Il crocifisso è il simbolo con cui i cristiani manifestano la loro fede; eppure, per tre secoli, ne hanno fatto intenzionalmente a meno. Si riconoscevano in altri simboli – l’ancora, il pesce, i pani, la colomba, il pastore – ma erano riluttanti a raffigurare la croce: evocava la morte infamante del loro Maestro, morte riservata agli schiavi e ai briganti e che era uno dei motivi per cui venivano dileggiati dai pagani.
Verso il 180 d.C., il polemista Celso – che ben conosceva i racconti mitologici in cui gli dèi apparivano sempre splendidi e ammantati di fulgore – obiettava ai cristiani: “Se lo spirito di Dio si è incarnato in un uomo, bisognava almeno che questi eccellesse fra tutti per corporatura, per bellezza, per forza, per maestà, per voce ed eloquenza. Invece Gesù non aveva niente di più rispetto agli altri. Vagabondo da strapazzo, lo si è visto sbigottito, disorientato, percorrere il paese in mezzo a pubblicani e a marinai di malaffare. Sappiamo come è finito, conosciamo la defezione dei suoi, la condanna, le sevizie, gli oltraggi, le sofferenze del suo supplizio… e quel grido che gettò dall’alto del patibolo spirando”.
È celebre il graffito rinvenuto nella scuola del Palatino dove venivano educati i paggi destinati a servire alla corte dell’imperatore. Risale al 200 d.C. e raffigura un giovane nell’atto di venerare un uomo crocifisso con la testa d’asino; l’iscrizione recita: “Alexamenos adora il suo Dio”. Un’evidente caricatura del culto cristiano, fatta probabilmente da uno schiavo che intendeva sbeffeggiare un collega convertitosi alla nuova fede.
“Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani” – aveva scritto Paolo (1 Cor 1,23). Ma i cristiani erano restii a tradurre in un simbolo questa verità.
Una data precisa segna il passaggio al culto della croce: il 14 settembre del 335 d.C., giorno in cui a Gerusalemme un’immensa folla di pellegrini, accorsa da ogni parte del mondo, celebrò la festa della dedicazione della basilica fatta costruire da Costantino sul luogo del santo sepolcro. Sulla roccia del Calvario l’imperatore aveva fatto collocare una meravigliosa croce gemmata per ricordare il luogo del sacrificio di Cristo.
Da quel giorno la croce divenne il simbolo cristiano per eccellenza; si cominciò a fabbricarla con i metalli più preziosi, venne incastonata con perle, comparve ovunque, sulle chiese, sui labari, sull’elmo del principe, sulle monete…
Lungo i secoli, purtroppo, da emblema dell’amore e da segno del ripudio di ogni violenza, fu convertita a volte in vessillo per imporre con la forza i diritti “politici” di Dio e spesso fu ridotta ad amuleto, monile, gesto scaramantico.
La festa di oggi vuole richiamarci al senso autentico della croce.
Da diciassette secoli le comunità cristiane amano questo simbolo, ma non lo idolatrano, coscienti che, a rendere cristiana una società, non è l’esibizione dei crocifissi, ma la vita dei cristiani, “crocifissi” e perseguitati perché si rifiutano di idolatrare il denaro e il potere e divengono costruttori di pace.
Per interiorizzare il messaggio, oggi ripeteremo:
Possa, chi incontra un cristiano, scorgere sempre in lui il Crocifisso disposto a donare la vita.
Prima lettura (Nm 21,4-9)
In quei giorni il popolo non sopportò il viaggio 5 e disse contro Dio e contro Mosè: “Perché ci avete fatti uscire dall’Egitto per farci morire in questo deserto? Perché qui non c’è né pane né acqua e siamo nauseati di questo cibo così leggero”.
Allora il Signore mandò fra il popolo serpenti velenosi i quali mordevano la gente e un gran numero d’Israeliti morì.
Allora il popolo venne a Mosè e disse: “Abbiamo peccato, perché abbiamo parlato contro il Signore e contro di te; prega il Signore che allontani da noi questi serpenti”. Mosè pregò per il popolo.
Il Signore disse a Mosè: “Fatti un serpente e mettilo sopra un’asta; chiunque, dopo essere stato morso, lo guarderà resterà in vita”. 9 Mosè allora fece un serpente di rame e lo mise sopra l’asta; quando un serpente aveva morso qualcuno, se questi guardava il serpente di rame, restava in vita.
Una delle raccomandazioni che le guide fanno a chi si addentra nel deserto del Sinai è di non camminare mai a piedi scalzi: nascoste sotto la sabbia, sono sempre in agguato le ceraste, serpentelli agili e velenosissimi, pronti a gettarsi su tutto ciò che si avvicina. Il loro morso può uccidere un uomo in mezz’ora. Persino i cavalli si imbizzarriscono quando le scorgono.
Durante l’esodo, gli israeliti hanno attraversato una zona particolarmente infestata da questi serpenti – che il testo biblico chiama “brucianti”, probabilmente a causa del cocente dolore del loro morso – e le vittime furono numerose.
L’episodio accadde in concomitanza con una ribellione del popolo che – stremato dalla fatica del viaggio, dalle privazioni, dalla mancanza di pane e dalla scarsità d’acqua – aveva rivolto al Signore un’accusa infamante: “Credevamo che tu ci avresti condotti alla libertà e alla vita, invece ci hai ingannato, ci hai fatto uscire dall’Egitto per portarci a morire in questo deserto” (vv. 4-5).
Gli israeliti condividevano con tutti i popoli dell’antichità una concezione molto arcaica di Dio. Per questo ritennero che i serpenti fossero un castigo inviato dal Signore per punire il loro peccato.
Non era vero, si era trattato di un evento del tutto casuale. Tuttavia l’autore sacro lo interpreta come un richiamo del Signore, come un invito a guardare sempre e solo a lui per avere la salvezza.
Mosè costruì un serpente di bronzo, lo pose su un palo convinto che coloro che, dopo essere stati morsicati, lo avessero contemplato, sarebbero stati guariti.
Presso i popoli dell’antichità il serpente era una figura misteriosa e ambigua: era segno di morte e simbolo di vita, inoculava veleno o offriva salute e immortalità. Arrotolato attorno al bastone di Esculapio rappresentava la guarigione, si riteneva che le mute della pelle gli conferissero una perenne giovinezza.
Il gesto compiuto da Mosè è stato certo ispirato da questo simbolismo benefico e probabilmente va rapportato alle pratiche magiche e idolatriche dell’antichità. Persino nel tempio di Gerusalemme fu venerato per secoli un serpente di bronzo che si riteneva fosse quello innalzato da Mosè nel deserto. Il re Ezechia lo fece a pezzi perché lo giudicava un oggetto di culto idolatrico (2 Re 18,4).
Quale messaggio voleva trasmetterci l’autore sacro riferendo questo curioso episodio?
I rabbini spiegavano che gli israeliti non erano stati guariti perché avevano guardato al serpente, ma perché avevano elevato il loro cuore a Dio. Era il Signore che li aveva salvati, non il simulacro di bronzo. Il libro della Sapienza commenta così l’episodio: “Chi si volgeva a guardarlo era salvato non da quello che vedeva, ma solo da te, salvatore di tutti” (Sap 16,7).
Questo racconto ci prepara a comprendere il significato dello sguardo che il cristiano deve tenere fisso sul Crocifisso.
Seconda lettura (Fil 2,6-11)
Gesù Cristo, pur essendo di natura divina,
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome
che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù
ogni ginocchio si pieghi
nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami
che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.
Quando scrive ai cristiani di Filippi, Paolo è in prigione e quindi ci aspetteremmo che sia scoraggiato e avvilito. Invece è colmo di gioia: nella sua lettera per ben sedici volte riprende questo tema. È lieto perché ha la pace nel cuore; le sue catene, invece di essere un impedimento all’annuncio del vangelo, si sono rivelate una preziosa e convincente testimonianza per i suoi stessi carcerieri. È felice anche perché, ancora una volta, ha sperimentato il tenero affetto e la gratitudine dei filippesi nei suoi confronti.
La bontà e la generosità dei cristiani di Filippi erano note in tutta la Macedonia ed era conosciuta anche la simpatia che Paolo coltivava per loro. Tuttavia, come accade anche nelle migliori comunità, a Filippi non mancava qualche tensione. Nulla di grave: piccole gelosie fra i presbiteri, un po’ di ambizione di qualcuno che cercava di mettersi in vista, due donne che, pur molto impegnate e disponibili nel servizio ai fratelli, bisticciavano spesso.
Con molta delicatezza, per non offendere i suoi amici, nella sua lettera Paolo accenna a questi problemi.
Anzitutto richiama il principio che deve guidare i rapporti interpersonali: Non dovete fare nulla per spirito di egoismo o per essere superiori agli altri; ma ciascuno, con tutta umiltà, consideri gli altri superiori a sé, non cerchi il proprio interesse, ma quello degli altri (Fil 2,3-4). Poi, trattandosi del tema centrale della proposta morale evangelica, richiama l’esempio di Cristo: Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù (Fil 2,5).
È a questo punto che viene introdotto nella lettera un inno stupendo, composto probabilmente a Efeso ed eseguito in tutte le comunità dell’Asia Minore (Ef 5,19; Col 3,16) specialmente durante la celebrazione dei battesimi nella notte di Pasqua. È il brano della lettura di oggi.
Passa in rassegna tre momenti della storia di Gesù Cristo e il primo (v. 6) è il riferimento alla sua preesistenza.
Cristo non ha cominciato ad esistere nel momento del suo concepimento nel grembo di Maria. Dall’eternità, già prima di farsi uomo, egli esisteva “in forma di Dio”. È questa l’affermazione centrale della nostra fede: la divinità di Cristo.
E che ha fatto? Si è forse isolato egoisticamente nella sua condizione divina? Ha voluto trattenere gelosamente per sé il suo essere uguale a Dio?
L’inno risponde raccontando ciò che è accaduto nel secondo momento della sua storia (vv. 7-8): egli è disceso in mezzo a noi.
Non ha conservato per sé il suo “essere uguale a Dio”, ma “ha svuotato se stesso”, si è spogliato della sua grandezza e ha assunto la nostra umanità.
Quando si riflette sull’incarnazione del Figlio di Dio, il pericolo maggiore non è quello di negare la sua divinità, ma di pensare che egli si sia rivestito di un corpo materiale, come di un abito di cui, al termine della sua vita, si è poi spogliato per tornare alla condizione beata di prima.
Se così fosse, egli non si sarebbe immerso davvero e in modo totale nella nostra realtà umana.
Per mostrarci il suo amore ha compiuto il gesto più inatteso, più inconcepibile, addirittura il più difficile da accettare per la nostra ragione: ha abbandonato la sua condizione gloriosa e si è fatto “carne”. Lui, amore infinito, si è racchiuso nel finito, in un corpo come il nostro, tratto dalla polvere della terra; immortale si è fatto mortale; onnipotente ha scelto di condividere la nostra fragilità e la nostra ignoranza, ha conosciuto le nostre passioni ed emozioni, si è legato in tutto al nostro destino. Come noi ha dovuto imparare, è stato colto da dubbi, ha provato gioie e delusioni, ha coltivato speranze.
Non è apparso ai nostri occhi come un essere angelico, sublime, ma nella bassezza e nella debolezza della nostra realtà umana.
In questo movimento di discesa non si è fermato ad un livello elevato. Non è apparso fra gli aristocratici, fra i personaggi illustri che sfoggiano bellezza e ricchezza, esibiscono forza e detengono il potere. Avrebbe attirato su di sé l’ammirazione del mondo, sarebbe stato considerato un uomo di successo.
Invece ha scelto di condividere la condizione dello schiavo, di colui al quale i romani riservavano la morte di croce.
Uno sconfitto quindi, un fallito?
Secondo i criteri di questo mondo certamente sì. Ma come la pensa Dio? Come è stata valutata in cielo la vita di quest’uomo-Dio?
La risposta ci è consegnata nel terzo momento dell’inno (vv. 9-11).
Ribaltando i giudizi di questo mondo, il Signore lo ha esaltato. Lo ha riconosciuto come “l’uomo autentico”, quello perfettamente conforme al modello che aveva in mente quando dalla terra plasmò Adamo. Di fronte a quest’uomo piegheranno le ginocchia tutti gli esseri del cielo, della terra e degli inferi.
In che consiste questo sorprendente trionfo?
Le immagini sono desunte dalla vita di corte. I grandi sovrani colmavano di onori i gloriosi generali dei loro eserciti, li facevano assidere alla loro destra e costringevano i nemici sconfitti a strisciare, umiliati e sgomenti, ai loro piedi.
Assisteremo a una scena del genere in paradiso? Anna, Caifa, i membri del sinedrio, Erode… saranno svergognati davanti a Cristo?
Sarebbe un ben triste spettacolo! Sarebbe la smentita di tutto il messaggio evangelico e la conferma che anche in cielo la grandezza e il successo sono valutati secondo i parametri di questo mondo. Sarebbe l’invito a considerare la venuta di Dio fra noi come una infelice e sfortunata parentesi, non come il suo momento più glorioso, quello in cui ha potuto mostrare all’uomo quanto lo ama.
La conclusione della storia del mondo sarà diversa: ogni ginocchio si piegherà… alla nuova concezione di grandezza, quella perfettamente incarnata in Cristo, lo schiavo che si china a lavare i piedi all’uomo.
In cielo le posizioni non saranno invertite: Dio continuerà a lavare i piedi all’uomo.
Quando è venuto fra noi, non ha recitato una scena patetica in cui, per un momento, si è finto servo, ma ci ha rivelato chi egli è, per sua natura: amore disposto sempre e solo a servire.
Vangelo (Gv 3,13-17)
In quel tempo Gesù disse a Nicodemo: “Nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo. E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna”.
Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna.
Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui.
Nel vangelo di Giovanni i personaggi sono individui reali e concreti, ma il modo in cui l’evangelista li tratteggia mostra chiaramente che egli li vuole presentare anche come figure‑tipo, come simboli di scelte di vita, di adesione o di rifiuto della luce di Cristo. Rappresentano il vasto ventaglio di atteggiamenti spirituali che si possono assumere di fronte al mistero di Gesù.
La samaritana compare così come la donna-Israele, sposa infedele che il Signore è venuto a riprendersi con immenso amore (Gv 4); Marta è l’immagine del discepolo che non si risparmia nel servizio dei fratelli; Maria è l’espressione dell’amore gratuito, nardo genuino che con il suo delizioso profumo rivela al mondo la presenza di una comunità cristiana; Giuda rappresenta l’anti-discepolo, colui che non capisce la gratuità, ragiona in termini di compravendita, si impossessa di ciò che appartiene ai fratelli e lo considera sua proprietà (Gv 12,1-8); Tommaso è l’uomo che, per credere, pretende prove verificabili (Gv 20,24-29).
Alcuni personaggi ci sono noti solo attraverso il vangelo di Giovanni. Lazzaro è il discepolo che, morto, siede vivo al banchetto imbandito nella casa della comunità, perché il Signore della vita lo ha introdotto nel mondo dei risorti (Gv 12,1); “il discepolo che Gesù amava” è il personaggio anonimo che riassume in sé tutti gli atteggiamenti dell’autentico discepolo; l’evangelista lo propone alla comunità come modello.
E siamo così giunti a Nicodemo, uomo ragguardevole fra i farisei – forse membro del sinedrio –, anch’egli sconosciuto alla tradizione sinottica. Approfittando del buio, ma anche della quiete e del silenzio della notte, si reca da Gesù. Cosa lo spinge a cercare questo incontro?
Compare altre due volte nel vangelo di Giovanni.
Durante una festa delle capanne assiste a un’animata discussione che vede coinvolti gente del popolo, guardie, sommi sacerdoti e alcuni membri eminenti della setta farisaica. Ascolta in silenzio, poi, pacato, si lascia sfuggire una considerazione provocatoria: “La nostra Legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e di sapere ciò che fa?”. Riceve una risposta irridente: “Studia e vedrai che il Profeta non sorge dalla Galilea!” (Gv 7,40-52).
Lo ritroviamo sul Calvario, con Giuseppe d’Arimatea. Avvolge il corpo di Gesù in bende, insieme con gli oli aromatici che ha portato con sé e lo depone nel sepolcro (Gv 19,39-40).
Leale, responsabile e anche coraggioso, Nicodemo era rimasto colpito dal personaggio Gesù. Aveva riconosciuto in lui “un maestro venuto da Dio”; aveva compreso che nessuno avrebbe potuto fare i segni che egli compiva se Dio non fosse stato con lui (Gv 3,2).
A quali segni si riferiva?
Siamo all’inizio della vita pubblica ed è la prima volta che Gesù viene a Gerusalemme. Di lui non è stato ancora riferito alcun miracolo compiuto nella città santa. Si nota solamente: “Mentre era a Gerusalemme per la Pasqua, durante la festa molti, vedendo i segni che faceva, credettero nel suo nome” (Gv 2,23).
L’unico episodio accaduto a Gerusalemme e narrato dall’evangelista è la purificazione del tempio. Che sia stato quel gesto provocatorio il segno che ha scioccato Nicodemo e ha risvegliato in lui inquietudini e interrogativi a lungo rimossi riguardanti Dio, il culto e l’istituzione religiosa?
È possibile e il contesto sembrerebbe suggerirlo.
Israelita dal cuore puro, “maestro d’Israele” – come lo chiama Gesù – e dunque conoscitore delle Scritture, si era certo reso conto dell’incompatibilità fra la religione del cuore predicata dai profeti e il culto ipocrita cui si accompagnavano l’ingiustizia e l’oppressione del povero. Vedeva la gente semplice recarsi al tempio per cercare il volto di Dio e rimanere turbata di fronte al mercato che incontrava.
Chi era quel Gesù di Nazaret che aveva avuto il coraggio di reagire in quel modo alla profanazione del santuario?
Sentiva il bisogno di conoscerlo, di vagliare l’accaduto, di capire, al di là dei pregiudizi e delle opinioni che circolavano, chi era realmente.
Nel vangelo di Giovanni, Nicodemo rappresenta l’israelita sincero che cerca la verità. Il buio della notte in cui lo vediamo muoversi è allo stesso tempo reale e simbolico: indica la condizione di chi brancola nelle tenebre, ma è ansioso di trovare la luce e ha intuito chi gliela può donare.
Il brano evangelico di oggi ci propone la parte conclusiva del monologo pronunciato da Gesù davanti a Nicodemo.
Inizia con un richiamo all’episodio del serpente di bronzo (vv. 13-15) che abbiamo trovato nella prima lettura. Gesù lo interpreta come un simbolo di quanto sta per accadergli: il Figlio dell’uomo sarà innalzato sulla croce e coloro che lo contempleranno avranno la vita eterna.
Nicodemo era un fedele osservante della Legge, eppure, come il giovane ricco (Mt 19,20) si era reso conto che gli mancava ancora qualcosa per poter ereditare la vita eterna.
Gesù gli aveva detto che era necessario “nascere dall’alto” e lui aveva equivocato, pensava di dover “nascere di nuovo” dal grembo materno. Ora capisce ancora meno il discorso sull’innalzamento del Figlio dell’uomo.
Non poteva capire: gli mancava la luce del Risorto. Le parole di Gesù erano per lui avvolte nel mistero. Dev’essere rimasto anche un po’ deluso.
Solo dopo gli avvenimenti della Pasqua, ripensando a quell’incontro notturno, ha compreso ciò che il Maestro gli aveva detto.
A noi oggi il discorso di Gesù a Nicodemo risulta invece subito chiaro: guardare a Gesù “innalzato” significa “credere in lui” (v. 15), tenere gli occhi fissi sull’amore che egli ha dimostrato sul Calvario.
La salvezza viene dalla fede, dall’adesione alla proposta di vita che si è concretizzata nella croce. È quell’uomo appeso al patibolo che ci rivela quanto Dio ci ama e ci fa comprendere fin dove deve giungere il nostro amore per l’uomo.
Guardando il Crocifisso ci rendiamo conto di quanto male sia in grado di provocare il veleno del serpente: può indurre a uccidere l’innocente. Ma nel dono della vita fatto da Gesù, ci è presentato anche l’antidoto a questo veleno: l’amore gratuito, senza condizioni, offerto anche a chi ci toglie la vita.
La croce non è un amuleto da appendere al collo né un simbolo per segnare la conquista di un territorio o la sacralizzazione di un ambiente. È il punto di riferimento di ogni sguardo del credente che, in essa, vede sintetizzata la proposta di vita fattagli dal Maestro.
Sulla croce finivano gli schiavi, solo gli schiavi.
Dall’alto della croce Gesù proclama che l’uomo riuscito secondo Dio è colui che si offre volontariamente schiavo per amore, si fa servo dei fratelli fino a consumare la propria vita per loro, anche per i nemici.
In ogni momento ci imbattiamo in serpenti che possono avvelenare la nostra esistenza. Tendono insidie fuori di noi, ma soprattutto dentro di noi. Sono la bramosia dell’avere, la frenesia del potere, la smania di apparire.
Solo lo sguardo rivolto a colui che è stato innalzato può curarci dal veleno di morte che questi serpenti sono sempre pronti a inoculare nel cuore di ogni uomo.
Un giorno però – assicura l’evangelista – tutti “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37) e saranno salvi.
Nella seconda parte del brano (vv. 16-21) abbiamo una meditazione teologica sulla missione del Figlio dell’uomo: Dio non lo ha mandato “per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.
A differenza di Matteo che, per richiamare l’importanza e le conseguenze eterne delle scelte fatte oggi, ricorre all’immagine del giudizio finale, Giovanni impiega un linguaggio diverso e più consono alla mentalità di oggi: esclude addirittura che Dio giudichi l’uomo e parla di un giudizio che si attua nel presente e che è solo salvezza.
Le posizioni teologiche di Matteo e Giovanni sembrano contraddittorie; in realtà, pur impiegando immagini diverse, i due evangelisti propongono la medesima verità.
Il giudizio di Dio non è una condanna, ma una benedizione e non viene pronunciato alla fine dei tempi, ma oggi ed è un giudizio che salva.
Di fronte a ogni opzione che siamo chiamati a fare, il Signore fa udire la sua voce per indicarci ciò che è conforme alla sapienza del cielo e metterci in guardia dalle scelte di morte proposte dalla stoltezza del mondo.
La festa di oggi rivela anche come Dio esprime il suo giudizio: non pronuncia sentenze forensi, indica l’uomo riuscito, Gesù innalzato in croce e invita ogni uomo a valutare la propria vita sulla sua. Secondo i criteri di questo mondo la croce è il segno della sconfitta e del fallimento di una vita. Secondo il giudizio di Dio è la prova dell’amore sommo.
Non desta meraviglia che – come scrive Paolo ai corinti – il mondo giudichi follia questa sapienza celeste (1 Cor 1,17-25).





La croce di Gesù Cristo è il centro dell’ universo…del tempo, dello spazio, dell’eterno, del divino e dell’umano…”punto di riferimento d’ogni sguardo…” e di ogni cuore d:uomo…