Ripensare le comunità di vita consacrata

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comunità

La comunità è un tema sul quale si scrive e si parla molto,[1] perché è una struttura che interessa la vita religiosa oltre che la famiglia e le associazioni religiose, una struttura imprescindibile, legata com’è al mistero della Chiesa-comunione dalla quale sgorga la missione.

Succede, tuttavia, che nei nostri ambienti per assicurarla e darle forma compiuta, si dimentichi – paradossalmente – che cuore ed essenza della comunità è la comunione, mentre si limita soprattutto a determinare gli elementi strutturali e strutturanti la comunità.

La comunione, intesa come riflesso della SS.ma Trinità, come fraternità e collegamento vitale e affettivo fra i membri della comunità, è più importante della vita comune intesa come convivenza sotto lo stesso tetto, perché, senza la comunione, la comunità perde l’elemento connettivo e il suo significato mistico.

È quindi necessario tenere insieme il binomio comunità e comunione e verificarne periodicamente la verità: il nostro modo di stare insieme esprime il nostro modo e le ragioni dell’essere-insieme?

Sulla comunità ha scritto (cf. Avvenire, 22 agosto), Luigino Bruni, prendendo lo spunto da un testo del Vangelo apocrifo, detto degli Ebrei, che parla della relazione di Gesù e di sua Madre con il Battista.

Bruni, che è il riconosciuto teorico dell’“economia di comunione” e membro del Movimento dei Focolari, da qualche tempo sta aprendo i tesori della Scrittura ai lettori domenicali di Avvenire. Con questo nuovo articolo sta avviando un nuovo ciclo di riflessioni sulla vita consacrata e, in particolare, sulla comunità di cui religioni e le Chiese sentono – dice Bruni – «la nostalgia e la malattia». In effetti, anche la comunità in questo tempo sta soffrendo una crisi di passaggio e di aggiustamento.

Grazie alla sua conoscenza del mondo dei consacrati, Bruni si dichiara convinto che «qualsiasi futuro dell’esperienza spirituale e religiosa non può oggi fare a meno di ripartire da una profonda riflessione, onesta e radicale, sulla comunità, con il coraggio di spingerla fino alle sue estreme conseguenze».

E già in questo suo primo articolo Bruni presenta una riflessione coraggiosa e radicale che porta a conclusioni che probabilmente non faranno… la gioia dei responsabili di comunità che spesso devono combattere sul fronte delle comunità.

L’articolo di Bruni tuttavia aiuta a riflettere e, al di là delle conclusioni contrastanti che esso può indurre, a uscire dai consueti discorsi sulla comunità che spesso rischiano di cadere nel legalismo o, anche peggio, in un fondamentalismo paralizzante.

Interrogativi antichi e mai risolti

Leggendolo, sono ritornato indietro al tempo in cui dovevo presentare la vita consacrata ai giovani candidati della nostra famiglia missionaria e, più ancora, al tempo in cui presiedevo alla riscrittura delle nostre Costituzioni nei primi anni ’80.

Sono passati molti anni, eppure i problemi emersi allora mi sembrano essere ancora gli stessi. Ancora ci domandiamo: come dev’essere la comunità di cui abbiamo bisogno noi missionari?

Abbiamo smesso di chiederci perché il Fondatore ha voluto che prendessimo i voti della vita consacrata, ma tra i confratelli c’è ancora chi si chiede se è vero che il Fondatore voleva fare dei missionari e non dei monaci, tenuti a un’obbedienza da vivere sotto un superiore, una specie di abate o guardiano, alla recita comunitaria della liturgia delle ore, alla dipendenza puntuale nell’uso del denaro, del tempo, alle esigenze insomma della vita comune… come i monaci.

Essere missionario – è vero – richiede scioltezza e mobilità, capacità di uscire e dialogare con tutti, anche con coloro che sono lontani dalla nostra fede, prontezza per rispondere alle imprevedibili richieste dei nostri interlocutori, creatività nelle scelte apostoliche, libertà di gestione per rispondere alle situazioni con tempestività e concretezza, missionari liberi insomma dagli «impacci della comunità» (sic!). Di questo passo la comunità finisce per diventare – o almeno essere considerata – un ostacolo per la missione.

È ovvio affermare che la comunità non può essere la stessa per chi vive in Italia, in Giappone o in Brasile. Ma come mai siamo arrivati al punto di diffidare della comunità?

Ci sono vari tipi di comunità

Bruni nel suo articolo mostra la presenza nella tradizione della vita consacrata di due modelli di comunità, quella monastica, che si è ispirata – magari senza saperlo – alle comunità di Qumran cui forse apparteneva il Battista, segnate da una forte appartenenza, introversione e stretta regolarità di vita, e la comunità ispirata dal vangelo di Gesù, comunità di discepoli itineranti, costituitasi attorno al Maestro che, a sua volta, all’inizio era forse stato membro della comunità del Battista e che, nel seguito della storia, presto finisce per produrre modelli e teologie diverse (si pensi a Paolo, Giacomo, Giovanni, Pietro e alle comunità che fanno riferimento a loro).

Nel corso della storia si è poi prodotta una contaminazione dei due modelli, come vediamo oggi in molti ordini e istituti di vita consacrata producendo altri modelli ancora come, per esempio, le “comunità di riferimento”. In mezzo ai vari modelli, ogni istituto si deve districare per trovare quel modello di comunità che conviene alla missione propria, che salvi con coraggio e creatività il cuore e la verità della comunità secondo il proprio carisma.

Certamente si può condividere la parola di Bruni che afferma che «nell’ecosistema spirituale del XXI secolo sopravvivono solo realtà più liquide e meno strutturate, decentrate e meno compatte, che non aggregano le persone tramite le regole e i vincoli giuridici, ma con la forza del messaggio del carisma e dell’esperienza concreta». Saranno comunità costruite non sull’uniformità ma sull’articolazione dei diversi impegni affidati ai singoli, unificati dall’unica missione e ancorati alla comunione affettiva e apostolica dei singoli.

Ecco allora la domanda cruciale che lo stesso Bruni formula in questi termini: è possibile dar vita a comunità composte da persone libere e autonome, capaci cioè di prendere – in libera responsabilità – le opportune iniziative, evitando, nello stesso tempo, la disintegrazione della comunità stessa? È possibile riscattare la comunità dall’essere un fattore prevalentemente organizzativo perché sia una realtà nuova che privilegi e metta in atto le possibilità delle singole persone e favorisca le relazioni dentro e fuori di sé stessa, superando quella tentazione narcisistica che troppo spesso la insidia?

Abbattere le barriere, pulire il linguaggio e aprirsi al mondo

Sappiamo che tradizionalmente, nei fatti della storia cioè, la comunità religiosa – ma anche quella familiare – si è progressivamente costruita alzando delle barriere per garantire la propria identità e salvarsi dalle contaminazioni con il mondo… giungendo a forme di autonomia e autarchia che, staccandola dal mondo, la chiudono su se stessa.

Comprendiamo, almeno concettualmente, che dopo il Concilio – ormai lontano più di cinquant’anni, ma non ancora pienamente implementato – le comunità potranno vivere la loro finalità missionaria e avere un futuro solo se «abbasseranno le barriere fino ad azzerarle, trasformando le mura in ponti, perché sarà su quei ponti che le nuove vocazioni potranno entrare» e grazie ai quali ponti si potrà aprire un dialogo di vita con i nostri contemporanei.

Non basterà tuttavia abbassare le barriere, ma sarà anche necessario aggiornare e forse ripulire il lessico “religioso” ormai obsoleto e spesso troppo carico di pregiudizi e di riflessi inconsci,[2] e che, in certi casi, non è più vero, e ringiovanire, nello stesso tempo, le strutture a cominciare dai voti che non dicono la verità delle scelte fondamentali dei religiosi/e.

Forse bisognerà incominciare proprio dal termine “voto” e dall’espressione “consacrazione”, termini diventati oggi poco chiari, quando non fuorvianti per molti dei nostri contemporanei, perché segnati, rispettivamente, da una visione giuridica e da un’antropologia dualistica di origine greco-romana e poco biblica, entrambe inadeguate alla natura della vita religiosa. Perché non parlare di “virtù” da vivere (virtus significa potenzialità) piuttosto che di voti dato che voto dice una specie di contratto («se mi fai la grazia, farò questo o quello…») che non può esistere in rapporto a Dio al quale noi ci consacriamo ma che Lui chiama a sé e al suo servizio con un dono dello Spirito che ci fa rinascere?

Una comunità sulle strade

La nuova comunità dovrà saper vivere “nel mondo” senza pretendere di essere il luogo del riposo e della tranquilla ricerca di Dio (o di noi stessi?).

Noi religiosi/e, chiamati a vivere – come diceva René Voillaume – nel «cuore delle masse», in mezzo al grande via-vai tipico del nostro mondo e del nostro tempo, della gente che entra e esce dalla nostra comunità, dovremmo essere pronti a «lasciarci disturbare», come diceva sr. Maria Laura Mainetti.

Potremmo anche dire che la vera comunità, per generare come dovrebbe, delle persone libere e attive, deve metterle nella condizione di poter un giorno lasciare la comunità per una nuova missione. Per una comunità che abbia futuro, essa deve formare persone che – per quanto sembri un paradosso – possano domani liberamente sciamare verso altre sponde per trapiantarvi la comunione e la comunità.

Un fondatore, un superiore, come del resto anche un genitore o un maestro, dovrebbero gioire quando vedono i loro figli migliori spiccare il volo per altre destinazioni e/o riprendere liberamente quello che hanno imparato nella comunità d’origine per offrilo a nuovi destinatari. Non si farà mai una vera comunità… covando eterni pulcini. Anche Gesù un giorno lasciò la comunità di Nazareth e successivamente il movimento del Battista per seguire la sua vocazione e per far nascere la sua comunità. Evidentemente la comunità di Maria e Giuseppe e quella del Battista furono per Gesù un terreno così fertile da generare la sua libertà infinita e feconda.

Conclusione

Rileggendo quello che Bruni ha scritto nel suo articolo, uno si rende facilmente conto che le sue affermazioni non sono tutte ugualmente condivisibili. Certamente le esperienze che abbiamo fatto e ancora facciamo ci hanno offerto certezze che non vogliamo abbandonare e dubbi che vorremmo risolvere e non ignorare.

Quelle di Bruni sono ipotesi da verificare e da valutare, ma sono anche stimoli o provocazioni per rivisitare questo tema, spesso dato come scontato, della nostra vita consacrata.

Sarà normale che queste idee facciano alzare le sopracciglia di certi addetti ai lavori a Roma e altrove, ma esse hanno il pregio di gettare un sasso nello stagno e smuovere acque che altrimenti rimangono ferme e stagnanti.

Ancora una volta la vera saggezza per il buon governo delle comunità di vita consacrata sarà quella dello scriba che «estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52) non per concludere con un compromesso che svigorirebbe la sintesi, ma che punta a rispondere alle attese dei nostri contemporanei.

Non è forse questa, in fondo, la missione e la ragion d’essere della comunità?


[1] Ref.arch.: Vita consacrata / Ferrari Ripensare la comunit.docx

[2] Cf. Simon Pedro ARNOLD osb, Rifondare i voti religiosi, Revista CLAR, novembre-dicembre 2000, tradotto e pubblicato da TESTIMONI, 30 gennaio 2001, n.2 pp. 23-28.

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Un commento

  1. Maria Calabrese 10 ottobre 2021

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