Remigrazione, la nuova illusione sovranista

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Photo © Humberto Chavez via Unsplash

La parola d’ordine della «remigrazione» dalla Germania è arrivata fino a noi. Senza rivelare particolari imbarazzi per aver mutuato questa idea radicale dall’estrema Destra di Alternative für Deutschland, una rumorosa frangia della Destra italiana l’ha fatta propria, ottenendo l’effetto desiderato: clamore mediatico, visibilità e risonanza.

Il prezzo è quello di un altro passo verso il baratro della disumanità e dell’illusione di un ritorno a un’impossibile e mai esistita omogeneità etnica della popolazione. «Remigrazione» significa cacciare gli immigrati, irregolari e regolari, richiedenti asilo e lavoratori insediati, singoli e famiglie che vivono nel Paese da anni.

Ma la remigrazione, prima ancora di essere un attacco ai diritti umani che farebbe apparire Donald Trump come un conservatore moderato, è semplicemente irrealistica, anzi controproducente per quegli interessi nazionali che i promotori pretendono di esaltare. Porta infatti all’esasperazione una contraddizione già visibile nelle politiche migratorie del governo Meloni, e che può essere definita come «paradosso populista»: le campagne ostili ai migranti, invocando la violazione dei confini e la presunta minaccia alla sicurezza interna, sono contraddette dalle misure di apertura ai lavoratori stranieri.

Il governo Meloni, infatti, con il Decreto flussi ha previsto 452mila nuovi ingressi d’immigrati per lavoro in tre anni, riferiti a un’ampia gamma di occupazioni e di settori economici, a cui ne ha poi aggiunti quest’anno 10mila in risposta ai fabbisogni delle famiglie italiane.

Gli ultra-sovranisti della remigrazione dovrebbero quindi prendersela con il loro governo, che in realtà, cercando di dirlo il meno possibile all’opinione pubblica, sta richiamando immigrati. Giacché i lavoratori stagionali poi diventano stabili, e dietro i lavoratori arrivano le famiglie, non è azzardato prevedere che in dieci anni la breccia aperta dal Decreto flussi produrrà almeno un milione di nuovi residenti stranieri. A meno che i tanti ostacoli burocratici, come sta accadendo, non ne frenino l’attuazione, frustrando le aspettative degli operatori economici.

Il fatto è che l’immigrazione è già un fattore produttivo imprescindibile. Nel settore domestico-assistenziale l’incidenza del lavoro straniero raggiunge il picco più alto, circa il 70% degli occupati registrati. Ma anche settori come l’agroindustria, quasi un emblema dell’impiego del lavoro straniero nel nostro Paese a cui abbiamo dedicato la ricerca Made in Immigritaly (FAI-CISL e Centro Studi Confronti), le costruzioni (siamo al 50% circa degli iscritti alle Casse edili in molte province del Centro-Nord), i servizi di consegna (i rider sono diventati un altro simbolo del lavoro immigrato), la sanità e l’assistenza, con la cronica carenza di personale infermieristico e ausiliario, testimoniano che senza immigrati l’economia e la società italiana non potrebbero andare avanti.

Si tratta in totale di 2,4 milioni di occupati regolari, oltre il 10% del totale. E secondo le associazioni imprenditoriali le aperture del Decreto flussi sono ancora insufficienti. Il discorso estremista della remigrazione spinge più avanti di quanto già non sia avvenuto l’avvelenamento dei pozzi della convivenza collettiva.

Frutto perverso della competizione interna ai partiti di Destra, non può essere derubricato a innocua esibizione pirotecnica. Certi discorsi, pronunciati da chi ricopre responsabilità pubbliche e ottiene risonanza nel circuito mediatico, rotolano a valle come pietre, assumendo velocità, aumentando il volume dello smottamento, prendendo traiettorie imprevedibili.

Nella mente dei sostenitori rendono più legittimate e pronunciabili espressioni razziste, contrapposizioni tra italiani e immigrati, richieste di trattamenti discriminatori, all’insegna del «prima gli italiani» e dello «stop all’invasione». Alla fine, incentivano la violenza verbale e purtroppo non di rado anche quella fisica.

La discussione su come contrastare queste derive è aperta, tra chi pensa ai tribunali e chi preferisce le battaglie di opinione. Di certo rappresentano un segnale d’allarme, che chiama alla mobilitazione la coscienza democratica del Paese.

Maurizio Ambrosini, professore di Sociologia delle migrazioni. Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche, Università di Milano. Articolo pubblicato sul sito della rivista Confronti, 9 giugno 2025

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