Religiosi/e in Italia: convinti ma poco flessibili

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Convention dell’APA

Come ogni anno, migliaia di psicologi da tutto il mondo si sono radunati per la Convention dell’APA (l’American Psychological Association), dove vengono riportati gli studi e le riflessioni che stanno caratterizzando i diversi settori della salute mentale. P. Giuseppe Crea, comboniano, è psicologo e psicoterapeuta, specialista in terapia individuale e di gruppo ad indirizzo analitico-transazionale, docente presso la Università pontificia salesiana.

Parlare di preti e suore nel contesto della salute mentale può essere un azzardo, ma sapere che il mondo cattolico da anni vi partecipa e si confronta sulle problematiche che le istituzioni religiose vivono, può essere incoraggiante, e certamente lo è stato.

Il contesto era complesso e articolato, ma c’era spazio per un dibattito scientifico serio e appassionato. In modo particolare nella Division 36, quella relativa alla Psychology of Religion, dove c’era una sessione sulla vita religiosa e sacerdotale in Italia, dal titolo The psychological temperament of Catholic priests and religious sisters in Italy: An empirical enquiry.[1]

È stato possibile presentare dei dati, con i risultati di diverse ricerche portate avanti in Italia nell’ambito della vita consacrata, con preti e suore che hanno partecipato ad alcuni programmi di formazione permanente.

Dopo aver spiegato le tendenze statistiche, le caratteristiche fattoriali, i punti di forza e i limiti della ricerca, uno dei presenti – sicuramente un prelato americano – mi chiede: “può spiegarmi, in una frase, qual è il principale risultato dei vostri studi?”.

In una frase? Non era facile, ma sia io che il prof. Francis abbiamo provato: “I preti e le suore in Italia hanno uno stile formativo che sembra rispondere al proverbio I bend but I don’t break: sono convinti della loro vocazione ma, allo stesso tempo, rifuggono condizioni di crisi o di incertezza”. Dal brusio della sala ho percepito che avevamo detto qualcosa di particolare.

Eppure, guardandosi attorno, la realtà della vita consacrata sembra confermare questi dati. Sono persone ferme nelle loro convinzioni, ma… anche un po’ allergiche al dubbio, all’incertezza, alle crisi che rivoluzionano le proprie comodità e sicurezze.

Sembra quasi logico: chi è convinto non ha dubbi! Soprattutto se sono convinzioni che affondano le loro radici in una formazione di base di stampo intellettuale.

D’altro canto, l’esperienza del dubbio non la si impara, semplicemente… la si vive ogniqualvolta la vita presenta condizioni che scuotono le certezze e i progetti che sembravano assicurare felicità e gratificazioni a tempo indeterminato.

Eppure, sono proprio i momenti di dubbio e di perplessità che interpellano a dare risposte di senso che, nella vita consacrata, si traducono in risposte di senso vocazionale. Poiché – come dice Frankl – «ogni uomo, anche se condizionato da gravissime circostanze esterne, può in qualche modo decidere che cosa sarà di lui».[2]

Trasformare ogni situazione difficile in una conquista superiore

La dimensione del dubbio, dal punto di vista psicologico, è un aspetto psicologico fondamentale per la crescita e la maturazione della persona. Nel contesto della vita consacrata la valenza educativa delle crisi evolutive spinge i religiosi e le religiose a riscoprire la matrice della propria vocazione: rispecchiare nella propria creaturalità la natura divina del Creatore.

Questa dimensione vocazionale del dubbio, applicata al sistema di costruzione della personalità, pone l’individuo in una prospettiva di continua formazione, attraverso la capacità di rimettere in discussione le certezze del proprio carattere e a sentirsi in cammino permanente. Spinge anche a percepire la precarietà e l’incertezza non come destabilizzante ma come un’opportunità preziosa per il cambiamento e la crescita.

Poiché sono proprio i momenti di incertezza e di dubbio che aprono il cuore ed educano la mente a guardare oltre, per trasformare ogni situazione in una conquista superiore che abbia senso per la sua esistenza.

Ma cosa succede quando le sicurezze motivazionali sono scosse dagli eventi della vita? O quando le motivazioni della propria scelta vocazionale si mescolano con le problematiche psichiche individuali?

Religiosi e religiose, convinti e flessibili dinanzi al cambiamento

Le ricerche effettuate in questi anni e presentate recentemente all’APA di Washington[3] confermano che ci sono alcuni aspetti del temperamento dei religiosi e delle religiose che sembrano riproporre tale interrogativo: che succede quando le certezze vocazionali si scontrano con la realtà della vita?

Esaminando il modo con cui questi uomini e donne esprimono le diverse componenti della personalità emergono dei dati che comprovano come le loro differenze individuali sono dei doni da apprezzare, che caratterizzano i diversi ambiti della vita consacrata, come la vita spirituale, la pastorale, la collaborazione comunitaria ecc.

Infatti, in uno studio condotto tra i religiosi sacerdoti in Italia[4] si conferma che il loro temperamento emergente (similmente a quanto riscontrato in Nord America e nel Regno Unito) è posizionato su una percezione realistica centrata sul proprio punto di vista e sulla capacità di giudizio.

Questi risultati mettono in evidenza un profilo di ministro abitudinario e paziente nei ritmi, capace di affrontare le situazioni pastorali con impegno e secondo modalità già apprese.

Il riferimento ai fatti offre un senso di sicurezza perché permette a questi religiosi di verificare concretamente le situazioni che affrontano. Quindi, riescono meglio quando possono pianificare il loro servizio e si trovano a loro agio quando le situazioni sono definite e completate.

Tale spirito metodico però potrebbe mettere in secondo piano la capacità di rinnovamento e di cambiamento, poiché questi religiosi sacerdoti potrebbero non essere consapevoli delle novità che emergono (dalla gente, dai segni dei tempi…) o delle cose nuove da fare, essendo abituati a privilegiare ciò che è ben definito. Se alcuni cambiamenti non sono necessari, preferiscono lo stile tradizionale nel loro modo di vivere la vita sacerdotale. Dinanzi alle situazioni pastorali che richiedono rinnovamento e apertura a nuove sfide potrebbero mostrarsi poco pazienti se non insofferenti.[5]

Da questo studio, pur con le dovute cautele, si potrebbe supporre la prevalenza di un tipo di religioso piuttosto uniformato sulle convinzioni professate e sulla formazione spirituale ricevuta, molto affidabile rispetto alle convinzioni di fede ma meno flessibile dinanzi a nuovi stimoli provenienti dal mondo esterno. In altri termini, se, da una parte, sono persone sicure delle proprie convinzioni (a livello di religiosità, di carisma, di vocazione), dall’altra, potrebbero essere poco inclini a mettere in discussione le proprie certezze dogmatiche, soprattutto se confrontate con un contesto che mette in crisi tali sicurezze.

La preminenza di questo carattere metodico tra i religiosi italiani è stata confermata da un più recente studio, ampliato anche alle suore oltre che ai religiosi maschi.[6] Da questa ricerca emerge ancora una volta una struttura di personalità convinta, solida e sistematica, ma poco flessibile al cambiamento. Tale tendenza è maggiore tra i preti, meno tra le suore, anche se per entrambi si tratta della caratteristica più netta.

Questo temperamento, definito come “epimeteico”,[7] lascia trasparire la propensione alla metodicità e alla routine, dove il cambiamento è accolto attraverso l’evolvere dei fatti piuttosto che attraverso l’instabilità e le crisi. «Una Chiesa epimeteica è forte nell’aspetto amministrativo, basata sui doveri, ma anche poco creativa; incline al cambiamento soltanto quando vi è costretta e non può farne a meno; e, in ogni caso, sempre per lenta evoluzione e mai per rapida rivoluzione».[8]

Si tratta insomma di uomini e donne solidi nelle loro convinzioni vocazionali e di fede, che portano avanti i loro compiti con grande dedizione e sistematicità, che pregano in modo costante e abitudinario. Ma cosa succede quando la vita li interpella a uscire dalle loro certezze e a fare i conti con le precarietà degli eventi che devono affrontare?

L’interrogativo è di grande attualità, se si pensa alle tante condizioni di crisi che la vita consacrata sta affrontando. Cosa ne è delle certezze dei religiosi e delle religiose, quando vedono le loro case di formazione svuotarsi e l’età media dei confratelli/consorelle salire a oltre i 75 anni? Oppure, riferendoci agli “imprevisti” di tipo affettivo o relazionale, cosa accade quando la loro affettività è messa in crisi? O come reagiscono quando le relazioni comunitarie diventano conflittuali?

Se, in tali circostanze, essi si fermano a privilegiare le sicurezze, il rischio è di uniformarsi, addomesticando la profezia della propria vocazione o – per dirla con le parole di papa Francesco – di «rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli».[9]

Alcune provocazioni per continuare ad essere profeti di speranza

A partire dalla constatazione della realtà presente, il dibattito di Washington se, da un lato, ha fatto emergere questi fattori di rischio, dall’altro, ha comunque offerto l’occasione di riflettere. In modo particolare lanciando due provocazioni, una per il futuro e una per il passato.

Per quanto riguarda il futuro ci si chiede: ma è questo il tipo di vita consacrata che la Chiesa vuole consegnare al 21° secolo?

E poi, guardando al passato, com’è stata possibile una tale visione epimeteica e abitudinaria dei religiosi e delle religiose, soprattutto se si pensa che si tratta di uomini e donne chiamati a continuare la missione “destabilizzante” del Vangelo?

Sono due interrogativi che interpellano la prospettiva profetica della vita consacrata, seguendo l’appello ad essere una Chiesa “in uscita”, capace di prendere l’iniziativa, coinvolgersi, accompagnare, fruttificare e celebrare i piccoli passi di ogni giorno.[10]

Per fare questo occorre essere consapevoli che il cambiamento e la trasformazione, nella crescita psicologica come nella conversione della fede, non risiede tanto nel contenimento dei rischi da correre o nella preservazione delle convinzioni, ma nella capacità di camminare in avanti con determinazione, sapendo che, «nell’arte di camminare, quello che importa non è di non cadere, ma di non “rimanere caduti”».[11]

Su questo metodo educativo la vita consacrata ha una lunga tradizione ma anche una lunga storia da scrivere ancora, ed è questo che le permetterà di riconoscere i tanti doni che Dio continua a elargirle per essere meno adattata e più “rivoluzionaria”.


[1] http://www.apa.org/convention/program-search.aspx?title=crea
[2] V. Frankl, Uno psicologo nei lager, Ares, Milano 1987, p. 115.
[3] http://apps.apa.org/convsearch/article.aspx?id=172631&type=abstract
[4] L.J. Francis – G. Crea (2015), Psychological Temperament and the Catholic Priesthood: An Empirical Enquiry Among Priests in Italy, in Pastoral Psychology, 64(4), pp. 827–837.
[5] Per l’approfondimento di tali conclusioni vedi G. Crea, Tonache ferite. Forme di disagio nella vita religiosa e sacerdotale, Dehoniane, Bologna 2015, pp. 201ss.
[6] Francis L.J. – Crea G. (in stampa), The psychological temperament of Catholic priests and religious sisters in Italy: An empirical enquiry.
[7] Il temperamento epimeteico trova le sue origini nella mitologia greca. Epimeteo, figlio di Prometeo, è colui che “pensa in ritardo”, analizza metodicamente le scelte da fare, ma è anche poco attivo. A differenza di suo fratello Prometeo, “colui che pensa prima” e agisce con immediatezza.
[8] U. Folena, I «nuovi» sacerdoti? Solidi ma flessibili. Padre Crea: l’invito del Papa a non temere gli imprevisti, antidoto al clericalismo, in Avvenire, 1° agosto 2017, p. 14.
[9] Evangelii gaudium, n. 49.
[10] Ibidem, 24.
[11] Papa Francesco, Discorso del Santo Padre agli studenti delle scuole gestite dai gesuiti in Italia e Albania, Aula Paolo VI, Roma, 7 giugno 2013.

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