
La violenza della storia è tutta fuoricampo. Solo nel finale il film ne mostra le conseguenze attraverso i documenti, le immagini iconiche della macchina accartocciata, dell’ambulanza sventrata e dei corpi adagiati per terra sotto il telo bianco, attraverso i volti giovani e ancora sorridenti dei volontari, le parole insieme disperate e rassegnate della madre della bimba.
Il mood è quello della tragedia raccontata come in coro dai quattro operatori che da una sede fuorimano della Mezzaluna Rossa assistono impotenti e sbigottiti alla morte ineluttabile degli innocenti, mentre presso Gaza la piccola Hind Rajab di 6 anni è nascosta nell’auto sotto la mira dei carri armati, accanto ai cadaveri degli zii e di quattro cuginetti. L’ambulanza impaziente di accorrere si trova a 8 minuti di strada, ma per consentire un corridoio sicuro ed evitare l’attacco ai soccorritori servono ore di estenuanti «coordinamenti», ovvero trattative telefoniche per accordi tra i diversi soggetti coinvolti onde impedire il fuoco ai carri armati israeliani.
La vicenda della famiglia Hamada, risalente al gennaio 2024, viene ricostruita avvalendosi della registrazione delle voci della bambina, degli operatori della Mezzaluna Rossa e dei parenti lontani, che si intrecciano con la fiction a creare un flusso interminabile di emozioni intense e contrastanti, fino all’epilogo in cui angoscia e rabbia si stemperano nel dolore.
Il lavoro della regista tunisina Kaouther Ben Hania e dei suoi collaboratori non sarà originale nella contaminazione dei generi, ma è impeccabile nella fedeltà della ricostruzione e nella resa cinematografica (l’intero film è recitato in lingua originale araba, con sottotitoli in italiano). Lo spettatore rimane incollato e sospeso per gli ottantanove minuti del film, pur conoscendone l’esito tragico.

Protagonista in scena è l’impotenza di fronte all’orrore della guerra. I telefonisti, il coordinatore, la psicologa si dibattono tra la fretta di soccorrere e la paura di mettere a rischio i soccorritori, tra slanci – tanto frenetici e generosi quanto avventati – e cedimenti allo sconforto o al black out psicofisico. La pazienza, saper attendere la fortunosa e necessaria combinazione di eventi e permessi, diventa determinante per la riuscita dell’impresa, ma basta un piccolo insignificante imprevisto per vanificare, a obiettivo quasi raggiunto, ogni sforzo organizzativo.
Che la vicenda narrata risalga all’inizio del 2024, quando la guerra dentro Gaza era appena agli inizi, non fa che appesantire la portata del messaggio. Da allora si sa che cosa è seguito, come lo scontro sia degenerato e le premesse, violente da entrambe le parti, siano arrivate inesorabilmente a compimento. Prosegue ininterrotto da allora il gioco tragico tra prede inermi condannate e predatori-automi nascosti dentro ipertecnologici carri armati. L’umanità dei personaggi confligge con la disumanità dei meccanismi bellici, pure innescati da uomini – nel paradosso della sopraffazione – con scienza e (cattiva) coscienza.
L’eterno adagio del dolore innocente, l’inammissibilità del tradimento dell’infanzia, di un tradimento colpevole e tanto più ingiusto in quanto dovuto alle scelte dissennate degli adulti, risuonano nel grido della bambina: «Vieni a prendermi!», «Sono da sola!», «Ho paura!». E tutti ci sentiamo genitori di quella bambina, vorremmo preservarne l’innocenza, la speranza, la fiducia negli altri. Tutti sperimentiamo l’impotenza e lo sconforto.
La regia non si limita a toccare le corde del pathos, che pure vibrano intensamente. Il pubblico in sala rimane attonito, per lunghi istanti muto e immobile dopo la fine della proiezione. Mutismo e immobilità sono il corrispettivo del lutto, mentre dentro si agitano le domande. Si darà mai una soluzione diversa, potrà mai una moltitudine umana silenziosa e dolente creare le condizioni per rompere la macchina infernale della violenza e imparare a convivere da uomini? I bambini non devono subire la guerra. Ai bambini bisogna insegnare la pace.

Quanto alla storia, è vero che insegna e non insegna: purtroppo non abbiamo ancora imparato la pace, purtroppo i costruttori di pace non stanno quasi mai nel campo dei decisori, occupato oggi più che mai dall’arroganza del potere e dalla debolezza del diritto. Ma se la storia può essere utile, ricordiamo che la svolta del 1917 nella carneficina della Grande Guerra non ebbe l’abbrivio dai capi di stato o dai generali, ma dalle manifestazioni popolari per i lutti e la fame, dai cittadini e dai lavoratori che invasero tutte le fabbriche e piazze d’Europa.
In questo senso le recenti piazze pacifiche e colorate per Gaza, al netto dei soliti professionisti della violenza, hanno almeno il merito di aver messo sotto gli occhi di tutti la vergogna dell’umanità tradita a Gaza come in troppi altri angoli del pianeta e l’assoluta priorità dei passi verso la pace.
Senza nulla togliere agli altri pur notevoli concorrenti, «La voce di Hind Rajab» doveva essere Leone d’oro e c’è da chiedersi perché non è andata così. Se il cinema vuol stare nella storia, se un festival non si esaurisce nelle passerelle ma vuol confermare e rafforzare la funzione civile di un cinema che vada oltre l’analisi scientifica-documentale e la ricerca estetica, il film di Kaouther Ben Hania meritava il primo premio.





