto e convincente” soprattutto quando ha precisato che «i superiori non devono aver paura di ricordare frequentemente ai propri confratelli che un momento di “vera adorazione” ha un valore più grande e produce più frutti di qualsiasi attività apostolica; è questa la contestazione più urgente che i religiosi dovrebbero opporre a una società nella quale l’efficienza è diventata un idolo a cui, troppo spesso, si rischia di sacrificare anche la stessa dignità umana. Nulla come la preghiera può favorire la generosità missionaria e l’autenticità evangelica nella vita religiosa».

Senza perdersi in dettagli giuridici o disciplinari, questo testo, commenta Bourgeois, «ci porta all’essenziale e all’indispensabile, alla grande realtà della nostra consacrazione». Rivolgendosi ai confratelli, spontanea l’esclamazione: ”Ecco il nostro papa”. Al termine dell’udienza non gli è stato difficile farsi riconoscere da Giovanni Paolo II; è bastato ricordargli la sua visita a Cracovia, alle case e ai confratelli molti dei quali personalmente conosciuti dal card. Wojtyla che, oltretutto, «aveva presieduto la celebrazione del nostro centenario a Stadniki».

Come strenna natalizia, il superiore generale trasmette a tutte le comunità il discorso integrale del papa invitandole a rileggerlo e a meditarlo; non ci poteva essere “un augurio più appropriato” in questo Natale che cade, oltretutto, tra il centenario dell’istituto da una parte  e il capitolo generale dall’altra.

In un postscriptum viene ripreso l’intero paragrafo del papa sulla preghiera:  «Le vostre case devono essere prima di tutto centri di preghiera, di raccoglimento, di dialogo personale e comunitario con Colui che è e deve restare il primo e principale interlocutore, nella successione laboriosa delle vostre giornate. Se saprete alimentare questo “clima” di intensa e amorosa comunione con Dio, vi sarà facile realizzare, senza tensioni traumatiche e dispersioni pericolose, quel rinnovamento della vita e della disciplina che vi chiede il concilio ecumenico vaticano II. L’anima che vive in un’unione abituale con Dio e agisce sotto il raggio pieno di calore del suo amore, è sicuramente in grado di sottrarsi alla tentazione dei particolarismi e delle opposizioni che fanno correre il rischio di dolorose divisioni; sotto la vera luce del Vangelo, ella sa vivere la scelta in favore dei più poveri e di tutte le vittime dell’egoismo umano, senza cedere a radicalismi socio-politici che, a lungo andare, si rivelano inopportuni, controproducenti e causa di altre ingiustizie; ella sa avvicinarsi alla gente, vivere in mezzo al popolo, senza mettere in questione la propria identità religiosa, e senza mortificare “l’originalità specifica” della propria vocazione che deriva dalla particolare maniera di essere alla sequela di Cristo, povero, casto e ubbidiente».

Il Sacro Cuore: una devozione superata?

Il superiore generale di una congregazione dedicata esplicitamente al Sacro Cuore non poteva non dedicare una particolare attenzione alle annuali ricorrenze della propria festa titolare. Il primo testo al riguardo è quello del 3 maggio 1968. Prima però di entrare in argomento, sente l’esigenza di rispondere  anzitutto alle reazioni suscitate dalla precedente lettera natalizia del 1967, sforzandosi di “conservarne i pregi” e di “evitarne i difetti”.

Secondo qualcuno le lettere di un superiore generale dovrebbero parlare più direttamente della realtà quotidiana della congregazione. Per quanto legittima, osserva Bourgeois, la richiesta si scontra, però, contro la vastità e la diversificazione tra una provincia e l’altra della congregazione; di fatto è possibile intendersi solo a livello di orientamenti generali; è comunque legittimo attendersi che ogni confratello si senta in qualche modo chiamato in causa da quanto viene scritto; se ciò non avviene è segno che qualcosa non funziona.

Pensando a questa lettera, scritta per la festa del Sacro Cuore, è forse fuori posto supporre che anch’essa debba riguardare comunque la vita quotidiana della congregazione? E’ un dato di fatto che, qua e là nell’istituto, «la festa del Sacro Cuore, paradossalmente, sembra non avere una buona accoglienza». Può capitare allora che per “falsa vergogna” o per “reale convinzione”, vi si eviti ogni esplicito riferimento «sia nella riflessione spirituale che nella preghiera».

Del resto, secondo qualcuno, si dovrebbe ormai accettare tranquillamente la scomparsa di certe espressioni come “Sacro Cuore” e “devozione o culto al Sacro Cuore”. Sono punti di vista sui quali quanto meno si potrebbe discutere. È molto meno comprensibile l’atteggiamento di qualche confratello convinto che sia «difficile dimostrare che una spiritualità possa costituire la ragion d’essere di un istituto religioso». Se invece di spiritualità si parlasse solo di apostolato, tanto varrebbe, allora “fondersi” con altri istituti apostolici; ma, premesso che una fusione del genere sfocerebbe facilmente nella confusione, è quanto mai giustificata l’impressione di voler “buttare l’acqua con il bambino”.

A ben guardare, con discorsi del genere ciò che viene messa in discussione non è solo la “ragione d’essere” di una congregazione che vive di una particolare “spiritualità” legata al culto del S. Cuore, ma anche un “patrimonio” spirituale atto a testimoniare nella Chiesa, secondo il concilio, determinati valori spirituali e apostolici.

Il problema, per la verità, è stato suscitato soprattutto da alcuni confratelli più direttamente impegnati in campo apostolico. Secondo loro, espressioni come “Cuore di Gesù”, “oblazione”, “riparazione” sconfinano in uno “spiritualismo disincarnato”; viceversa, gli stessi confratelli, si trovano pienamente a loro agio ogni qualvolta entrano in gioco i problemi della pace, della fame, della catechesi, dell’azione sociale, della promozione umana, della “Gaudium et Spes”, del Regno di Dio da costruirsi, in un certo senso, a “forza di braccia”; in altre parole, a loro interessano sostanzialmente «la missione della chiesa, la salvezza dell’uomo e conseguentemente l’attività apostolica».

Non si può negare, per la verità, che uno “spiritualismo pietista e disimpegnato” possa tentare a volte alcuni religiosi e che una certa presentazione della devo­zione al Sacro Cuore, dell’oblazione e della riparazione, ne sia del tutto esente. Quante volte, per altro, «si è potuto credere di poter amare senza operare, offrire senza faticare e riparare senza cambiare mai nulla»; ma è altrettanto vero che «l’amore, l’oblazione, la riparazione trovano il loro completamento autentico e teologica­mente fondato nel culto, nella preghiera e nell’accettazione della sof­ferenza e che tutto questo può costituire una “vocazione” particolare per determinate persone o in certi momenti della vita».

Se “nella casa del Padre vi sono molte mansioni”, non è detto in partenza che si tratti solo di “spiritua­lismo pietistico e quietista”; anzi,  «nell’insieme, non siamo per nulla minacciati da questo “quietismo”»; basta sfogliare l’elenchus per rendersi conto «della molteplicità, dell’importanza relativa ma reale e della varietà dei nostri impegni».

La prospettiva apostolica «occu­pa a buon diritto il primo posto nelle nostre preoccupazioni». L’istituto non vive assolutamente ai margini della chiesa e del mondo; si trova sulla stessa linea dello sforzo spirituale e apostolico del padre Dehon. Tutto questo è sostenuto da una “spiritualità”, cioè da una particolare lettura del vangelo, da un certo sguardo sul Cristo, da un’attenzione particolare per determi­nati valori, atteggiamenti spirituali tradizionalmente espressi con le parole: “oblazione, spirito di riparazione e d’immolazione, vita d’amore”. Qeste espressioni, in certi paesi, incontrano difficoltà e non sono più in grado d’ispirare un’autentica vita spirituale. A volte si rifiuta l’opportunità stessa di una “spiritualità specifica”, per vivere una “vita evangelica” senza ulteriori specificazioni.

Una contestazione dall’Olanda

Tutti que­sti problemi non sono sfuggiti all’attenzione del capitolo generale del 1966, il cui compito principale è stato quello di «discernere ciò che negli orientamenti spirituali dell’istituto può e deve essere sviluppato, per sostenere e nutrire la generosità della vita e dell’attività dei reli­giosi a servizio della chiesa e del mondo».

L’esistenza di un istituto religioso, oggi più che mai, dipende dalla serietà del suo aggiornamento; diversamente si avrebbe a che fare con un “corpo senz’anima”; in tal caso, però, rimarrebbero due alternative: o la fusione con altri istituti o lo scioglimento; fortunatamente «non siamo ancora a questo punto». È risaputo che la vita evangelica non si attua mai senza una propria e concreta accentuazione. La stessa lettura del vangelo comporta sempre un’attenzione diversificata all’uno o all’altro aspetto del volto di Cristo; gli evangelisti stessi, come del resto san Paolo e lo stesso san Francesco, leggono il vangelo con una propria “spiritualità”.

Questa diversa sensibilità non impedisce affatto di «essere cristiani pienamente solidali con la chiesa». Quante volte le difficoltà vengono scambiate come dei falsi problemi. Basterebbe mettere a confronto, con tutta onestà e senza partito preso, attraverso una valida teologia dell’incarnazione e della redenzione, «ciò a cui impegna lo spirito di oblazione e di riparazione con le realtà di un’auten­tica vita apostolica».

A volte basterebbe far ricorso ad una nuova terminologia, magari più ispirata, per superare tante difficoltà; in fondo, dalla spiritualità di un istituto contrassegnato dalla devozione al Sacro Cuore ci si può attendere una cosa sola: saper attingere nell’eucaristia «la forza di un amore oblativo e di comunione col Signore».

La festa del Sacro Cuore dovrebbe essere per tutti l’occasione di una nuova “presa di coscienza”. Tutti gli impegni sono sempre dettati dai bisogni della chiesa e dalle ri­chieste degli uomini del nostro tempo; sono proprio questi impegni che definiscono da una parte «la forma e l’oggetto della nostra oblazione, della no­stra riparazione» e  che costituiscono dall’altra «l’essenza della vita d’amore». Non ci possono essere vero amore, vera oblazione e vero spirito di riparazione, ribadisce con forza Bourgeois, senza «l’aggiornamento del pensiero e dei metodi, l’attenzione ai bisogni delle persone e della comunità, la preoccupa­zione della giustizia, della carità e dell’unità, della fame, della pace e della libertà, di tutto ciò che agita e preoccupa, fino all’angoscia, il nostro mondo e la nostra Chiesa».

Una delle più sentite preoccupazioni del fondatore era quella di «conservare e ridare alla sua vita, alla nostra e a quella dei cristiani, il vero centro di gravità, che è Cristo, in un amore che non s’accontenta di parole, ma che esige tutto il cuore e la vita intera». Mentre i teologi discutono di soddisfazione, di redenzione, d’immola­zione, è certa una cosa: «non è necessario avere risolto tutti i problemi e avere penetrato tutti i misteri per amare, pregare, lavorare, vivere imi­tando il Cristo». Prima di essere una “categoria” teologica, lo spirito di oblazione e di riparazione «è un’esperienza, un atteggiamento interio­re nel quale si manifesta e fiorisce una chiamata, una “virtù” del nostro battesimo».

Che cosa, dunque, sarà la festa del S. Cuore? L’occasione di una “liturgia solenne”, di una più “abbondante refezione”, di una specie di “riarmo morale e spirituale”? Troppo poco! Non basta un bel discorso, una preghiera con qualche nuova liturgia. Dovrebbe essere, invece, «l’occasione di una specie di operazione‑verità per ogni confratello, per ogni comunità e per l’intero istituto». Quale occasione più preziosa di questa, inoltre, per «interrogare la nostra vita stessa e confron­tarla con gli obblighi assunti e con gli orientamenti scelti». Con un simile esame di coscienza «si prevengono a volte le catastrofi e se verificano delle conversioni».

Al termine di questa lunga lettera, Bourgeois domanda scusa, ma “senza troppo rammaricarsi”, per la verità, convinto com’era che per la festa del Sacro Cuore, particolarmente oggi, non ci si può attendere «una circolare bre­ve, manierosa e senza problemi, su un argomento qualsiasi e di moda». E’ una lettera, osserva, sicuramente “impegnativa” non solo per chi l’ha scritta, ma anche per chi la legge. La festa del Sacro Cuore non ha solo, per quanto importante, un valore liturgico. Una volta era, e dovrebbe esserlo ancora, «l’occasione per rinnovare i nostri impegni, i nostri voti, la nostra obla­zione»; ma, più ancora, conclude, «dovrebbe diventare per noi l’occasione per verificare la nostra fedeltà, per risvegliarci dai nostri torpori e dalle nostre facilonerie e per ritrovarci, secondo l’antica e sempre bella espressione: in corde Jesu”.

In un postscriptum, Bourgeois esprime il desiderio – di fatto poi, a quanto mi consta, mai realizzato – di affrontare, nella circolare di Natale, il tema tutt’altro che semplice della “povertà”. Sarà quanto mai riconoscente nei confronti di quanti vorranno inviargli os­servazioni, riflessioni, suggerimenti in proposito. Ma, insieme al postscriptum, c’è anche un lungo e inatteso allegato riguardante la circolare natalizia del 1967. In sostanza,  in quel testo, erano state poste quattro domande tutte imperniate sul problema dell’oblazione.

Sono pervenute una quarantina di risposte da parte di un centinaio di confratelli (dai 30 ai 70 anni) appartenenti a una ventina circa di provincie o regioni. Tra i firmatari ci sono studenti, novizi, fratelli coadiutori, missionari e padri addetti a vari ministeri. Non mancano alcuni testi di “qua­lità”, frutto indubbiamente di un contributo personale e di lunga riflessione. Da ultima, è arrivata anche una lettera della commissione per la “vita religiosa” della provincia olandese.

L’incipit è quanto mai positivo dal momento che si pongono le basi per un dialogo effettivo e promettente all’interno dell’istituto e in piena apertura nei confronti della chiesa e del mondo. Ma subito dopo, non appena si incomincia a parlare di abbandono, di riparazione, di immola­zione, di oblazione, si cade in un mondo di “astrazioni”, assolutamente prive di forza ispiratrice e ormai rimosse dal proprio vissuto; si tratta di una terminologia superata e improponibile; non ha più senso oggi parlare di un “carattere pro­prio della congregazione”; esiste una sola spiritualità, quella “evangelica”. Alla base della coscien­za religiosa attuale, conclude il testo, vi è un solo “desiderio fondamentale”: quello di lavorare alla costruzione della chiesa e del mondo in piena solidarietà e disponibilità.

Una risposta indiretta a questa “contestazione” la si può forse trovare nella sua lettera del 6 maggio 1969 là dove si afferma che la festa del Sacro Cuore rischia di diventare, di fatto, “un pretesto di evasione e un diversivo”, fino a chiedersi «quale significato e quale accoglienza possa avere anche da parte dei religiosi in un mondo così secolarizzato e secolarizzante come quello attuale»; eppure, anche in un mondo del genere, osserva Bourgeois, come non riconoscere la validità dell’amore “occulto e implicito” verso Dio di cui «danno testimonianza anche i non credenti, la cui rettitudine e generosità sono a volte per noi motivo di rimprovero?».

Certamente, però, «come cristiani, come sacerdoti, come religiosi e in particolare come sacerdoti del Sacro Cuore, non possiamo riconoscerci solo nell’amore “implicito e occulto”; non ci basta». Al di là delle discussioni “altisonanti”, «l’unica ragione che giustifica i nostri impegni, il nostro stile di vita, la nostra fedeltà, non è e non può essere che quella di un amore personale a Cristo».

L’esperienza insegna, anche in modo assai doloroso, che «dove si affievolisce l’amore personale a Gesù Cristo, un po’ alla volta viene meno anche il senso della propria consacrazione al regno di Dio». In un mondo che sta secolarizzandosi «non possiamo scordare soprattutto di essere testimoni viventi dell’amore personale di Gesù Cristo»; ma per essere testimoni “veraci e autentici” «non bastano la filosofia, la sociologia o una qualsiasi altra scienza; sono necessarie la preghiera, l’orazione, l’adorazione; è la nostra “ragione di essere” nella chiesa e nella società».

Non ci si dovrebbe mai stancare di ricercare le condizioni più adatte «per poter vivere realmente l’amore di Gesù: un amore vero e senza alibi, un amore che di per sé sarà riparatore in tutti i significati che può avere questo termine nella sana teologia, un amore che porta alla dedizione e al servizio».

“Scelte apostoliche, non chiacchere”

La festa del Sacro Cuore del 1970, Bourgeois la celebra a S. Paolo del Brasile. In un messaggio del 28 marzo, scrive che il lungo viaggio che sta compiendo nelle province e regioni scj dell’America Latina, gli «lascia appena il tempo e la possibilità di scrivere solo un breve e semplice messaggio di amicizia».

Sono passati tre anni dalla sua nomina a superiore generale, «tre anni brevi, ma ricchi di esperienze e di informazioni»; è un tempo sufficiente per capire una cosa importante, e cioè che «la prosperità o la decadenza delle nostre province, è strettamente condizionata dalla loro fedeltà alla devozione al Sacro Cuore; tutto ciò che costituisse per noi abbandono, dimenticanza o disprezzo di questa vita, si risolverebbe in un indebolimento, un de­perimento e, a volte, nonostante certe apparenze o spe­ranze, in una specie di cammino, lento o rapido, verso la morte».

Basterebbe rileggere gli insistenti richiami del fondatore per capire che «fedeltà e vitalità vanno di pari passo». Fanno impallidire tutte le “saccenti argomentazioni” con le quali «si cerca di convincere che l’istituto sia incamminato in una falsa dire­zione»; ci si dovrebbe interrogare, piuttosto, su ciò che stanno diventando «i nostri religiosi, le nostre comunità, le nostre province in cerca di altre strade»; senza un’adeguata chiaroveggenza, l’unica alternativa rimane sempre quella di “vita o morte”. È risaputo che padre Dehon, pensando ai membri dell’istituto, ha sempre avuto le idee molto chiare: «il valore e l’efficacia della loro azione sarebbero dipesi dal loro “essere religiosi” e non dalle loro “abilità”».

Da qui la sua continua insistenza «sull’unione personale con il Signore, sul senso dell’oblazione e sulla disponibilità fino all’immolazione, sullo spirito di preghiera, in particolare sull’adorazione, sulla ispirazione riparatrice che dovrebbero contrassegnare tutta la nostra preghiera, la nostra attività e la nostra vita»; purtroppo “non tutti intendono questo linguaggio». Dopo tre anni di visite e di riflessione sulla vita dell’istituto, osserva, «questa è la mia convinzione personale e profonda».

Scrivendo dal profondo del cuore dell’America Latina e in particolare dal Brasile, può comunque serenamente affermare di aver scoperto la “terra dell’avvenire” già in atto. «Proprio qui ho ricevuto dal popolo, dal clero e dai nostri stessi religiosi delle grandi lezioni di fede e di fedeltà che fanno impallidire i nostri ragionamenti e le nostre prospettive di occidentali, troppo presuntuosi e sicuri della loro scienza».

La lettera si conclude con l’auspicio che l’istituto possa e sappia sempre operare in queste “prime linee” della chiesa, distinguendosi non solo per la sua generosità, il suo senso di adattamento e la sua efficienza tecnica, ma anche e soprattutto come un luogo dove «si prega, ci si sente uniti, si ama veramente con lo stesso amore del Cuore di Gesù Cristo»; tutto il resto, conclude, «ci sarà dato in sovrappiù, comprese le vocazioni».

La successiva lettera per la festa del Sacro Cuore (24 maggio 1972), coincide con un anniversario del tutto particolare: quello della istituzione, nel 1672, su richiesta di san Giovanni Eudes, della prima festa liturgica in onore proprio del Sacro Cuore. Purtroppo, osserva Bourgeois, anche questo anniversario rischia di passare del tutto “inosservato” in un tempo cui le devozioni non sono più quelle di una volta.

Per i sacerdoti del Sacro Cuore, invece, rimane sempre la festa patronale, il “tesoro più prezioso” lasciato dal fondatore, anche se i suoi figli oggi, da quanto emerge dall’inchiesta del CIRIS, non ne sono del tutto convinti; tanto è vero che per alcuni di loro questo “tesoro” è un titolo «sempre più svalutato, da confinare nelle casseforti della storia o da mettere sul mercato come un’anticaglia». Non ci si dovrebbe “sbarazzare” con tanta disinvoltura di una simile eredità; oltretutto la festa del Sacro Cuore è rimasta nel calendario ufficiale; anzi, dopo tre secoli di storia, é stata arricchita di un nuovo formulario.

Si parla tanto oggi di “missione”; padre Dehon stesso ne ha parlato a lungo; eppure, la sua insistenza era su Gesù Cristo, sul suo amore fino a diventare una “via privilegiata” per la piena comprensione del carisma dell’istituto. Tutta la sua vita e la sua attività sono riconducibili ad un grande sforzo di “ricambio di amore” con il Cristo. Proprio in forza di questo spirito di amore ha voluto inviare i suoi religiosi non solo ai congressi sociali – di cui Dehon stesso era stato uno dei più convinti animatori – ma anche nelle foreste dell’Africa e dell’America.

Volendo trovare una “etichetta d’autenticità” delle sue scelte apostoliche, non servono le chiacchiere e neppure la profondità delle idee; servono invece “il respiro e la profondità dell’amore”, il battito del Cuore di Gesù che se anche appartiene a tutti «è parte integrante della nostra comune eredità». Tutte queste sollecitazioni sono presenti nel “testamento spirituale” di padre Dehon; anche se “caduto stranamente in disuso” e apparentemente lontano dalla realtà di oggi, rimane sempre, comunque, il “suo progetto spirituale”, nel quale è possibile trovare  “lo scopo della nostra vita e della nostra missione”.

Pur se convinto, come afferma nella lettera del 3 maggio 1974, di non aver “abusato” in fatto di lettere circolari, Bourgeois non poteva lasciar passare anche la “sana tradizione” della festa del Sacro Cuore senza farsi sentire. Da un anno ormai, e cioè dall’ultimo capitolo generale, tutti hanno tra mano la nuova regola di vita, un testo quanto mai legittimato e autorizzato «da non relegare, però, in biblioteca o in archivio».

Il riferimento all’esperienza di fede di padre Dehon e al fine fondamentale della congregazione da una parte e alle “attese del mondo” dall’altra, è garanzia di una “fedeltà dinamica e creatrice” da parte delle province, delle comunità e di ogni singolo religioso. Questo nuovo testo è “profondamente fedele” al progetto del fondatore. Bourgeois è convinto che anche lui vi riscontrerebbe tutte le sue grandi preoccupazioni “spirituali e apostoliche” dal momento che il “centro dinamico” di tutto rimane sempre il Cuore di Gesù.

La festa del Sacro Cuore quest’anno, oltretutto, si inserisce nella prospettiva dell’anno santo, un anno, cioè, di conversione e di riconciliazione. Dal momento che la regola di vita, sollecita tutti ad essere “profeti dell’amore” e “artefici della riconciliazione”, non ci si dovrebbe sentire degli “estranei” di fronte a tutte le iniziative promosse dalla chiesa in questo tempo straordinario.

Tutte le comunità sono invitate a “ricercare e a testimoniare” non solo il rinnovamento e la conversione del cuore, ma, più ancora, «la verità dell’azione e l’autenticità della testimonianza di vita». L’anno santo si colloca proprio tra le due feste del Sacro Cuore del 1974 e del 1975. Tutte le province sono invitate a decidere del loro futuro. I direttòri provinciali scandiranno una “pietra miliare” per il comune cammino.

La celebrazione liturgica della festa  del Sacro Cuore dovrebbe essere vissuta in un atteggiamento di fiduciosa amicizia. «Celebriamola liturgicamente, là dove possiamo, come una “sana tradizione”, ma soprattutto come un’occasione e un mezzo per rinnovarci in quella “contemplazione” che deve, sempre secondo la regola di vita, “rafforzarci nella nostra vocazione”.

Sempre vicino ai suoi confratelli

Anche se il breve messaggio del 14 maggio 1975 per l’imminente festa del Sacro Cuore, a causa delle traduzioni, arriverà un po’ in ritardo, tuttavia Bourgeois non vuole venir meno a questa “buona e fraterna tradizione”; è un’occasione preziosa per esprimere il suo augurio e la sua amicizia nell’amore del Signore che «ci rende fratelli ben più del semplice fatto di trovarci tutti iscritti nello stesso elenchus». Anche se lontani, in patria o all’estero, questa festa è sempre “stimolante” per tutti.

L’augurio non può essere che quello di sempre: prendersi del tempo per guardare “Colui che è stato trafitto”; questa è la sola “direttiva generale” che si sente di dare a tutti i suoi confratelli, ben sapendo che «questo è già molto e costituisce l’essenziale». Non si preoccupa più di tanto di ciò che dice la regola di vita a proposito delle “modalità del nostro inserimento nella missione ecclesiale”.

Sa benissimo che chi vivrà «fissando il suo sguardo su Colui che è stato trafitto», troverà facilmente tutte le “modalità” pienamente rispondenti alla situazione attuale. Se questa è stata la strada di padre Dehon, «perché non potrebbe essere anche la nostra, per vocazione e per grazia, oggi come ieri e come domani?».

Dopo aver partecipato, soprattutto nell’anno in corso, a tante riunioni e assemblee provinciali e regionali, Bourgeois avverte l’esigenza di vivere, a livello di congregazione, la “piena unione con Cristo”, per amare, come Lui, “in opere e verità”. Di fronte a tanta convinzione e a tanto fervore, confessa, però, di aver provato, nel cuore e nella vita, una specie  di “choc”. Le tante debolezze riscontrate nei suoi incontri, sono state per lui «il miglior segno dei tempi dell’azione di Dio nella nostra congregazione e nella vita della chiesa». Se tutto questo fosse frutto di una sua “personale illusione”, allora, si sentirebbe in dovere di ringraziare doppiamente il Signore.

Certamente, in congregazione, non mancano i problemi; insieme ai settori “freddi o tiepidi”, abbondano i “punti caldi”. E’ nota a tutti la situazione preoccupante dello Zaire, del Mozambico, del Cile, dell’Argentina. Questo è uno stimolo in più per ogni comunità, provinciale o locale, per riorganizzarsi e rivedere il proprio stile di vita in conformità con il progetto comune dell’istituto; così facendo non si dovrebbe lasciare spazio all’inerzia anche se, forse, potrebbe sollevare non pochi interrogativi»; ma Bourgeois è confortato dal fatto che, nella misura in cui i confratelli sapranno dare il primo posto “al principio e al centro della propria vita”, sarà possibile accogliere e vivere, come dice la regola di vita, “l’oggi di Dio”.

“Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). In questo modo “insolito e curioso”, come dice lui stesso, Bourgeois inizia la sua lettera del 5 maggio 1976 per la festa del Sacro Cuore; sono parole che «mi si sono imposte come un richiamo, un appello e forse anche come una specie di rimprovero». Leggendo e meditando sulla vita del fondatore, sui suoi numerosi scritti, è facile intuire la sua determinante attrattiva per la fondazione dell’istituto.

A ben guardare è un’attrattiva che si trova all’origine della vocazione anche dei suoi religiosi. Tutti, un giorno, “nonostante le distrazioni, le obiezioni, le discussioni e forse anche i compromessi”, in un modo o nell’altro, magari davanti a un’immagine del Sacro Cuore, hanno sentito questo appello; ma è anche un rimprovero, un “dolce rimprovero”; del resto, davanti alla croce del Signore e al Cuore di Gesù, chi non si sente confuso e insieme consolato? Ma qualunque cosa ci venga rimproverata, come dice l’evangelista Giovanni, “Dio è più grande del nostro cuore”.

Bourgeois vorrebbe raggiungere, uno a uno, tutti i suoi religiosi, là dove si trovano: «missionari, lavoratori, professori, predicatori, confessori, o anche ammalati, infermi, isolati e forse persino dimenticati». Premette subito di non aspettarsi una risposta agli interrogativi, alla soluzione dei vari problemi e, meno ancora, agli orientamenti pratici per eventuali “scelte politiche”; non si soffermerà nemmeno sulla situazione del mondo, della chiesa o della congregazione. Dopo aver ricordato che ci sono molti modi di “essere attirati” dal Signore, ritornando indietro di cent’anni, non può non evocare proprio il momento in cui a San Quintino padre Dehon decise a tutti i costi di “farsi religioso”.

Dopo questa digressione, Bourgeois ricorda che nel 1976, dalla Trinità alla festa del Sacro Cuore, i superiori provinciali, regionali e il consiglio generale hanno programmato una settimana di riflessione, di scambio e di preghiera in vista degli impegni più immediati dell’istituto. All’ordine del giorno c’è una duplice tematica: l’evoluzione e gli orientamenti delle province e regioni in rapporto alla situazione locale e all’evoluzione sociale, politica, ecclesiale da una parte, la situazione e la problematica vissuta nelle province e regioni relativamente al tema dell’evangelizzazione e giustizia nella vita religiosa dall’altra.

Ma proprio pensando all’importanza del “culto d’amore e di riparazione” nella vita del fondatore, non si può non riconoscere che per molti religiosi «il senso dell’oblazione fino all’immolazione è messo a dura prova»; tanti, comunque, vi «rispondono con speranza, con realismo, coscienti delle loro debolezze, ma senza disfattismo». E’ importante non lasciarsi abbattere dalle prospettive oscure, dai dati statistici o dalla “piramide delle età”. In questo grande corpo che è la congregazione «il cuore è sano, la linfa non manca e ha le sue risorse di generosità e di vitalità».

Pur nella consapevolezza delle proprie numerose debolezze e insufficienze, ci sono sempre tante cose da offrire al Signore: preghiere, lavori, sofferenze, ricerche, sforzi di qualsiasi genere, oblazioni, adorazioni, preoccupazioni comunitarie, senso del sacrificio fino all’immolazione; in una parola: «l’amore vero al Signore che si esprime in tutta la vita, in tutto quello che incontro e trovo così frequentemente nelle mie visite»: in tutto questo non si può non riconoscere “il segno e il sigillo della fedeltà dei suoi confratelli. Il messaggio di quest’anno per la festa del Cuore di Gesù vuole essere non solo un richiamo e un appello, ma anche l’espressione di una profonda e viva speranza, una speranza “fermamente fondata” perché radicata nel Cuore stesso del Signore.

La festa del Sacro Cuore 1978, scrive Bourgeois nella lettera del 24 aprile, è la “festa del centenario”. Padre Dehon, proprio in occasione della festa del Sacro Cuore del 28 giugno 1878, ha fatto la sua professione religiosa. Nella cappella del collegio S. Giovanni, «con un puro atto di fede e di abbandono» è iniziata la congregazione. In molte province e regioni non sono mancati momenti di ricerca, di riflessione, di meditazione, di preghiera. In varie parti si sono svolte commemorazioni comunitarie, pubblicazioni, realizzazioni artistiche.

Non sarà facile fare un bilancio di questo centenario nel corso del quale, insieme alla riscoperta del padre Dehon, «ci siamo riscoperti  anche noi come religiosi e come sacerdoti del Cuore di Gesù». Quante volte sono state ripetute queste parole insieme a tutte le testimonianze più ammirevoli sulla personalità sacerdotale del fondatore e sull’attualità e la fecondità del suo carisma.

Anche Bourgeois ha avuto tante occasioni per ringraziare il Signore incontrando i confratelli nelle tante province e regioni visitate. Se è vero che «non mancano zone d’ombra e di incertezza», è certo che esistono tante “buone motivazioni” per sperare; volendo sintetizzare tutto il centenario in una citazione biblica, la si potrebbe sicuramente trovare in quella luce che “brilla nelle tenebre” senza che le tenebre riescano a “soffocarla”. Non va ignorato il fatto, però, che ci sono ancora molti problemi concreti da risolvere nella vita della congregazione. Non mancano, infatti, «situazioni in cui ci si dibatte tra la vita e la morte»; anche per questo non andrebbe mai dimenticata “l’ultima parola” del fondatore sull’adorazione quotidiana, sull’adorazione riparatrice ufficiale, fatta in nome della chiesa.

Grazie a Dio «mai come quest’anno, forse, si è pregato tanto per la congregazione, per le nostre case e le nostre opere, per la nostra fedeltà, per la piena unione dei cuori, nella perfetta obbedienza e nella santa carità, per la gioia del Cuore di Cristo». Quando padre Dehon, nel suo testamento, ricorda l’invocazione di Gesù al Padre: «conserva coloro che mi hai dato», pensava sicuramente «ai suoi figli, a tutte le nostre comunità e fraternità, a tutte le nostre case e le nostre opere apostoliche».

Le sofferenze dei missionari del Congo

Oltre alle lettere indirizzate ai superiori o scritte in occasione sia delle festività natalizie e pasquali che della festa del Sacro Cuore, ne troviamo almeno un’altra metà scritte nelle occasioni più diverse. I mesi di settembre e ottobre del 1967, come sempre, scrive Bourgeois, in quasi tutte le province «segnano la ripresa delle attività». Nell’inizio di un anno scolastico si intravede, in un certo senso, la «freschezza di un mattino di primavera».

L’esperienza insegna, però, che certi inizi luminosi, a volte, «sono seguiti da disillusioni, da difficoltà e anche da insuc­cessi apparenti o reali». Ogni nuovo anno andrebbe sempre accolto da tutti – cristiani, religiosi, sacerdoti – con le migliori disposizioni anche spirituali. Malgrado la lontananza e le reali difficoltà per una concreta partecipazione alla vita dei confratelli, non mancheranno comunque, assicura la sua vicinanza e la sua preghiera.

Il consiglio generale si è già messo al lavoro. Quanto prima verrà inviata tutta una serie di documenti riguardanti il funzionamento del consiglio generale, gli statuti del segretariato delle missioni, dei segretariati provinciali e della commissione generale dell’attività missionaria; non mancheranno, inoltre, insieme ad un calendario con i vari appuntamenti, anche alcune direttive sullo svolgimento delle visite canoniche.

I1 consiglio generale sta lavorando all’edizione dei documenti del capitolo generale; è in preparazione, inoltre, anche la lettera circolare di Natale imperniata sul “mistero dell’incarnazione oggi”, nella cornice dell’anno della fede, aperto dal papa ancora il 29 giugno. Come si vede, il lavoro non manca ed è sufficiente, senza dubbio, per tenersi occupati con serietà fino alla conferenza generale del 1969. Il consiglio generale si mette d’impegno e con coraggio, ma, cosciente dei suoi limiti, conta naturalmente di fare sovente appello alla colla­borazione indispensabile di tutti e di ciascuno.

Prima di partire per il Congo, nella lettera di fine gennaio 1968, Bourgeois, dopo il ringraziamento per gli auguri natalizi e per il nuovo anno, ricorda due date importanti nella vita del fondatore: il 125° anniversario della sua nascita e il centenario della sua ordinazione sacerdotale  del 1° dicembre1868. Proprio in ragione di questi anniversari alcune province hanno già programmato un anno di riflessione sul carisma del fondatore e sulla sua attualità nella nostra vita. Il 28 gennaio parteciperà alla consacrazione episcopale di mons. Fataki, successore di Mons. Kinsch a Kisangani; subito dopo visiterà la provincia “particolarmente provata” del Congo, augurandosi di poter fare anche un breve scalo in Cameroun.

Proprio pensando a tutti questi appuntamenti, «il programma dei miei viaggi, afferma, è molto intenso» e chiede scusa per la concreta impossibilità di rispondere a tutte le richieste di una sua visita; prega, anzi tutti i suoi religiosi di credergli quando afferma di essere molto rammaricato per i tanti “forzati ritardi” delle visite precedentemente programmate. Si impegna comunque a fare periodicamente delle brevi relazioni sui suoi viaggi, cercando di «cogliere e mettere in luce i problemi e la vita concreta di ogni provincia o regione».

Prima di chiudere questo breve scritto, ricorda l’invito dell’ultimo capitolo generale a incrementare sempre di più una reciproca informazione tra tutte le entità «della nostra già estesa congregazione». Pur nella diversità delle situazioni, «tutti dob­biamo portare, nel nostro pensiero e nella nostra preghiera, i problemi concreti e attuali dei nostri fratelli, in modo da realizzare, a livello dell’intero istituto, il “sint unum” tanto caro al fondatore».

Non appena rientrato dal Congo, scrive Bourgeois il 25 marzo 1968, «eccomi al tavolo di lavoro per ordinare le mie osservazioni e le mie riflessioni». Mai come in questa regione l’attività missionaria, in questi ultimi anni, «è stata per noi oggetto di tante preoc­cupazioni, luogo d’immense sofferenze e oggetto di riflessioni e di ango­sciosi appelli». Ha promesso ai missionari del Congo di informare tutta la congregazione della reale situazione di questa terra di missione.

Avrebbe tante cose da dire a proposito di un paese immenso “dove tutto assume aspetti smisurati” e dove ha trovato «mirabili testimonianze del grande lavoro compiuto dai nostri missionari; basti pensare ad  una popolazione cattolica nella percentuale quasi del 30%, che invoca i suoi pastori e alle stupende realizzazioni sociali che sono state compiute e che sono considerate dal popolo come il luogo e il mezzo sia della sua promozione umana che della sua salvezza spirituale». Magari, da lontano, si potranno fare “tante critiche”; sarebbe un peccato, però, «non riprendere e continuare (questa missione) nel nuovo contesto dell’attuale realtà congolese».

Le distruzioni e il saccheggio degli edifici sono certamente il risultato più visibile dei “torbidi passati”. Ma ancora più angosciosa, più stridente e più urgente è la mancanza di personale. Nel 1963 la regione congolese, nelle due diocesi di Kisangani e di Wamba, contava 150 religiosi; una trentina di essi ha suggellato con il sangue la propria fedel­tà, avendo fatto la scelta di rimanere sul posto; tutti gli altri sono stati gravemente provati fino al punto, per alcuni, di non potere più né fisicamente né psico­logicamente riprendere in Congo una normale attività.

Ora vi sono rimasti una quarantina di religiosi. Con la disponibilità delle province italiana e statunitense si può sperare di arrivare almeno ad una sessantina di membri effettivi. Anche con la ventina di sacerdoti secolari autoctoni non si raggiunge ancora il “minimum” necessario per una semplice cura pastorale limi­tata ai soli battezzati. In tali condizioni è fin troppo evidente, anche per il sovraccarico di lavoro, il pericolo di esaurimento e di scoraggiamento. La responsabilità episcopale di mons. Fataki «non ci dispensa dalla nostra  corresponsabilità morale e missionaria nell’evangelizzazione e nella cura pastorale di questa regione». Senza misconoscere i bisogni reali delle altre missioni, il Congo rimane una priorità assoluta.

Nonostante la gravità della situazione, «sono stato edificato dalla calma e dal ragio­nato ottimismo dei padri che lavorano sul posto». Anche se le condizioni di salute vanno attentamente vagliate, non si può, tuttavia, dare una contro‑indi­cazione generale alla ripresa dell’attività missionaria in questa regione. Dal momento che questa missione fin dall’inizio è stata affidata alla congregazione e non ad una singola provincia, merita naturalmente l’attenzione di tutte le province. Lo “Spirito di consiglio e di fortezza” sia di sprone a coraggiosi impegni. Fatte salve tutte le prudenze umane, non si può, però, non rispondere alla voce dei poveri e dei piccoli.

Dopo il dolente ricordo del Congo, all’inizio di ottobre del 1968, Bourgeois scrive a tutti i confratelli ribadendo l’importanza della ripresa delle attività nella maggior parte delle province; segue sempre con attenzione lo sforzo generale di un equilibrato rinnovamento e di un conveniente adattamento delle forme di vita, dei programmi e dei metodi di apostolato.

La decentralizzazione, voluta dal capitolo generale, manifesta la sua validità e la sua efficacia soprattutto nella presa di coscienza delle proprie responsabilità da parte  dell’istituto, delle province, delle comunità e delle singole persone. L’auspicio è quello di essere sempre in linea con la “fedeltà dinamica” caldamente suggerita dal capitolo generale. In questo primo anno di generalato, confessa candidamente, gli è stato possibile “imparare tante cose” anche e soprattutto attraverso tutte le visite e la non poca corrispondenza.

La prospettiva di lavoro, per l’anno 1968‑1969, sarà logicamente legata alla preparazione e all’organizzazione della prossima conferenza generale;  la sua efficacia sarà garantita da un’auspicabile e attiva collaborazione da parte di tutte le forze della congregazione. La conferenza generale, come si sa, non è un capitolo; i suoi poteri, infatti, sono solo consultivi e la composizione è lasciata, almeno questa prima volta, al giudizio del consiglio generale, trattandosi di fatto di una specie di consiglio generale straordinario. E’ importante, comunque, che sia la riflessione come la vita dell’istituto, da una conferenza all’altra, da un capitolo all’altro, «si mantengano al passo con i tempi in cui viviamo».

Già fin d’ora, Bourgeois si sente in dovere di ricordare che mancano solo dieci anni dal centenario dell’ordinazione sacerdotale del padre Dehon e della fondazione della congregazione. In questi dieci anni che potrebbero essere “decisivi”, l’istituto dovrebbe trovare il suo “secondo afflato” nel quadro del rinnovamento richiesto dal concilio e imposto dall’evo­luzione del pensiero e dalle necessità attuali. Il “ritorno alle sorgenti” non deve perdere di vista non solo il “fiume” che continua a fluire, ma anche tutti gli ostacoli che incontra e gli adattamenti imposti dalle mutate situazioni.

E’ un fatto che la più grande preoccupazione è quella del reclutamento e dello sviluppo dell’istituto. Per la prima volta le statistiche segnano un regresso numerico su quelle dell’anno precedente; anche se non proprio allarmante, è un fatto che merita la dovuta attenzione. Ma forse, a ben guardare, questa specie di rassegnazione alla realtà, non è il punto essenziale; infatti, l’obiettivo per il 1978 non devono essere principalmente i 4000 o 5000 religiosi, le 20 o 25 province; dev’essere piuttosto «lo sforzo di fedeltà e di fervore, nella chiarezza e nella verità, per un adattamento, quanto più possibile perfetto, dei mezzi al fine».

L’importanza dei “fratelli coadiutori”

All’inizio di marzo del 1969 Bourgeois scrive una preannunciata lunga lettera interamente dedicata ai fratelli coadiutori; si rivolge a loro dopo averli incontrati e visti al lavoro un po’ ovunque nelle case dell’istituto. «Ma perché, si chiede, una lettera ai fratelli?»; potrebbe sembrare paradossale rivolgersi solo a loro in un istituto essenzialmente dedicato alla vita e alla riparazione sacerdotale.

Ogni perplessità al riguardo non ha senso se solo si pensa che statisticamente i “fratelli” costituiscono un gruppo importante nella vita dell’istituto: su un totale di 3178 membri, sono 523, di cui 68 in terra di missione; sono molto diversi per età, per formazione e soprattutto per i tanti uffici loro affidati: giardinieri, muratori, falegnami, idraulici, pittori, sarti, tipografi, rilegatori, calzolai, cucinieri, meccanici, elettricisti, contabili, educatori, professori, assistenti di parrocchia, responsabili dell’insegnamento religioso, dell’azione cattolica, dell’azione sociale ecc…E’ risaputa la loro disponibilità ai servizi più diversi e più umili; mentre i sacerdoti sono tentati da un certo “clericalismo”, da una certa tendenza a “spiritualizzare” il servizio di Dio e a giustapporre vita spirituale e lavoro umano, la vocazione e la fedeltà dei fratelli è un richiamo quotidiano e salutare  per i sacerdoti alla realtà dei fatti.

Anche tra i “fratelli” non mancano naturalmente i problemi legati alla loro diversa età; i più anziani, infatti, «fanno fatica a comprendere i desideri e le ricerche dei più giovani»; i gusti sono inevitabilmente diversi; i cambiamenti nella preghiera e nella disciplina religiosa a volte li lasciano un po’ sprovvisti e sconcertati. Problemi di personalità e di strutture? Entrambi, senza dubbio.

Dopo un breve excursus sulla loro condizione nel passato, in vista del futuro emerge l’esigenza di una seria riflessione proprio sulla vocazione e sulla situazione dei “fratelli” in un istituto fondamentalmente apostolico come quello di padre Dehon. Anche i semplici religiosi sono al servizio della chiesa. Nell’impegno apostolico e missionario della comunità, tutti devono offrire il loro contributo. Il “fratello” addetto alla stalla” o giardiniere che sia, è un collaboratore del confratello professore, del teologo, come il cuciniere lo è del provinciale, come il muratore, l’elettricista o il falegname lo sono del parroco o del direttore della missione.

Anche a proposito di tutte le attività prettamente apostoliche, in base a quanto detto dal capitolo, «nella misura in cui risultano possibili, sono da ritenersi come facenti parte dello sviluppo normale del carisma della vita religiosa dei fratelli cooperatori». Quella dei “fratelli”, infatti, è una vera e propria vocazione che richiede qualità e capacità umane, formazione tecnica, equilibrio e profondo senso religioso.

Proprio per questo, insieme alla responsabilità comune nella missione dell’istituto, va riaffermata anche l’uguaglianza dei diritti e dei doveri quanto meno per tutti i religiosi con voti perpetui. Per motivi pratici, e non per ragioni intrinseche, si è voluto riservare il ruolo del superiore generale e di quello provinciale ai sacerdoti. Tutte le scelte e le responsabilità dovrebbero essere sempre commisurate sulla base della competenza e delle qualità umane e religiose.

Mutando la denominazione da “coadiutori” in “cooperatori” e rivedendo i testi relativi, il capitolo «ha fatto quanto era in suo potere». È necessario, però, superare tradizioni, creare un nuovo spirito, provvedere ad una loro formazione; dipende da tutti indistintamente, “padri e fratelli”, fare in modo che i testi capitolari diano i loro frutti di verità e di carità, in vista della “comunità di vita di tutti i membri” auspicata anche dal capitolo.

Non vanno, quindi, sottovalutati i problemi di vita spirituale dei “fratelli”. Molti di loro «sono turbati per il fatto di non sentire parlare quasi più del culto del Sacro Cuore e dello spirito di riparazione»; coerentemente hanno sempre cercato di consolidare la formula della loro professione religiosa con la preghiera e il lavoro. Certamente tante formule di preghiera possono essere anche cambiate; tante “pratiche” ritenute essenziali nel passato, ora hanno perso di valore.

Non c’è che da rallegrarsi degli orientamenti maturati in capitolo in merito alla vita comunitaria. Tutto ciò, però, «non riempie ancora il vuoto che a volte sentiamo crescere nella nostra vita di preghiera e nella nostra ispirazione religiosa». Perché, ci si chiede, «non si prega più il Sacro Cuore?… l’adorazione e l’ora santa non hanno più importanza di una volta?… non si può continuare a vivere in spirito di riparazione?». Anche il semplice porsi simili interrogativi «non è necessariamente indice di un animo gretto».

Bourgeois è convinto che molti “fratelli” vivendo personalmente questi problemi, solo per modestia o anche per difficoltà di esprimersi «se li tengono per sé, rifugiandosi in una fedeltà segreta e a volte un po’ solitaria». Parlando di “fedeltà dinamica”, il capitolo ha voluto affermare che «non siamo liberi di abbandonare con leggerezza e superficialità l’intenzione e il pensiero del fondatore circa il culto del Sacro Cuore»; in questo culto non c’è solo la spiritualità, ma anche il patrimonio e il carattere proprio dell’istituto.

Il capitolo, non essendo un organismo di ricerca teologica, non ha voluto trattare “esplicitamente e dottrinalmente” del culto del Sacro Cuore, un culto, oltretutto, già ampiamente giustificato dall’insegnamento della Chiesa fino ai documenti più recenti; il capitolo, comunque, ha inteso la sua fedeltà come «una realtà viva che si adatta continuamente ai bisogni della nostra vita e della nostra attività»; tutti gli orientamenti del capitolo sono compenetrati dello spirito di questo culto, la cui sorgente rimane sempre “il costato aperto del Cristo”.

È questa la giusta prospettiva con cui «rileggere i documenti, anche se a volte un po’ difficili, ma suggestivi, che il capitolo ci ha lasciato su questo argomento». Non è esclusa, anzi, la possibilità di nuove formulazioni e di prospettive più ampie per attualizzare l’ispirazione originale della spiritualità ereditata dal fondatore. Sarebbe, anzi, auspicabile che ogni provincia e ogni comunità potesse trovare «un’espressione adatta di preghiera, che sia di aiuto per sostenere questa ispirazione e questa fedeltà, senza la quale noi non saremmo più noi stessi e verremmo meno al nostro fine».

Bourgeois riconosce con tutta onestà che molti “fratelli” «vivono l’oblazione, la riparazione e l’adorazione in pro­fondità, senza tante parole, con fede e amore, come i piccoli e gli umi­li, che sono sempre i primi, i più fedeli e i più sicuri testimoni di Cristo». E’ questa la ragione di fondo per cui padre Dehon ha voluto aggregare i “fratelli laici” ai sacerdoti che era solito radunare per la riparazione sacerdotale. Il capitolo non ha fatto altro che riprendere questa intuizione, consapevole del fatto che la presenza dei “fratelli” può essere, per i religiosi sacerdoti, «un richiamo vivente a molti valori» e, fra tutti, a quello della fraternità.

Proprio qui, al di là di ogni considerazione di opportunità puramente psicologica e sociologica, è possibile cogliere l’ispirazione, la riflessione, gli orientamenti e le decisioni del capitolo. Anche solo la parola “fratelli” ha sempre un timbro particolare di autenticità nella semplicità ed è molto preziosa per tracciare la strada di un difficile equilibrio: quello di un rinnovamento pienamente in sintonia con il nostro tempo.

«Tutti, conclude Bourgeois, dobbiamo molto a voi, sia per la vita quotidiana, sia per il consolidamento e l’avvenire delle opere, sia per l’esempio e la testimonianza sovente silenziosa, ma facilmente comprensibile che ci date. Tutti insieme, uniti in un comune ideale di vita spirituale, religiosa ed apostolica, in un “amore veramente riparatore”, viviamo e lavoriamo alla sequela di Cristo».

Un incoraggiante messaggio dal Brasile

La lettera del 28 marzo 1970 per la festa del Sacro Cuore, è inviata da San Paolo del Brasile dove Bourgeois è impegnato in un lungo viaggio nelle province e regioni dell’America Latina; ha appena il tempo per «un breve e semplice messaggio di amicizia per invitare tutto l’istituto ad una degna celebrazione, soprattutto interiore e religiosa, della nostra festa patronale».

Ripensando agli inizi del suo servizio come superiore generale, può dire con tutta serenità che questi primi «tre anni brevi, ma ricchi di esperienze e di informazioni, mi hanno tuttavia convinto che l’istituto può sperare di continuare ad esistere e a svilupparsi validamente ed efficacemente solo con la fedeltà a una devozione illuminata e umilmente perseverante per il Cuore di Cristo». Per convincersene basta guardare la vita delle varie province; la loro prosperità o la loro decadenza «è strettamente condizionata dalla loro fedeltà a questa stessa devozione e tutte le abili e “opportune” considerazioni non possono certo far passare sotto silenzio certe constatazioni».

Senza pericolo alcuno di ingannarsi, pensa di poter trarre, comunque, una convinta e programmatica conclusione: «se è vero che la vita religiosa non è più autentica vita religiosa se non è vita interiore e consacrazione a Dio per il servizio del Regno, ne consegue che per noi la fedeltà e l’autenticità della vita interiore e della consacrazione sono legate alla fedeltà al Cuore di Cristo e, in modo particolare, allo spirito e alla vita di amore e di riparazione»; in tutti i casi, «tutto ciò che costituisce per noi abbandono, dimenticanza o disprezzo di questa vita, si risolverebbe in un indebolimento, un de­perimento e, a volte, nonostante certe apparenze o spe­ranze, in una specie di cammino, lento o rapido, verso la morte».

Grazie a Dio, in molte province «si è sempre più con­vinti di questa realtà». Fedeltà e vitalità «vanno di pari passo». La fedeltà «non abbandona la realtà per inseguire delle parvenze» e, meno ancora, «lascia il Signore per qualche fantasma privo di vera e genuina consistenza evangelica». I1 pericolo che si può correre oggi non è certo “immaginario”; è quanto mai presente e giustifica la preoccupazione della chiesa nel suo anco­rarsi saldamente “al suo Signore vivo e risuscitato”. E’ la stessa preoccupazione dell’istituto, quella di «riscoprire e di in­trodurre nuovamente nella sua vita il “senso” della pre­senza bruciante del Cuore di Gesù».

Per convincersene, basterebbe rileggere, nonostante lo stile e il contesto datati, gli insistenti ri­chiami di padre Dehon; per la loro pro­fonda incidenza su quanti, almeno, “hanno orecchi per intendere”, questi richiami «fanno impallidire le saccenti argomentazioni con le quali si cerca di convincere che l’istituto, continuando ad ascoltarli e a sforzarsi per viverli, segue una falsa dire­zione». Basterebbe chiedersi semplicemente che cosa potrebbero diventare i nostri religiosi, le nostre comunità, le province se li rifiutassero o cercassero “altre strade”. Mai come ora è giunto il momento di dare prova di grande “chiaroveggenza”, non certo di quella che sa solo “distruggere”, bensì di quella che «è capace di discernere, di riconoscere ciò che è valore fondamentale, insostituibile, condizione di vita o di morte».

È un fatto che padre Dehon ha voluto una congregazione i cui membri sappiano dare testimonianza di «un amore personale e vivo per il Cuore di Gesù»; ha voluto una società i cui membri «siano degli apostoli totalmente penetrati di questo amore, capaci, quindi, di renderne testimonianza nella e attraverso la loro stessa attività».

Era sicuramente preoccupato di come e di quanto sapevano “fare”; ma lo era ancora di più per la loro “qualità di religiosi”. Proprio per questo ha tanto insistito «sull’unione personale e continua con il Signore, sul senso dell’oblazione e sulla disponibilità fino all’immolazione, sullo spirito di preghiera che voleva si manifestasse in un culto eucaristico speciale e in modo particolare nell’adorazione, sull’ispirazione riparatrice che doveva contrassegnare e animare la nostra preghiera, la nostra attività e la nostra vita».

Molto facilmente, osserva Bourgeois, non tutti, forse anche all’interno dell’istituto, sono in grado di comprendere questo linguaggio, accampando il pretesto che non inciderebbe più di tanto sulla loro vita. Ma «noi sacerdoti del Sacro Cuore dobbiamo comprenderlo e renderne testimonianza; esistiamo per questo»; non avrebbe senso, diversamente, accettare nuove vocazioni. Questa specie di “cammino nel deserto” che stanno compiendo alcune province, non può «farci misconoscere questa verità». Dopo tre anni di visite nelle province e di riflessione sulla vita dell’istituto, «questa è la mia convinzione personale e profonda».

È questo, in sintesi, anche il messaggio che arriva «dal profondo del cuore di questa America Latina e in modo tutto speciale di questo Brasile che vado scoprendo con sorpresa come la terra di un avvenire già iniziato». Le grandi testimonianze di fede e di fedeltà ricevute dal popolo, dal clero e dai confratelli, «fanno impallidire i nostri ragionamenti e le nostre prospettive di occidentali, troppo presuntuosi e sicuri della loro scienza».

L’augurio conclusivo è quello di saper operare «là dove c’è bisogno, nelle prime linee della chiesa, distinguendosi  sempre per la loro generosità, il loro senso di adattamento e la loro efficienza operativa»; quanto sarebbe importante che si parlasse di un istituto nel quale «si sa pregare, ci si sente uniti, ci si ama veramente con lo stesso amore del Cuore di Cristo».

La grande inchiesta del CIRIS

La revisione delle costituzioni è il tema centrale della lettera del 15 aprile 1971; un’inchiesta in tal senso era stata sollecitata dal Motu Proprio “Ecclesiae Sanctae” del 6 agosto 1966,, per tutti gli istituti di vita consacrata. La collaborazione di tutti, superiori e religiosi, come si legge nel testo vaticano, «è indispensabile per rinnovare in se stessi la propria vita religiosa, per preparare spiritualmente i rispettivi capitoli, per animarne i lavori e osservare poi fedelmente le leggi e le disposizioni che verranno prese».

A cura dei singoli consigli provinciali, in breve tempo, è stato effettuato  un sondaggio per preparare un primo questionario successivamente ampliato e più dettagliatamente definito con la diretta collaborazione del CIRIS. Tutte le risposte pervenute da 14 province sono poi confluite in un dossier di 900 pagine. Questa grande inchiesta aveva un duplice scopo: aiutare, anzitutto la commissione delle costituzioni a focalizzare la sua attenzione sulla vita della congregazione, e poi suscitare nell’istituto una seria e vasta riflessione in vista dei capitoli provinciali e, alla fine, di quello generale.

Per quanto complesso, il procedimento adottato, afferma Bourgeois, era forse quello “più adeguato” per cogliere, anche con un certo rigore, il parere di circa 3000 persone. I1 questionario, infatti, «potrà sembrare sicuramente voluminoso; si potrà anche essere tentati di scoraggiarsi e forse anche di rinunciare a rispondere», ma alla fine i risultati saranno «di sommo interesse e di grande utilità».

I problemi da affrontare erano particolarmente numerosi. Le lunghe riunioni di studio dedicate alla sua preparazione insieme al CIRIS, fanno capire che una simile inchiesta non si sarebbe replicata tanto facilmente; anzi, prevedibilmente, avrebbe potuta essere anche l’unica occasione «per un’ampia e profonda revisione di vita e di situazione per tutto l’istituto e per ogni provincia, alla vigilia dei capitoli provinciali e del capitolo generale».

Non è stato scartato nessun quesito, neanche «quelli più gravi, a volte i più audaci o apparentemente non pertinenti». Nella scelta delle domande e nella loro formulazione «ci hanno guidato unicamente la dinamica interna di questo genere di inchiesta, le ragioni metodologiche e la preoccupazione di raggiungere il più possibile da vicino la verità e la realtà». Il risultato auspicato non sarà perfetto, ma è il frutto «di uno sforzo onesto fatto per ottenere il meglio».

Nel consultare le province su questo tema, sono stati attentamente calcolati non solo i rischi ma anche  i vantaggi di una simile inchiesta dalla quale, comunque, dovrebbe emergere «il volto reale della vita delle province e della congregazione nel suo insieme». E’ una scommessa aperta «sulla vostra maturità e sulla vostra saggezza», afferma Bourgeois, nella speranza che, con l’aiuto dall’alto, tutti i  rischi si trasformino in vantaggi.

La preoccupazione principale era quella di assicurare il miglior servizio possibile per la vita e la fedeltà dell’istituto; in gioco c’era non soltanto tutto ciò che si dice, ma anche ciò che emerge dal vissuto nei confronti dell’istituto. In tutto questo non c’è nessuna forma di masochismo, ma solo una volontà realistica di “fedeltà dinamica” alla missione profetica di una congregazione religiosa.

Anche alla luce di queste precisazioni, dovrebbe essere ormai chiaro il compito del prossimo capitolo: chiarire i contorni di questa fedeltà, determinandone le condizioni concrete non solo nella “regola fondamentale”, ma soprattutto nell’impegno e nella vita concreta delle province, delle comunità e degli individui. Bourgeois è convinto non solo di poter «scoprire e imparare molto dallo sforzo che ci viene richiesto», ma anche di arrivare ad un’ulteriore chiarifica sullo stato dell’istituto e le sue scelte.

Una risposta valida al questionario dovrà essere preparata e redatta «sotto lo sguardo di Dio e con l’amore stesso del Cuore di Cristo». Anche se il metodo e i risultati vogliono essere scientifici, la finalità invece è prettamente religiosa; tutti sono chiamati ad uno sforzo di fede e di verità fino a sentirsi pienamente responsabili del ruolo e della missione della congregazione nella chiesa.

Naturalmente, la cosa più importante è la serietà dell’esame del questionario a cui tutti dovrebbero sforzarsi di rispondere. Il valore dei risultati, infatti, dipende «da tutti noi». Attraverso questa inchiesta «daremo testimonianza non solo della nostra reale appartenenza all’istituto, ma anche e soprattutto della nostra preoccupazione di vederlo vivere e rinnovarsi nella verità».

In attesa del capitolo generale del 1973

La lettera del 3 febbraio 1972 è interamente dedicata al nuovo capitolo generale, la cui apertura dovrebbe coincidere con il termine del mandato dell’attuale amministrazione generale e cioè il 6 giugno 1973. Sarà celebrato a Roma, in una casa della congregazione soprattutto “per i vantaggi pratici che difficilmente si potrebbero trovare altrove”. All’ordine del giorno, insieme all’elaborazione e all’approvazione della regola di vita e delle costituzioni, è prevista anche l’elezione della nuova amministrazione generale.

Come sempre, la vera preparazione è soprattutto quella di ordine spirituale; è indispensabile per avere «idee chiare e conoscere ciò che la partecipazione e la corresponsabilità comportano e fino a che punto impegnino gli individui, le comunità, le province; inoltre è necessario avere presenti le diverse istanze di “governo». Liberi della libertà dei figli di Dio, «ci sentiamo tuttavia responsabili di un patrimonio, di cui il capitolo generale dovrà mettere in luce e sviluppare tutta la forza creatrice e la fecondità». I1 consiglio generale è ben consapevole della sua diretta responsabilità per il perseguimento di un tale obiettivo.

L’elaborazione della regola di vita e la revisione delle costituzioni sono cariche di  interrogativi. Il capitolo è chiamato a decidere l’orientamento da dare alle esperienze in atto, a pronunciarsi sulle condizioni essenziali e necessarie per la loro validità nella congregazione e a “verificare i carismi” qualora ce ne fossero; tutto questo senza “soffocare lo Spirito” e senza farsi troppe illusioni sulla realtà e sulle motivazioni che sono a monte.

Ogni singola provincia dovrà prevedere gli argomenti che interessano più da vicino la sua organizzazione e la sua vita. Nessuno può disinteressarsene e astenersi non solo dal partecipare alle elezioni, ma anche dal collaborare nella ricerca e nella riflessione. La partecipazione di tutti, in base alle proprie possibilità e alle specifiche competenze, deve essere considerata un “segno e un criterio di fedeltà e di reale e fattivo inserimento nella provincia”.

Le elezioni del nuovo direttivo generale, poi, dovranno assicurare alla congregazione gli organismi necessari per una comunità internazionale. È un aspetto fondamentale. Non basta, infatti, definire l’ispirazione e gli obiettivi di una comunità internazionale senza curarne scrupolosamente l’organizzazione interna e determinarne gli orientamenti. Un programma e un’organizzazione valgono quanto gli uomini incaricati di portare a compimento l’obiettivo prefissato.

Al momento, possono bastare questi brevi accenni.  Ora rimane solo la messa in moto dei singoli capitoli provinciali. Dalla disponibilità già dimostrata a questo riguardo, ci si può aspettare molto solo se accompagnata non solo da una piena consapevolezza comunitaria, ma, più ancora, da un reale e convinto spirito di preghiera. Grazie all’aiuto dello Spirito Santo sarà possibile assicurare l’unione nella diversità, riscoprendo i punti d’incontro, riunendo le energie ed avvicinando i cuori. Ogni altro spirito o idea trionfalistica o di vittoria «non possono venire che dall’uomo, dal “vecchio uomo” di cui dobbiamo svestirci».

Ecco perché è fondamentale la preghiera, anche se ormai sembra “fuori moda” prevedere una “pratica di pietà” in preparazione di un capitolo. La preghiera di ciascuno «formerà la preghiera di tutti, come una immensa supplica al Cuore di Cristo per una comunità che professa apertamente di amarlo e della quale rimane il Signore». In una nota allegata alla circolare, si ricorda che il rapporto del CIRIS sui risultati dell’inchiesta preparatoria condotta in tutta la congregazione, è stato pubblicato a cura del centro studi come primo volume della collana “Studia dehoniana”. Non si tratta di un semplice resoconto, ma di una ricerca molto importante, nella quale «si sente vibrare il cuore della congregazione».

Preparazione intellettuale e spirituale dei capitoli

Il 15 dicembre 1972 viene pubblicata una nuova circolare natalizia sui “capitoli provinciali”, ormai quasi tutti conclusi, in preparazione del capitolo generale. «Non per una pura formalità, ma per una reale e profonda convinzione, scrive Bourgeois, voglio ringraziarvi per il lavoro svolto in vista e in occasione dei vostri capitoli provinciali». Gli “Atti” finora pervenuti, «sono una testimonianza concreta della serietà di queste assemblee e del lavoro fatto». Se ne è già avvertita l’importanza grazie all’impegno profuso senza risparmio di mezzi tecnici, di tempo e di fatica.

Anche solo da un rapido primo esame degli “Atti”, emergono con chiarezza non solo lo “spirito di fede” che ne ha garantito non solo la buona riuscita, ma anche «l’ispirazione e la fraternità fondamentale delle riunioni». Ovunque i capitoli provinciali si sono rivelati dei “tempi forti” per la vita delle rispettive province e soprattutto per il capitolo generale che si aprirà il 23 maggio 1973 presso la casa generalizia di Roma. Prevedibilmente la durata del capitolo generale sarà di un mese circa. Sono già state costituite due commissioni preparatorie, una per la revisione delle costituzioni, l’altra per la preparazione del capitolo stesso.

Dopo la vasta consultazione realizzata in tutta la congregazione ad opera del CIRIS, la commissione generale per la revisione delle costituzioni ha elaborato dei testi già sottoposti allo studio dei capitoli provinciali.  I risultati dell’inchiesta CIRIS da una parte e le risposte dei capitoli provinciali dall’altra, dovrebbero consentire una chiara “presa di coscienza” delle condizioni con cui affrontare i singoli problemi.

Al di là di tutti gli aspetti “tecnici e logistici”, è certamente più importante la preparazione “intellettuale e spirituale” con cui affrontare i problemi. Solo una buona preparazione e, insieme, un reale ambiente di amicizia e di fede, potrà garantire il valore e l’ispirazione del capitolo. Tutte le province, tutte le comunità e ogni religioso sono in qualche modo responsabili di questa preparazione. Dalla misura della preghiera «giudicheremo l’interesse che abbiamo per il capitolo».

Concludendo, Bourgeois augura un “buon anno 1973” a tutti e a ciascuno, ma soprattutto «agli ammalati, agli inquieti, agli isolati, a coloro che sono lontani, ai missionari delle foreste o dei “sobborghi”, alle comunità di giovani, ai novizi e studenti, a quanti non sono più giovani, a quanti si trovano all’avanguardia o alla retroguardia, e, infine, ai nostri anziani, la cui preghiera, amicizia e lo stesso sguardo ci sono preziosi nel difficile cammino che dobbiamo percorrere». Che il 1973 «sia per tutti un anno di fede, di speranza e d’amore».

Sei mesi dopo la circolare del 12 luglio 1973, all’inizio del suo nuovo sessennio, Bourgeois rilegge le fasi salienti del 16° capitolo generale nel quale, alla fine dei lavori, è stato riconfermato il direttivo in carica. Realizzare in sei settimane il programma stabilito (elezioni, revisione delle costituzioni, elaborazione della regola di vita e del direttorio generale), è stata realmente un’impresa. Senza la pretesa della perfezione, i testi elaborati rappresentano un vero progresso e una sensibile convergenza delle tante correnti presenti in capitolo; il suo primo frutto sono state la riscoperta di una “profonda comunione” sulle cose essenziali.

La riflessione capitolare e la preparazione delle elezioni hanno favorito la comprensione di quanto ci fosse bisogno di un rinnovamento.  Con tutta sincerità vorrebbe testimoniare la sua gratitudine a tutti i confratelli che gli  hanno scritto per questa occasione. Augurandosi di non essere troppo indegno di questa rinnovata fiducia, «da parte sua non è mancata tutta la buona volontà; l’aiuto dei confratelli e soprattutto la grazia di Dio faranno il resto».

Il problema maggiore è sempre quello della comunicazione e delle relazioni. In capitolo sono state offerte indicazioni pratiche da sperimentare nei prossimi anni, sia a livello interprovinciale che centrale e periferico. Senza la pretesa di risolvere tutto immediatamente, basterebbe il tentativo di assicurare una buona riorganizzazione interna del consiglio generale, migliorando le comunicazioni dal centro alla periferia e viceversa. Non è possibile al momento presentare l’insieme dei testi capitolari. A tale scopo è stato istituito uno gruppo “ad hoc” nella speranza di poter avere tra mano, per Natale, la pubblicazione ordinata e ufficiale di tutti i testi: regola di vita, direttorio generale, raccolta giuridica.

Ogni provincia dovrà poi procedere all’elaborazione del proprio direttorio provinciale per adeguarlo agli orientamenti e alle indicazioni pratiche del direttorio generale. La regola di vita appena elaborata e approvata, forse non sarà perfetta, ma certamente rappresenta una tappa importante per il rinnovamento religioso, spirituale, comunitario e apostolico della congregazione. Con la convinzione di rispondere ad un appello di Dio, certamente la garanzia di una reciproca collaborazione, sarà di grande aiuto «nell’accettare nuovamente questo mandato, cercando di non deludere né la vostra amicizia né la vostra fiducia».

In conformità alla raccomandazione del capitolo generale, nella lettera del 10 ottobre 1973, si informano i provinciali dell’invio del documento relativo al funzionamento e alle pubblicazioni del centro studi; dopo uno speciale periodo di sperimentazione pre-capitolare, si è ritenuto necessario conferirgli una struttura più chiara ed efficace; non servirà solo per una più approfondita conoscenza della storia e dello spirito dell’istituto; dovrebbe favorire e mettere in luce anche l’attualità di questo spirito nel contesto biblico, dogmatico, pastorale, ecumenico, missionario e sociale della Chiesa di oggi; contando, inoltre, sulla più ampia collaborazione, si vorrebbe favorire l’informazione e il dialogo con le province e tra le province. Ogniqualvolta se ne presenterà l’occasione, non mancheranno articoli o lavori di carattere più generale, senza sovrapporsi a quanto viene già pubblicato nelle diverse nazioni e nelle diverse lingue.

Nel corso del capitolo generale si era parlato più volte dell’aspetto economico, del funzionamento e delle pubblicazioni. Di tanto in tanto si dovrebbe pensare a quanto, con tanta facilità, si spende non solo nelle nostre province o nella stessa curia generale, ma anche solo in vista del “nostro benessere quotidiano”. Ora, usare un po’ di denaro per diffondere  e vivere lo spirito del fondatore, «è certamente un buon investimento, non solo per la congregazione, ma anche per la chiesa, le comunità apostoliche, le missioni e le opere sociali di cui abbiamo la responsabilità o che saremo chiamati a realizzare».

L’approfondimento dello spirito del fondatore è qualcosa di molto diverso da un interesse puramente “storico o folcloristico”; è, invece, un fatto che dovrebbe incidere  profondamente sulla vita e l’efficacia della congregazione posta al servizio del popolo di Dio; solamente una politica “miope e opportunistica” potrebbe sottovalutare l’importanza di un tale servizio; sarebbe un peccato «deludere l’attesa di quanti ci hanno manifestato il desiderio e la necessità di un tale servizio».

Le ricadute del “colpo di stato” in Cile

«Sono trascorsi due mesi, scrive Bourgeois nel novembre del 1973, dal “colpo di stato” che ha rovesciato il regime politico in Cile», con tutte le gravi conseguenze sulle condizioni di vita e di lavoro di quella popolazione. In quel paese la regione cilena, nel 1971, contava una sessantina di membri, per lo più di origine e di nazionalità olandese. Fin dall’inizio, a causa di queste gravi vicende politiche, è stato problematico mantenere i contatti con la provincia olandese e la curia generale. Lentamente pare che le condizioni di vita si stiano normalizzando.

Dall’ultimo bollettino della regione, a inizio settembre, si apprende che undici confratelli sono stati espulsi o hanno dovuto, per prudenza, lasciare il paese all’indomani del “colpo di stato”. Attualmente la regione del Cile comprende ancora una quarantina di membri che sperano di potersi rendere utili sul posto nonostante le difficili condizioni di vita che il paese sta attraversando.

Quanto è accaduto in Cile ha pesanti ricadute sia sul piano religioso e apostolico che  su quello sociale e politico. La chiesa cilena, attraverso la voce dei suoi vescovi, sta continuando il suo cammino «con una coscienziosità e una generosità che meritano ogni rispetto». Alcuni confratelli sono stati espulsi a causa degli impegni sociali e politici da loro assunti come una “forma necessaria di impegno cristiano e religioso” da testimoniare con generosità tra tante rinunce.

L’esperienza di questi confratelli non va giudicata astrattamente. La gravità della situazione tocca tutti profondamente. Non basta una semplice commiserazione di simpatia. La stampa ha ampiamente documentato le proteste da parte di tutti i settori dell’opinione pubblica; solo i cileni sono in grado di “spiegare, giustificare o condannare” quanto accaduto. Nessuno, né in Cile né altrove, comunque potrà mai giustificare la violenza ingiusta, il disprezzo dell’uomo e dei suoi diritti.

Tutti questi avvenimenti hanno avuto pesanti ripercussioni sull’ultimo capitolo generale. Potrebbe essere questa una preziosa occasione per riprendere in mano quei testi e verificarne seriamente i fondamenti dottrinali, religiosi e pastorali, invece di accontentarsi di “affermazioni semplicistiche o di slogan inconcludenti”. Il capitolo ha richiamato tutti con fermezza ad un impegno più coerente sull’esempio del padre Dehon in ordine, soprattutto, al servizio della giustizia e per una presenza attiva «accanto agli uomini del nostro tempo, soprattutto quelli più bisognosi», anche se è risaputo che incarnare una tale presenza diventa un problema sempre più difficile.

Tutte le opzioni scj, in quanto preti e religiosi, si estendono oltre le singole persone. «Ci conforta il fatto che la chiesa e la comunità – di cui noi, a titolo speciale, siamo membri qualificati – sono coinvolte e compromesse con noi, nella buona o nella cattiva sorte». Una seria riflessione e una opzione convinta possono diventare una “fonte di arricchimento” e un “mezzo efficace” per la promozione e l’evangelizzazione a cui «noi siamo consacrati per vocazione». È necessario, tuttavia, che tali scelte si fondino, fermamente e lealmente, su una comunione profonda con quella chiesa che si vuole servire. La riflessione e la voce autorevole dei vescovi cileni, ieri come oggi, «non hanno valore solo per il Cile; possono essere di aiuto anche per la lettura e la pratica della nostra regola di vita».

Al di là, comunque, di ogni altra considerazione «vogliamo esprimere la nostra piena comunione con i nostri confratelli, quelli che sono ancora in Cile e quelli che hanno dovuto abbandonarlo e che sperano di ritornarvi. Dobbiamo aiutarli, andare loro incontro secondo i loro bisogni e desideri. Anche noi ci attendiamo molto da loro come, in genere, dai nostri confratelli dell’America Latina, perché ci aiutino, soprattutto nelle difficoltà, a saper dirigere bene i nostri passi servendo Cristo Gesù nella fede e nell’amore. Questo merito nessuno potrà negarlo o toglierlo ai nostri confratelli cileni. In questo e soprattutto in questo essi sono veri sacerdoti del Sacro Cuore, nostri fratelli».

I mesi di settembre e ottobre, come si legge nella brevissima circolare del 22 ottobre 1974, sono un po’ per tutti un “periodo di ripresa, di programmazione e organizzazione”; ma proprio per questo «abbiamo bisogno del vostro parere e del vostro aiuto». Sono in gioco obiettivi molto importanti, come la diffusione e l’assimilazione della regola di vita, i rapporti tra generalato e province e, in particolare, la preparazione della prossima conferenza generale. Un grazie anticipato viene rivolto, in particolare, ai partecipanti alla conferenza generale. Tutte le proposte e i suggerimenti al riguardo saranno quanto mai preziosi; serviranno anzitutto alla congregazione, ma, allo stesso tempo, anche alle singole province.

Un “anno santo” anche per l’istituto

Molto più lunga, articolata e impegnativa è invece la circolare successiva del 1º gennaio 1975 in vista dell’anno santo. E’ un anno del tutto particolare soprattutto per tre motivi: dovrà essere, anzitutto, un anno di conversione e di riconciliazione; quest’anno, inoltre, ricorre il terzo centenario della “grande apparizione” di Paray-le-Monial, e, infine, il 12 agosto sarà il 50° anniversario della morte del fondatore. Si tratta di tre eventi “diversamente importanti”. Il centenario della “grande apparizione”, se non proprio inopportuno, da qualcuno, usando un’espressione “alla moda”, potrebbe considerarlo “superato”, “caduto in disuso”; se però venisse passato sotto silenzio, afferma Bourgeois, «me ne dovrei rammaricare, come di una infedeltà alla memoria del fondatore».

Che dire, poi, dell’anno santo? È sicuramente un “avvenimento” ecclesiale di cui è ancora difficile valutare l’incidenza per la vita della chiesa universale, delle chiese locali e soprattutto per la vita del popolo di Dio. Nella prospettiva tracciata da Paolo VI, quest’anno “di conversione e di riconciliazione”, per i sacerdoti del Sacro Cuore è un invito particolare e molto concreto ad una più profonda comunione e partecipazione ecclesiale. La conversione e la riconciliazione sono “idee base” non solo per la vita personale, ma anche per la testimonianza e il servizio nella chiesa.

Anche se l’espressione “anno santo” potrebbe suonare come qualcosa di fuori moda in un mondo sempre più desacralizzato e secolarizzato, richiama comunque un “avvenimento ecclesiale” quanto meno nell’intenzione e proclamazione. I religiosi, in particolare, dovrebbero impegnarsi a vivere questo “evento” in comunione con il popolo e secondo gli orientamenti indicati. La loro presenza e la loro testimonianza non dovrebbero limitarsi all’organizzazione di pellegrinaggi o celebrazioni per l’acquisto delle indulgenze giubilari; c’è invece di augurarsi che possa costituire per tutti una reale occasione e un tempo di conversione e di riconciliazione.

In questa prospettiva andrebbe collocato anche il richiamo alla “grande apparizione” di Paray-le-Monial. Sarebbe fuorviante considerare il tradizionale riferimento a quelle “apparizioni” come uno di quegli elementi “desueti” che non riguardano affatto la natura e il fine della congregazione. È un fatto che le “apparizioni” di Paray rimandano al crocifisso, alla ferita del costato aperto e all’enorme incidenza teologale, mistica e apostolica dell’avvenimento riferito dall’evangelista Giovanni. La risonanza di quel richiamo e di quel riferimento nella vita della Chiesa e nella vita delle anime conserva sempre un valore straordinario.

Certe manifestazioni possono anche non piacere; ma chi potrà dire se la loro efficacia sia definitivamente esaurita? Oltretutto da tanti segni si intravvede una riscoperta in profondità sia del Cuore di Cristo sia della profonda incidenza di una vera “devozione” nella vita delle anime e della chiesa. Secondo Bourgeois si impone una re-interpretazione di questo evento; quella proposta dalla regola di vita, anche se non contiene alcun riferimento a Paray, non è né una negazione né un tradimento, ben sapendo la grande importanza che vi annetteva il fondatore. Per quanti sanno leggere senza prevenzioni sia il direttorio che la regola di vita vi coglieranno anzi uno sviluppo e una maturazione dei germi seminati a suo tempo dal fondatore non solo nei suoi testi, ma anche nella sua vita.

Bourgeois è fermamente convinto che si eviteranno “molte discussioni e molte cantonate” se si saprà leggere e meditare “con un cuore che prega”. Sono queste le riflessioni che gli ispira il terzo centenario della “grande apparizione” di Paray-le-Monial; «ve le confido senza arrossire, e non per giustificare, artificiosamente, il richiamo di questo anniversario, bensì perché anche questo fa parte del mio “tesoro” nel quale c’è del “nuovo e del vecchio” e perché mi piace tutto quello che il Signore mi ha dato e continua a dare non solo a me, ma anche ai miei confratelli».

Quanto al terzo anniversario del 1975, quello della morte del padre Dehon, è una questione di famiglia che si dovrebbe commemorare in quanto tale. La maggior parte dei suoi religiosi non lo ha personalmente conosciuto. Tuttavia, molti l’hanno ritrovato nelle scelte fondamentali della propria vita. Per quanti lo seguono sinceramente rimane un maestro, un amico e un padre.

Sarebbe importante celebrare questo anniversario non solo nel ricordo, ma anche approfondendo la conoscenza della sua personalità, del suo pensiero, della sua vita, della sua opera. La curia generale, attraverso il centro studi, darà il suo contributo con alcune pubblicazioni. È già stata programmata una edizione, ad uso interno, di un “insieme” di scritti inediti: “Notes sur l’histoire de ma vie, Notes Quotidiennes, Correspondence”.

Tuttavia, già da subito, si dovrebbe valorizzare tutto ciò di cui si dispone nelle varie case. Quanto, poi, alle “celebrazioni” è chiaro che tutto sarà lasciato all’iniziativa delle singole province. D’altronde, più che una celebrazione “trionfalistica”, sarebbe opportuna una buona commemorazione, ben sapendo che, agli occhi del fondatore, contano molto di più  la fedeltà e la fecondità nell’amore vissute  “con i fatti e nella verità”.

Nessuna celebrazione folcloristica o trionfale, perciò, ma qualcosa di intimo, vero, in perfetta e profonda consonanza con l’anno santo e con il terzo centenario della “grande apparizione” di Paray. In attesa del centenario della congregazione, il 1975, con il 50° della morte di padre Dehon, dovrebbe quindi costituire una tappa “modesta ma efficace” del rinnovamento spirituale dei suoi figli.

Concludendo, Bourgeois sollecita i confratelli a programmare la preparazione della conferenza generale del 1976; anche se non ha l’importanza di un capitolo generale, questa conferenza, a metà strada tra due capitoli, dovrebbe favorire non solo una messa a punto della situazione nelle province dopo l’ultimo capitolo, ma anche una prima indicazione  di qualche problema di interesse generale per l’istituto insieme a un qualche orientamento, sia pure da lontano, per la preparazione del capitolo generale successivo.

È difficile prevedere quello che di buono porterà con sé il nuovo anno; è risaputo, comunque, che le vie di Dio sono le vie dell’amore e della pace, soprattutto per chi ha fame e sete di Lui. Questa certezza e questa fiducia «le ripongo nei miei auguri e nella mia preghiera. Accoglieteli così come ve li presento».

Nella maggioranza delle province o regioni, scrive Bourgeois nella circolare del 22 settembre 1975, i mesi di settembre e ottobre, come sempre, segnano una ripresa regolare delle attività. Questa breve lettera, come ogni anno, vuole essere un piccolo gesto di amicizia. Come noto, nel 1976 avrà luogo la conferenza generale; il comitato preparatorio ha già fatto pervenire, insieme ad un breve questionario, anche tutte le informazioni sul luogo, la data e i temi all’ordine del giorno.

Quest’anno, nella maggioranza delle province, una delle principali preoccupazioni sarà la messa a punto del direttorio provinciale. Alcune province hanno lavorato bene a tale riguardo. Certo le difficoltà non mancano; è facile comprendere come questa decisione del capitolo generale, per essere realizzata, esiga non solo idee e competenza intellettuale, ma soprattutto coraggio, generosità e una sincera buona volontà di arrivare fino in fondo impegnandosi tutti sia a titolo personale che comunitario.

Anche qui, come sempre, il rinnovamento parte prima dal cuore e dalla preghiera che non dalle idee; non per nulla il “Perfectae caritatis” ricorda che «le migliori forme di aggiornamento non potranno avere successo, se non saranno animate da un rinnovamento spirituale». Anche se da tempo ci si sta muovendo in tal senso, è altrettanto certo che «dobbiamo dare a questo rinnovamento spirituale la priorità nelle nostre preoccupazioni e nei nostri sforzi».

In conclusione, due brevi informazioni relative al collegio internazionale e al funzionamento del consiglio generale. La situazione del collegio internazionale va attentamente valutata non solo per il piccolo numero di studenti iscritti per l’anno in corso, ma anche per l’utilizzazione dei locali disponibili. Per quanto riguarda il funzionamento del consiglio generale e i rapporti con le province e le regioni, si pensa di continuare anche quest’anno l’esperienza iniziata dopo il capitolo generale in vista della conferenza generale nel giugno 1976, favorendo un utile contatto con tutti i superiori provinciali e regionali, membri della conferenza.

Salvo casi particolari, anche quest’anno non saranno programmate visite sistematiche e ufficiali alle province; è comunque assicurata la piena disponibilità in caso di inviti per una partecipazione attiva all’uno o all’altro avvenimento di rilievo nelle province. E’ quanto mai gradita una segnalazione di eventuali e particolari progetti comunitari, settoriali o regionali in vista del 1976.

Si è potuto costatare con piacere, sia personalmente sia mediante i vari rapporti e bollettini inviati alla curia generale, che molte province stanno facendo uno sforzo encomiabile per lo studio, la meditazione e l’applicazione della regola di vita; questo è un segno eloquente del rinnovamento in atto; anche le numerose piccole o grandi celebrazioni per il 50° anniversario della morte del fondatore, hanno costituito una buona occasione di incontro comunitario e di ripresa spirituale.

Negli sforzi connotati a volte da grandi difficoltà, è comunque possibile intravedere “un segno dei tempi” da non trascurare; potrebbe trattarsi di un richiamo alla conversione, a una revisione vissuta delle nostre posizioni o delle nostre disposizioni. «Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto»; in questi versetti evangelici è possibile intravedere «una chiara eco anche della nostra regola di vita; sia questo non solo un messaggio conclusivo per tutti, ma anche una “parola d’ordine” per l’inizio del nuovo anno».

La celebrazione di un centenario

L’ultimo Natale, in pieno inverno polacco, come scrive nella lettera del 9 febbraio 1977, Bourgeois lo ha trascorso presso il noviziato di Pliszczyn. Là si è pregato insieme per la chiesa, per la Polonia, per la congregazione e, specialmente, per tutti i confratelli che vivono momenti difficili personali, comunitari, provinciali e regionali. In Polonia, tra una visita e l’altra, si è fermato per un mese intero. Tornato a Roma, dopo aver disbrigato un “mucchio” di corrispondenza, si è immerso subito in tutte le problematiche del centenario della congregazione.

Dopo aver ricordato quello che per padre Dehon, grazie all’intervento di mons. Thibaudier del 13 luglio 1877, è “l’atto di fondazione dell’istituto”, questa decisione, come ha scritto il fondatore, «era per me quella di Dio; io non dovevo più esitare… Mi sono messo in ritiro dal 16 al 31 luglio per scrivere la regola e le costituzioni dell’istituto».

L’anno seguente, ed esattamente il 28 giugno 1878, il giorno in cui emetterà i suoi primi voti, diventerà ufficialmente  “la data di fondazione” del nuovo istituto. Lasciando alle province la facoltà di scegliere altre eventuali date, ufficialmente il centenario della congregazione è quello che va dal giugno 1877 al giugno 1878. È incoraggiante il fatto, commenta Bourgeois, che la prospettiva del centenario «faccia rinascere progetti, susciti iniziative, rianimi anche il fervore e la fede». Più che le “celebrazioni”, comunque, ciò che conta è lo sforzo di riflessione e di rinnovamento in profondità dell’ispirazione originaria della congregazione.

Stando a quello che dicono gli storici e i sociologi, cent’anni, per le istituzioni e in modo particolare per le istituzioni religiose, rappresentano spesso un’età cruciale; è un qualcosa come l’età critica degli individui che, giunti ad un certo punto, devono inevitabilmente assumere un nuovo ritmo nella loro vita.

Non tocca comunque agli storici, ai biologi, ai sociologi, ottimisti, pessimisti o realisti a «dirci l’ultima parola sul presente e sul futuro della nostra centenaria congregazione». Solo lo Spirito Santo, come detto nella regola di vita, resta sempre “il punto di riferimento della nostra storia e della nostra fedeltà”.

Certamente il centenario potrà e dovrà essere un’occasione per guardare al passato, ammirarne gli sviluppi e la crescita continua, ricercare e valutare le ragioni di questa crescita, ricordare le opere fatte evocando le figure e le personalità che hanno fondato e contrassegnato la vita, lo spirito e l’attività della congregazione nelle diverse province e regioni. È la storia della “nostra famiglia”, il tessuto delle nostre “memorie” comunitarie.

Anche l’istituto stesso, soprattutto negli ultimi tempi, è stato contrassegnato da grandi cambiamenti nei modi di vita e nelle forme di preghiera e di attività. La “fedeltà dinamica” – il “leit motiv” dei capitoli e delle conferenze – é certamente stata feconda di riflessioni, di documenti e di orientamenti operativi. Va anche detto, per la verità, che la congregazione ha affrontato “più o meno bene” la scossa dello sconvolgimento sociale ed ecclesiale di questi ultimi anni.

In occasione, comunque, del centenario, la congregazione, nell’insieme, resta una realtà viva come ampiamente dimostrato dalle iniziative di ogni genere per l’animazione comunitaria, la pastorale delle vocazioni, la formazione e le forme di impegno apostolico. Proprio per questo, potrebbe diventare l’occasione per prenderne pienamente coscienza non per “sciocca e farisaica vanità”, ma nell’umile consapevolezza di persone che hanno bisogno di vivere al meglio la loro vocazione. Il centenario servirà per ricordare a tutti che la congregazione “non è nata con noi” e neppure con il concilio o con i capitoli del 1967 o del 1973.

Qualcosa è nato e ha cominciato a crescere cento anni fa, sotto l’azione dello Spirito Santo, nel cuore e nella vita di padre Dehon, e poi, attraverso la voce del suo vescovo, nella chiesa di Dio. Anche se le approvazioni canoniche arriveranno più tardi, fin dagli inizi il fondatore ha detto il suo “sì” alla chiamata di Dio, un “sì” che, come il “fiat” di Maria, impegnava la sua vita e si inseriva nella vita della chiesa e del mondo. È quanto confermato nella regola di vita quando vi si legge che «questo istituto trova la sua origine nell’esperienza di fede del padre Dehon”.

“Fedeltà dinamica” sì, ma fedeltà a che cosa, a chi? Ecco l’eterna questione che affiora inevitabilmente ogni volta che ci si interroga sul perché e sul come della propria vita. Non è questo l’atteggiamento di quelle province e regioni che, grazie a Dio, continuano ad avere giovani da formare. La grazia, la missione e il “carisma” del fondatore, non possono non costituire anche la “nostra” missione, il “nostro” carisma; sono questi, infatti, i fondamenti attuali della “nostra” vita spirituale, religiosa e apostolica scj.

Il centenario può essere, quindi, l’occasione buona per “ritornare alle sorgenti”. Per importanti che possano essere  le opere e i servizi” prestati, il migliore stimolo a sperare per il presente e per il futuro sta sicuramente nella “riscoperta” della nostra missione. È importante, a tale riguardo, rileggere i testi fondamentali, organizzare sessioni o giornate di studio, di riflessione, di preghiera, celebrare insieme l’amore del Signore e renderne costantemente testimonianza, con discrezione e in profondità, senza falsi pudori.

Questa preoccupazione è commovente e deve riempirci di gioia, come un segno di verità e di vitalità. L’anno del centenario potrebbe indubbiamente diventare “un secondo noviziato”, un anno fecondo per il presente e per l’avvenire della congregazione.

Tutti i documenti, i testi, gli studi pubblicati in questo periodo, dovrebbero servire alla riflessione e soprattutto alla preghiera. La speranza è che, quest’anno, venga ripresa in comune, almeno una volta alla settimana, al momento più conveniente, in tutte le comunità e, perché no?, anche da parte di tutti i nostri confratelli isolati, la preghiera del padre Dehon: “O Gesù, Buon Pastore…”; con questa preghiera, reperibile nel vecchio thesaurus, il fondatore  intendeva esprimere il suo amore per il Signore e per la congregazione; nonostante certe espressioni sorpassate, è una preghiera che esprime «il vero senso della nostra fedeltà e del nostro amore».

Non è il caso di “scusarsi” per la lunghezza di questa lettera, conclude Bourgeois; un centenario la può tranquillamente giustificare. La speranza è quella di aver messo nel cuore di tutti un po’ d’amore, di amicizia, di fede e di speranza. Al di là dei sentimenti e delle parole, l’augurio è quello di poter sempre «vivere e amare, come il Cuore di Gesù, con i fatti e nella verità».

Il valore aggiunto dei capitoli provinciali

Anche se la lettera scritta per il Natale 1977 arriverà prevedibilmente molto dopo le feste natalizie e quelle di capodanno, Bourgeois ne approfitta ugualmente per rivolgere a tutti i suoi auguri, ringraziando quanti gli hanno testimoniato la loro amicizia, assicurandogli, insieme, la loro preghiera. In questa lettera viene annunciata ufficialmente la convocazione e la celebrazione del prossimo capitolo generale che si svolgerà nel maggio-giugno 1979 a Roma, preceduto, ovviamente, dai capitoli provinciali. Oltre all’elezione della nuova amministrazione generale per il sessennio 1979-1985, il nuovo capitolo dovrà pronunciarsi sulla regola di vita: approvarla nuovamente tale e quale, oppure modificarla o completarla, qualora lo si ritenesse opportuno. Senza entrare in troppi dettagli in merito alla preparazione del capitolo, basterà conformarsi alle prescrizioni del diritto interno e sulla base dell’esperienza dei precedenti capitoli.

Ma, prima ancora di pensare al capitolo generale, ci si dovrà confrontare più concretamente nei capitoli provinciali; è a questo livello, soprattutto, che una provincia ordinariamente si confronta con la sua identità e la sua personalità riflettendo non solo sulla sua situazione attuale, ma anche sulle prospettive future. Non ci si dovrebbe mai dimenticare che il capitolo è il primo e principale organismo interno di responsabilità nella provincia; proprio in quanto tale necessita della collaborazione attiva e responsabile di tutti e di ciascuno. L’insieme delle relazioni delle province, debitamente approvate nei diversi capitoli provinciali, offrirà a sua volta il materiale per la relazione sintetica che il superiore generale deve fare in apertura del capitolo generale.

Il valore aggiunto, inoltre, di tutti i prossimi capitoli provinciali è dato dal fatto che, come anche per quello generale, saranno i capitoli del centenario; è un’occasione meravigliosa anche per un autentico rinnovamento e insieme per una presa d’atto «della nostra appartenenza e della nostra missione nella chiesa».

Nel 1903, in occasione del 25° anniversario della fondazione, il primo e unico giubileo che ha avuto l’occasione di celebrare, il fondatore aveva scritto ai suoi religiosi una lunga circolare non solo ricordando gli inizi dell’opera e le grazie ricevute, ma anche riflettendo sia sulla situazione dell’istituto dopo i suoi primi 25 anni che su “il fine e lo spirito della società del Cuore di Gesù”.

Il centenario, in qualche modo, vuol essere un richiamo allo stesso genere di riflessione;

vale anche oggi l’invito fatto dal fondatore, nel 1903, «a raccoglierci, a riflettere, ad umiliarci, a domandare perdono a Dio per tutte le nostre debolezze e a ringraziarlo per tutti i suoi favori».

L’anno precedente, osserva Bourgeois, «abbiamo auspicato che l’anno del centenario, a livello di istituto, fosse come una specie di “secondo noviziato”; costatiamo che quel voto non solo è stato accolto, ma che lo stesso Cuore di Gesù l’ha fatto proprio confermandolo con la sua luce e la sua grazia». Un capitolo provinciale preparato e celebrato con questo slancio avrà certamente “la sua ispirazione, il suo clima e il suo frutto particolare”.

«Ecco, conclude Bourgeois, la circolare ufficiale per i nostri capitoli. Vorrei che in essa sentiste non solo la preoccupazione responsabile di una buona preparazione e di un’efficace celebrazione, ma anche quell’amore per il nostro istituto e quell’amicizia per ognuno di voi che mi hanno spinto a scriverla».

L’ultimo ringraziamento di Bourgeois

Il 18 giugno 1979 Bourgeois scrive un’ultima breve lettera allo scadere del suo mandato; più che una “lettera d’addio” vorrebbe che fosse una lettera di ringraziamento e un attestato di amicizia. In questi dodici anni, scrive, «ho imparato, un po’ alla volta, a conoscere la congregazione nella sua realtà globale e nei particolari, attraverso le persone e le opere». Per lui personalmente «è stata una esperienza straordinaria di relazioni umane, di approfondimento spirituale, di scoperta progressiva della presenza e dell’azione di Dio in questa grande realtà ecclesiale che è la nostra congregazione».

Vedendo ormai concludersi “senza dispiacere” il tempo del suo servizio richiestogli dai due precedenti capitoli generali, al termine di questi due mandati, confessa serenamente di sentirsi «sgorgare dal cuore e dalla preghiera un vivo senso di ringraziamento». Anche se, onestamente, può affermare che “non sono stati anni particolarmente difficili”, però, indubbiamente, sono stati anni «carichi di responsabilità e di attività di ogni genere, con momenti forti e deboli, come in tutte le cose umane».

Si sente in dovere di ringraziare personalmente tutti i suoi confratelli perché «l’avervi potuto incontrare praticamente tutti, almeno una volta, sul posto del vostro lavoro e del vostro impegno, sicuramente è stata per me una delle esperienze più ricche, più edificanti, più confortanti della mia vita». Con molta semplicità può testimoniare di essersi sempre trovato con tutti in un rapporto fraterno, «edificato di scoprire e di vivere ciò che significa la comunione, il nostro “sint unum” internazionale». Mai come in questa occasione può confessare,  con molta sincerità, di sapere «qual è il posto della congregazione nella chiesa e nel mondo; senza falsa umiltà, voglio assicurarvi ch’essa m’è apparsa come una bella e grande realtà che, nel suo insieme, nonostante le sue debolezze e i suoi errori, non ha tradito la sua missione».

È confortato dal fatto che, con il suo successore, il p. Antonio Panteghini, «è entrata in carica una nuova équipe, giovane e molto ben affiatata»; non ha assolutamente nessun dubbio «che il Signore continuerà ad assisterla come l’ha fatto con noi». In  ogni caso, «va data la massima fiducia a questi confratelli che con generosità – e quanta ce ne vuole! – hanno accettato di servire la congregazione, la chiesa e ciascuno di noi in questo nuovo incarico di responsabilità».

Una volta ancora, «grazie per la vostra amicizia fraterna, per l’esempio che spesso mi avete dato e anche per la vostra preghiera; quest’ultimo aiuto della preghiera, vorrei domandarvi di continuarlo, affinché, là dove sarò, possa continuare a servire, a servire meglio ancora, il Cuore di Gesù e la congregazione, da cui tutto ho ricevuto e a cui tutto devo».

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