In quel tempo, Gesù disse alla folla: «Tutto ciò che il Padre mi dà, verrà a me: colui che viene a me, io non lo caccerò fuori, perché sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto egli mi ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno. Questa infatti è la volontà del Padre mio: che chiunque vede il Figlio e crede in lui abbia la vita eterna; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». (Gv 6,37-40)
Quest’anno, la 31ª domenica del tempo ordinario cade il giorno della Commemorazione di tutti i defunti; la liturgia, perciò, lascia spazio alla celebrazione di questa ricorrenza a cui ciascuno di noi si sente particolarmente legato. È questo il giorno nel quale ricordiamo, probabilmente con maggior affetto, tutti coloro che abbiamo amato e che ora non sono più.
La fede aiuta a vivere il dolore
Possiamo vivere questo giorno alimentando diversi sentimenti. Potremmo, difatti, correre il rischio o essere tentati di indulgere nella nostalgia, o di rinnovare il dolore facendo memoria di chi non è più con noi, o di risvegliare domande importanti in altri tempi sopite, o di avvertire il limite inesorabile rappresentato dalla morte davanti al quale tutte le nostre censure suonano fatue se non addirittura patetiche.
La liturgia della celebrazione, e in particolare il brano evangelico, ci possono aiutare a recuperare o a rafforzare uno sguardo differente.
Non si tratta di tacere il dolore e la sofferenza per la mancanza di persone amate e neanche di superare questo dolore con stoica fortezza o con “cristiana rassegnazione”; nessuno di questi atteggiamenti, infatti, sarebbe evangelico. Penso, piuttosto, che siamo invitati a entrare nel paradosso, che appartiene come carattere costitutivo alla nostra fede e che è la modalità, forse l’unica, di riuscire a vivere il dolore.
La parola di Gesù alla folla, tratta dal suo lungo discorso sul pane vivo, dice innanzitutto che Dio non regna sull’uomo né attraverso la sofferenza, né attraverso la morte, e neanche nonostante la sofferenza e la morte, ma che manifesta il suo potere e la sua signoria sulla sofferenza e sulla morte.
La sua volontà è che Gesù non perda nulla di quanto gli ha dato, ma che lo risusciti nell’ultimo giorno, e che chi crede in lui abbia la vita eterna. Questa dichiarazione potrebbe essere avvertita come un’ingenua consolazione, che tuttavia non toglie la percezione evidente di un limite che ci sottrae ineluttabilmente e ingiustamente ciò che è bello e buono, gli affetti e i sogni.
Il testo del vangelo, però, annuncia anche altro. Innanzitutto che nessuno ha autorità per impedire che tale volontà di Dio si compia; anche il Figlio non può che accogliere e custodire presso di sé tutto ciò che il Padre gli dà, in una piena e definitiva obbedienza. La volontà del Padre può apparire talvolta incomprensibile e ha sempre, comunque, aspetti imperscrutabili, ma proprio questo carattere, così “difficile” da sostenere, diventa l’occasione di affermare un legame personale con Dio, di stabilire una relazione che ha il coraggio di obiettare davanti al male e che continua a esistere nella fiducia e nella speranza.
La tensione verso il compimento
Inoltre, la parola di Gesù ci permette di entrare in una prospettiva che non è soltanto quella della fine, ma quella del compimento o della tensione verso il compimento.
La promessa della vita che è eterna, e che per questa qualità sfugge alle resistenze e all’opposizione del tempo, non è semplicemente l’annuncio di qualcosa che verrà dopo la morte, ma penso che possa permettere di leggere il senso dell’esistenza nel tempo.
Se siamo orientati verso il buon compimento della vita, questo vuol dire che ogni cosa che facciamo e tutto ciò che siamo non è né privo di significato né va perduto, ma tutto acquista valore.
Oggi, perciò, nella prospettiva del compimento della nostra esistenza nel Signore Gesù, abbiamo la possibilità di distinguere e scegliere ciò che è vero, ciò che davvero conta, ciò che è realmente necessario e importante, in un impegno nuovo o rinnovato di cura della vita.
Questo, da una parte, permette anche di promuovere o rinsaldare legami di solidarietà, di nutrire sentimenti autentici e di cercare e trovare gesti incisivi che possano esprimere vicinanza e compassione.
Dall’altra parte, e anzi contemporaneamente, la speranza e la fiducia di una vita custodita dal Signore Gesù, di una vita che non è e non va perduta, anche quando sembra violentemente strappata, di una vita tutta tesa al buon compimento possono aiutare ad affrontare la paura più grande che domina il nostro cuore e inquina le nostre relazioni con Dio, con gli altri, con le cose.
Se il senso della nostra vita e noi stessi siamo custoditi da Colui che non può perderci, da Colui che ha vinto la morte entrando in essa e dando la vita per noi, anche noi partecipiamo a questa vittoria. Tutti i piccoli segni e i gesti che attestano tale vittoria ci consentono di anticipare già qui, nel tempo, l’eterno.





