
La Chiesa torinese è conosciuta soprattutto per la vivacità della sua azione sociale. Da quando ha assunto la guida della diocesi nel 2022, anche il card. Roberto Repole ha acceso potenti fari – in linea con il predecessore Nosiglia – sulla crisi industriale e sul dramma della disoccupazione, però il fatto di vera novità, se si vuole comprendere cosa sta accadendo in questa Chiesa di confine con la Francia e con i venti della secolarizzazione, è la decisione assunta da Repole di compiere un grande, concreto e completo ripensamento – forse il primo caso in Italia – della presenza ecclesiale sul territorio.
Le cifre dei cambiamenti
L’anagrafe parla chiaro: negli ultimi trent’anni il numero dei preti di Torino e cintura si è dimezzato, da 700 e 350. È un dato di cambiamento che si accompagna ad altri fatti evidenti: le parrocchie che si svuotano, i giovani che si allontanano, la società che ha smesso di marciare compatta dietro ai codici di comportamento della tradizione cristiana.
Nulla è accaduto all’improvviso, il cambiamento è iniziato nel dopoguerra, intercettato dal Sessantotto, intuito dalla Chiesa del Vaticano II. Si è sempre saputo cosa stava accadendo nella società e nella Chiesa occidentale: a Torino, nel 2005, una ricerca della Fondazione Agnelli è tornata a mettere nero su bianco tutti i dati e le proiezioni sul calo del clero.
La Chiesa italiana, dai piani alti delle diocesi giù fino alle parrocchie, ha forse tardato ad affrontare la questione. Ha attivato molti filoni di dibattito sulla scristianizzazione, ma si ascoltata poca riflessione rispetto alle riforme da compiere per il ripensamento dei ruoli e delle forme possibili nella vita comunitaria.
L’obiettivo è chiaro: non abdicare alla testimonianza del Vangelo e mantenere vive, autentiche, ben radicate sul territorio le comunità cristiane, anche se più esili di un tempo. Devono continuare ad alimentarsi alla fede tutti gli uomini e le donne che, nella vita quotidiana, nelle professioni, nelle famiglie e nelle organizzazioni sociali rappresentano il primo e vero volto del Vangelo.
Uno sguardo realistico
È su questo fronte che l’arcivescovo Repole sta conducendo la Chiesa torinese a un cambiamento rapido. Fin dal suo insediamento nel 2022, neanche un mese dopo, inviò una lettera alla diocesi per chiedere a tutti i fedeli, laici e ordinati, «di guardare con lucidità la realtà e prendere sempre più profondamente coscienza che la nostra società non è più “normalmente cristiana”».
«Eppure – scrisse Repole – noi siamo ancora strutturati, a partire dalle nostre parrocchie, nell’implicito che tutti siano cristiani; e operiamo, a diversi livelli, sulla base dell’implicita convinzione che sia così, con il grave rischio di investire tantissime risorse in attività pastorali che sembrano non portare frutto, di non provare ad investire (all’inverso!) energie laddove si tratterebbe di osare qualche percorso nuovo e, soprattutto, di perdere noi per primi il gusto della vita cristiana e di una serena e gioiosa sequela del Signore».
«Appare sempre più chiara – concluse l’arcivescovo, che ha ripreso l’argomento in tre successive Lettere pastorali – la necessità, anche urgente, di ridisegnare il nostro modo di esistere, come Chiesa, sul territorio, al fine di continuare qui e ora ad essere ciò che dobbiamo essere e ad offrire il Vangelo alle donne e agli uomini che incontriamo e lo desiderano. Non farlo, significherebbe rimanere schiacciati da un passato che ci impedisce di compiere la nostra missione nel presente e, dunque, di essere fedeli a Cristo».
Alla ricerca di nuove strade
I torinesi forse non lo percepiscono, ma il caso della diocesi subalpina viene seguito con attenzione dalle altre Chiese italiane: interessa, perché sta cercando di aprire strade nuove.
Non è un tema di organizzazione (non basta decidere quante parrocchie affidare allo stesso parroco), ma di riflessione ecclesiale e teologica sui tempi nuovi, che i pessimisti vivono con depressione e invece Repole – divenuto vescovo dopo trent’anni di studi teologici – indica addirittura come occasione propizia, di purificazione per la Chiesa e di rilancio della testimonianza cristiana in un tempo storico di grandi inquietudini. C’è l’occasione per andare all’essenziale, senza ignorare le difficoltà.
Il ritorno delle piccole comunità ricorda i primi secoli della storia cristiana, che furono i più fertili di sempre. Anche a Torino l’affidamento delle parrocchie confinanti a parroci condivisi sta ovviamente avvenendo – e non mancano le resistenze, qualche comprensibile sofferenza o malumore –, ma la questione dei preti è solo l’elemento di percezione più immediata: esso si accompagna alla formazione di équipes composte da diaconi, religiosi e religiose, laici e famiglie preparate al servizio.
Si arriva alla creazione di queste équipes composite – il primo elemento del cambiamento – con molto lavoro di riflessione sulle persone, sulle competenze e le affinità. Il cambiamento è già avvenuto in vari territori, per esempio a Nichelino, Chieri, Moncalieri, Settimo Torinese, Savigliano, Torino Parella, Torino Parco Dora…
L’obiettivo irrinunciabile è garantire, attraverso i sacerdoti, la celebrazione dell’eucaristia domenicale in chiese raggiungibili, celebrazione senza la quale la Chiesa non sarebbe più Chiesa. È in ragione dell’eucaristia che i sacerdoti hanno la presidenza della comunità.
Rendere i laici corresponsabili
Poi c’è il secondo obiettivo: far crescere la corresponsabilità dei fedeli laici nella cura delle comunità, senza più riserve e reticenze.
Il riordino delle parrocchie è stato accompagnato dalla creazione, piuttosto impegnativa, di un Istituto diocesano di formazione (”Percorsi”) dedicato ai laici che vengono chiamati a ricoprire nuovi ministeri battesimali istituiti: lettore, accolito, catechista, servizi di referente per la carità e azione sociale. In prospettiva, sono previsti laici con il ministero di guida della comunità in équipe.
Fra dieci anni, probabilmente, il volto della Chiesa torinese sarà solo più questo. La diocesi si sta preparando anche a livello centrale. Messa da parte la vecchia organizzazione in uffici pastorali, ha conservato due sole Aree di coordinamento, una per l’Annuncio e la Celebrazione, l’altra per la Carità e Azione Sociale. Tutti i direttori di Area sono laici. Ed è laico – anzi laica, una donna – il cancelliere della diocesi. Laico il portavoce dell’arcivescovo.
La trasversalità cerca di condurre su percorsi unitari realtà pastorali che, fino a ieri, si disperdevano in molti rivoli, per esempio la pastorale giovanile (che adesso unisce gli oratori, ma anche il Seminario diocesano, il centro di animazione vocazionale, la pastorale universitaria) o l’Area Sociale, che, nel 2024, ha per la prima volta celebrato un convegno unitario di Caritas, pastorale del Lavoro, pastorale dei Migranti e pastorale della Salute.
Anche l’Area Sociale, fiore all’occhiello della Chiesa torinese, potrebbe presto trovarsi a fare i conti con la secolarizzazione e si sta interrogando, anch’essa non senza momenti dialettici, rispetto al cambiamento. Stanno sparendo i volontari anziani, ma i giovani non sono, per ora, di rimpiazzo; stanno venendo meno le offerte raccolte durante le Messe, ma calano anche i finanziamenti pubblici, cala l’Otto per Mille. Resta l’imperativo evangelico della carità, ma domani la risposta sarà legata soprattutto alla temperatura della fede nelle comunità. Torna il tema di partenza, alimentare la fede per tenere alta la carità.
Il cambiamento è in corso, registra slanci e fatiche. Si accompagna a un’ultima azione, che l’arcivescovo ha assunto in prima persona, di rinforzare con iniziative sistematiche la formazione cristiana dei giovani e degli adulti, nell’ipotesi che i contenuti della fede siano oggi sempre più generici e sbiaditi. Ogni due mesi la Catechesi tenuta da Repole per i giovani della diocesi, chiesa gremita. Ogni due mesi l’altra Catechesi per gli adulti, anch’essa molto seguita. Anche qui l’obiettivo è dichiarato: nutrire la fede, far conoscere il Vangelo, sennò si fa finta.
Alberto Riccadonna è direttore del settimanale diocesano di Torino La Voce e il Tempo.






Buongiorno ho letto l’articolo che mi è piaciuto molto. Trovo però che,come sempre, manca il riferimento importante del sacerdozio alle donne e pare che la chiesa non si preoccupa minimamente di riparlarne. Alla parrocchia di San Massimo a Collegno il giorno dei Santi non c’è stata una messa perché i sacerdoti erano chiamati al pomeriggio al cimitero. So che il nostro parroco fa ilpossibile, ma veramente, se la chiesa cattolica non si evolverà, mancherà di una potenzialità enorme e i fedeli saranno sempre più abbandonati per mancanza di vocazioni.
Un giornale torinese (Lo Spiffero, 15.11.2025) ha riportato una lettera di disappunto di chi ha letto l’articolo di Alberto Riccadonna sulla chiesa locale e ha concluso “i cattivi giornalisti non sono poi tanto meglio dei cattivi maestri”. A questa frase ha fatto eco la redazione del giornale puntualizzando che “Riccadonna è un ghostwriter del cardinale Repole, quindi si scrive Riccadonna, ma si legge Repole o Repole-Riccadonna”. In effetti questo giornalista non è soltanto direttore del settimanale diocesano ma è anche portavoce dell’arcivescovo e coordinatore della comunicazione diocesana.
Una simile concentrazione di potere non si era mai vista, ma nello specifico soddisfa almeno due requisiti: quello di dire soltanto ciò che l’arcivescovo vuole che sia detto, e quello di assicurare all’arcivescovo buoni rapporti con la “torinesità” intendendo qui con tale espressione non tanto uno stile dell’essere torinese, ma la relazione con quella parte minima e tuttavia potente di residenti che contano e detengono qualche potere.
Repole, sebbene sia nato a Torino, è figlio di una siciliana di Corleone e di un lucano di Rapone, immigrati nella periferia cittadina come molti altri all’avvento della piena industrializzazione della città. Anche se il padre divenne presto amministratore locale, il figlio – tra seminario, studi di teologia e pluridecennale docenza teologica – aveva ovviamente frequentazioni diverse da quelle di Riccadonna, che invece era ben radicato nella torinesità e oggi assicura questo radicamento anche all’arcivescovo attuale.
Non è questa la sede per approfondire il tema ed evidenziare le connessioni paradossali ma efficaci tra l’immigrazione, che si sentiva e si sente libera di modificare non solo la propria condizione ma anche il contesto in cui si trovava e si trova, ed una certa “torinesità” che gradiva e gradisce l’indebolimento e la diminuzione della chiesa locale.
Lo schema decostruzionista dell’arcivescovo Repole, di cui Riccadonna ha tessuto le lodi, corrisponde, oltre ad una particolare visione filosofica ed ecclesiologica, anche alle accennate condizioni di contesto.
Il redattore de “Lo Spiffero” ha smentito la dichiarazione di Riccadonna secondo il quale diverse chiese italiane guardano a Torino, e lo stesso arcivescovo (nella meditazione svolta ai preti di Treviso) ha sorprendentemente smentito il suo portavoce, che ha minimizzato i malumori del clero torinese, dicendo che questi sono molti e intensi. Qualcosa quindi non torna, o nell’eccesso di zelo di Riccadonna oppure nello schema decostruzionista del card. Repole.
Alcune contraddizioni di questo schema sono state evidenziate già dal lettore intervenuto su “Lo Spiffero” https://lospiffero.com/ls_ballatoio_article.php?id=4319 Altre meritano di essere segnalate per suscitare la riflessione, anche se quì non è possibile svolgerle approfonditamente:
1. La fine del regime di cristianità – Su questa frase abusata si basa lo schema di Repole, ma il fenomeno non è chiaro e neppure certo. Infatti non basta dire che diminuiscono preti e fedeli e le persone si autodeterminano per dichiarare la fine di quel regime. Depongono in senso contrario almeno quattro circostanze: A. il fatto che il cattolicesimo rimane in Italia quale cultura implicita e stile comportamentale nello Stato, nella società e in molti cittadini B. il fatto che un imprevisto sconvolgimento sociale (ad es. epidemia o guerra o altro) può riattivare improvvisamente e diffusamente la pratica religiosa C. il fatto che in Italia è tuttora operante un regime concordatario (con effetti di presenza ecclesiastica diffusa e riconosciuta e pagta dallo Stato) D. il fatto che il Vaticano è al centro dell’Italia ed è naturalmente destinato ad avere rapporti particolari con lo Stato italiano. Di tutto ciò ovviamente il card. Repole è consapevole, ma sembra non considerarlo nel suo schema decostruzionista, con la conseguenza da un lato di sottovalutare e rimuovere le responsabilità sociali e culturali della chiesa conseguenti al perdurare del regime di cristianità, o al suo eclissarsi, e dall’altro di escludere per azzardo che la cristianità possa riattivarsi e la chiesa possa e debba corrispondere a tale riattivazione
2. Liberarsi dalle strutture del cattolicesimo di massa – Pare un alleggerimento pensato in maniera irresponsabile, perché nulla dice sul destino del patrimonio esistente, né sulle conseguenze della deterritorializzazione della chiesa, né su come ridefinire la chiesa futura sul territorio in presenza di un’aumentata domanda religiosa
3. Ritornare all’esperienza della piccole comunità – Pare un riduzionismo che rischia il ripiegamento o la trasformazione della chiesa in setta, con pochi laici selezionati, formati secondo uno schema precostituito, e l’enfasi direzionale posta sul clero peripatetico. Non è dato sapere quanto clericalismo deriverà nei fatti da questa impostazione, né che cosa essa comporterà per il cattolicesimo sul territorio italiano e per il carattere di universalità connaturato a questa confessione religiosa.
Anche solo questi cenni potrebbero indurre ad essere più prudenti e riflessivi prima di proporre lo schema del card. Repole quale paradigma per altre chiese, oltre quella torinese, come ha fatto l’enfatico Riccadonna. E al tempo stesso potrebbe risultare opportuno imprimere minore vigore e velocità nella decostruzione della chiesa di Torino. Così facendo si potrebbe forse trovare il tempo e il modo per individuare anche a Torino altri, diversi e più fecondi correttivi delle criticità attuali, e al tempo stesso mantenere e rigenerare quell’entusiasmo e quello slancio che hanno distinto e possono ancora distinguere la chiesa torinese, sempre che nel frattempo non sia ulteriormente “decostruita”.
L’entusiasmo del direttore del settimanale torinese , come ormai fanno tutti (tutti) i giornali è quello di mascherare la realtà. A caso si provi a chiedere ad un qualsiasi parroco torinese come vede i cambiamenti. E la risposta verrà subito. I veri cambiamenti avvengonoo in altro modo.
Francamente trovo il caso torinese nel panorama ecclesiale italiano molto interessante (insieme a quelle di Bolzano-Bressanone). Qualcosa, seppur molto lentamente, in Italia cambia: evviva!
Sono d’ accordo. Mi sembra giusto ripartire dalla Fede e quindi da corsi di preparazione per i giovani. È bene che i presbiteri si dedichino al ministero della Parola e dei Sacramenti, e che ai laici siano riservati compiti più burocratici di ufficio e anche organizzativi.
Invece di allontanare i sacerdoti del Verbo Incarnato perché non inserirli nelle varie parrocchie? Se certi sacerdoti non fossero allontanati o isolati perché non graditi al cardinale o al suo vicario, ne avremmo molti e santi sacerdoti a curare le parrocchie
La Chiesa ha perso consenso perché i Presbiteri, si sono arroccati al loro potere di decidere tutto per tutti. Non ascoltando gli impegnati ed in particolare mettendo da parte chi li disturbava, togliendo incarichi, catechesi e lettura della Bibbia, con discussione corale.
Personalmente, dopo 47 anni di Catechista, mai una assenza, esautorato con una mail notturna.
Tenendo conto che in ottica di fede, in primis per cambiamento si intende un ri-nascere costantemente dall’alto attraverso una costante ascesi e conversione personale attraverso i Sacramenti che la Chiesa offre, poi e soltanto dopo bisognerà intendersi bene che cosa si voglia intendere dal punto di vista poi pastorale ri-partendo per esempio da alcune questioni ancora rimaste gravemente in sospeso come
“correggere le false immagini, fare luce nel buio, in particolare sulle circostanze delle sue dimissioni (di papa Benedetto XVI) che hanno tenuto il mondo con il fiato sospeso”
(citaz. di pag. 17 dal testo originale “ULTIME CONVERSAZIONI” approvato e autorizzato dal papa emerito Benedetto XVI – pubblicato in contemporanea internazionale nel 2016)
In rapido dissolvimento (pure questo è un cambiamento, infatti, ma almeno chiariamo che non ogni cambiamento è per ciò stesso buono)