P. Bruno Secondin: la profezia dei religiosi

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p. Bruno Secondin

Ho visto p. Bruno Secondin (1940 – 7 giugno 2019) per l’ultima volta il 28 settembre 2018 nella sagrestia della Chiesa che i padri carmelitani hanno sulla via della Conciliazione a Roma. Era seduto ad una piccola scrivania e mi ha detto: «Mi riconosci?». La malattia gli aveva fatto perdere i capelli e il suo volto era segnato da molte rughe, ma la voce era sempre quella e gli interessi anche. Si lamentava un po’ che nel suo viaggio recente in Brasile di non trovare nei giovani religiosi e preti quella memoria viva dei grandi protagonisti (accennava Mesters) del rinnovamento conciliare e della teologia che avevano innervato le riflessioni di tutti. Mi confidava di sperare che il male si fermasse ed era deciso a lottare fino alla fine. Sono tornato un paio di mesi fa ma non l’ho trovato: era in giro per conferenze.  Carattere forte e fisico robusto: ho immaginato di rivederlo, ma se n’è andato prima.

Suggeritore discreto

Per chi volesse ricostruire la storia della vita consacrata nel post-concilio dovrebbe partire dai suoi scritti. Molte delle cose migliori che le unioni dei religiosi e delle religiose italiani e internazionali hanno fatto in questi decenni risentono del suo stile e dei suoi interessi. Anche i testi della Congregazione dei religiosi, soprattutto nell’ultimo quinquennio. Ha insegnato per decenni storia della spiritualità moderna alla Gregoriana (1975 – 2000). Aveva studiato a Roma, in Germania e a Gerusalemme e nella sua ricerca si è applicato con creatività e coraggio soprattutto su tre filoni: la tradizione spirituale carmelitana, la ripresa nella Chiesa della pratica della lectio divina, il cammino della vita consacrata dentro gli orizzonti della spiritualità contemporanea.

Di sé diceva: «Mi caratterizza questo stare sulla soglia, esplorare gli orizzonte, non per proporre uscite di sicurezza, ma per individuare brecce sorprendenti, per intercettare utopie e malesseri, riconoscere nuovamente percorsi mistici, come anche nuove forme di testimonianza solidale». Grande esperto di Giovanni della Croce e Teresa d’Avila e delle tradizioni spirituali legate al suo ordine è diventato noto in particolare per l’attenzione alla pratica e ai fondamenti spirituali della lectio divina. Sono 17 i volumi da lui curati nella collana Rotem (ed. Messaggero) creando un sito web in merito e dando avvio a una esperienza ventennale di lectio nella chiesa della Traspontina. In una lunga intervista apparsa sul nostro sito (lectio I; lectio II) ricordava i precursori: da Mariano Magrassi a Enzo Bianchi, dal card. Carlo Maria Martini alla sua pratica e insegnamento. «La lectio non è uno studio biblico, non è catechesi, non è istruzione religiosa, tanto meno è una specie di nuova devozione. Senza Parola ascoltata, meditata, assimilata, obbedita praticata è debole e incerta l’identità cristiana, la coscienza ecclesiale si riduce all’appartenenza burocratica».  «La lectio divina non è da confondere con i pia exercitia: perché ha una natura sacramentale, grazie alla sacramentalità della Parola, e non grazie allo sforzo personale, pio o ascetico… Tutto deve stare sotto la Parola, fare riferimento alla Parola, essere purificato e orientato dalla Parola in senso pregnante. Lo ha detto il Concilio, con forza».

Lectio e consacrazione

Aveva seguito con coraggio e lungimiranza lo sviluppo della vita consacrata dopo il concilio fino all’esortazione post-sinodale Vita consecrata 1996 e riconoscendosi pienamente nel magistero e nell’indirizzo di papa Francesco. Ricordava con franchezza i «tempi del sospetto», la lunga stagione che dagli anni ’70 fino al primo lustro del secolo, quando la vita consacrata veniva censurata ai massimi livelli della curia romana come elemento infido e marginale. Quando si proponevano come modelli le nuove fondazioni tradizionaliste e movimentiste, alcune delle quali sono poi esplose per i gravi scandali che le hanno attraversate. C’era anche qualcosa di personale: aveva proibito la registrazione delle sue lezioni perché si era accorto che poi arrivavano a qualche occhiuto censore alla Congregazione della dottrina della fede. Ma soprattutto non si adattava a confondere l’indebolimento strutturale e dei numeri come scusante del mancato coraggio e della limitata invenzione nel servizio ai poveri e al Vangelo.

Ci è tornato sopra in una conferenza ai religiosi di Bologna il 20 gennaio scorso (Vita consacrata I; Vita consacrata II): «Noi consacrati dobbiamo puntare sulla nostra testimonianza. Un’esistenza che in tutti i suoi aspetti parla e comunica qualcosa di profondo, che impregna la vita, le  parole, i gesti, le attività, tutto. Se non riusciamo a giungere a questo livello, rischiamo di ridurci a comparse, forse anche a zombi, che dicono di appartenere a una storia gloriosa, di cui si vantano e si illudono di essere protagonisti, ma ne sono solo un pallido ricordo. Mancala forza della profezia e della comunione: andiamo avanti rotolando, gestiamo ogni cosa con spirito di manutenzione e non con l’audacia e l’inventiva che una fede autentica deve ispirare. Ripetitori di slogan che ci rassicurano e che, a furia di ripeterli, crediamo che siano veri nella realtà. Pia e comoda illusione».

Insaziabile curioso dello Spirito

Insaziabile curioso dei segni che lo Spirito lasciava in ogni dove si immergeva nelle ricerche spirituali anche molto lontane delle radici cristiane per trovarvi l’elemento prezioso e unico. Ha espresso la sua ricerca in moti testi. Ne cito solo uno: Inquieti desideri di spiritualità. Esperienza, linguaggi, stile (EDB, Bologna 2012). Così indicava i compiti e le chances della spiritualità oggi (con il sottotitolo: ridare dignità a questo mondo un po’ sgualcito).

Anzitutto: ascoltare il cuore dell’uomo contemporaneo, smarrito in una postmodernità politeista e nichilista. E poi: uno sguardo dioratico (cioè uno sguardo contemplativo, una visione dal’alto); la vigilanza puntuale (non sacralizzare i fenomeni ma discernere in essi); ruolo terapeutico della spiritualità che è chiamata a guarire le vite; interlocutori non spettatoti. Fra i compiti nuovi e le emergenze ricordava: la necessità di integrare il corpo (una spiritualità amica della corporeità); seguire i processi d’inculturazione (capire e discernere); essere testimoni di libertà (che si fa audacia e servizio); in un contesto di pluralismo religioso (oltre le paure e la semplice curiosità); rifondare la famiglia e la sessualità davanti alla ridefinizione antropologica in atto; Homo videns et contemplans, nel contesto digitale e informatico.

Dei suoi molti volumi posso ricordare: La spiritualità nei ritmi del tempo (Borla 1997), I nuovi protagonisti (Paoline 1991), Per una fedeltà creativa. La vita consacrata dopo il sinodo (Paoline 1995), Abitare gli orizzonti (Paoline 2002), Problemi e prospettive di spiritualità (Queriniana 1983); Corso di spiritualità (Queriniana 1989); Spiritualità in dialogo (Paoline 1997). Per le EDB di Bologna ha scritto: Profeti di fraternità (1985); Alla luce del suo volto (1989), Il profumo di Betania (1997) e il già citato Inquieti desideri di spiritualità (2012). Nel 2015 è stato chiamato da papa Francesco a predicare gli esercizi spirituali al papa e alla curia sui testi biblici relativi al profeta Elia. Sorridendo mi confidava la sua gioia, «anche perché adesso non ci fanno più vescovi». Su di lui sia pace!

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