
«Signor Hitchcock, qual è la sua definizione di felicità?».
«Un limpido orizzonte, nessuna preoccupazione. Solo creatività».
Sono le parole di un dialogo fittizio con protagonista Alfred Hitchcock che, insieme ad altri registi, al culmine della guerra fredda e sotto la minaccia di un possibile annientamento atomico, decidono di preservare tutti i film dalla fine del mondo, e condensare l’intera storia del cinema in un’unica particella di luce. Questo è il progetto ARCA, il lascito dell’umanità che spera, attraverso la settima arte, di lasciare una testimonianza di quanto di più buono e vero c’è nel cuore dell’uomo, ai fini di una possibile rifondazione dell’umano dopo la sua forse inevitabile estinzione per sua stessa mano. ARCA è il titolo dell’ultimo cortometraggio del giovane e talentuoso regista Lorenzo Quagliozzi, presentato alla Settimana Internazionale della Critica durante l’82esima Mostra del Cinema di Venezia.

Nato nel 1999, Quagliozzi è un giovane autore italiano che si sta facendo notare per la capacità di unire una notevole padronanza tecnica a una scrittura mai banale, ricca di temi profondi e marcatamente poetici. Tra i fili rossi rintracciabili nella sua opera emergono in particolare: il complesso rapporto di forze che si gioca tra la storia personale del singolo individuo e la storia degli uomini, il determinismo sociale e l’interiorità.
Quagliozzi ha maturato esperienze importanti come collaboratore in produzioni di rilievo quali la documentazione videografica della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea (GNAM) a Roma; è stato assistente alla regia in The New Pope al fianco di P.Sorrentino e in Esterno Notte di M.Bellocchio. La sua filmografia, composta di soli corti, comprende Illusione (2020), Il mio cuore è vuoto come uno specchio – Episodio di Odessa (2022), De l’amour perdu (2023), fino ad arrivare al già citato ARCA (2025).

Quest’ultimo rappresenta certamente un capitolo ambizioso per il giovane regista, ambizione che a giudicare dal risultato si può dire pienamente raggiunta. Nell’arco dei suoi venti minuti di durata ARCA si presenta come un corto estremamente tecnico ed elegante, in cui la chiarezza e la cura delle immagini sostengono un racconto profondamente lirico. Il corto mostra il tentativo di Racchiudere la cinematografia mondiale in un’unica particella fotonica, l’arca appunto, che dovrà custodire lo spirito artistico dell’umanità attraverso il diluvio di pestilenze e guerre, fino alla terra dove potrà schiudersi nuovamente, e liberare le sue immagini di luce e speranza. Un corto che fa proprie le parole del regista D.W. Griffith, il quale sosteneva che a «100 anni da oggi – scriveva nel 1924 – il Cinema avrà eliminato dal mondo civilizzato tutti i conflitti armati. Attraverso il linguaggio universale delle immagini in movimento, il vero significato della fratellanza umana sarà stabilito su tutta la Terra».
Quagliozzi stesso ha dichiarato l’importanza di tale progetto, inseguito e pensato nell’arco di anni: «Un dramma fantascientifico in cui ho riversato i sogni più luminosi della mia adolescenza. Lo immaginai come un corto quando avevo 15 anni e durante gli anni del liceo ne feci la mia scuola di cinema, nel tentativo di trasformarlo in un lungo. Desideravo realizzare un grande racconto sulla Hollywood classica, all’interno di una cornice ispirata alla fantascienza adulta degli anni ‘70 e a un modo di fare film che con poco riusciva a fare tantissimo».

Se ARCA porta a maturazione diverse idee del regista, tutta la produzione di Quagliozzi merita di essere scoperta e apprezzata sia per la ricerca estetica, sia per quella tematica, nella quale anche il teologo può trovare spunti di grande interesse. Tra questi citiamo in particolare l’alleanza tra Quagliozzi e l’artista Gian Maria Tosatti, sfociata in un corto/docufilm del 2022. A partire dal 2018 Gian Maria Tosatti ha concentrato le sue energie su un progetto intitolato Il mio cuore è vuoto come uno specchio, un romanzo visivo a episodi, sviluppato in giro per il mondo con l’obiettivo di testimoniare lo stato di crisi della democrazia in Occidente.
«L’ episodio di Odessa – che segue le tappe di Catania, Riga e Cape Town – è l’installazione sviluppata dall’artista dopo un lungo periodo passato in Ucraina, nel momento più drammatico dell’emergenza Covid-19, quando il paese era chiuso agli stranieri. Il film racconta gli sforzi fatti per portare a compimento un lavoro potentemente visionario in quei mesi così difficili». L’installazione artistica di Tosatti prevedeva, attraverso l’utilizzo di lavoratori locali, l’istallazione di lampioni sulla spiaggia deserta e fangosa di Odessa. Un’opera quasi profetica quella immortalata da Quagliozzi, con una regia che sfiora il simbolismo più raffinato e che può essere considerata a tutti gli effetti una riflessione teologica sulla ri-creazione del mondo.

Il titolo del documentario è già una indicazione preziosa, si tratta di una citazione tratta dal film manifesto di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo (1957): «vorrei confessarmi – dice il cavaliere protagonista della pellicola – ma non ne sono capace, perché il mio cuore è vuoto. Ed è vuoto come uno specchio che sono costretto a fissare, mi ci vedo riflesso e provo soltanto disgusto e paura. Vi vedo indifferenza verso il prossimo, verso tutti i miei irriconoscibili simili; vi scorgo immagini d’incubo, nate dai miei sogni, dalle mie fantasie». Lo specchio, la superficie che restituisce la realtà deformata e che separa l’uomo dalla verità dell’ultima immagine, è il tema che Quagliozzi suggerisce magistralmente con la sua regia. La terra e l’acqua protagoniste del documentario sono gli orizzonti in cui si gioca la tensione tra caos e forma. La spiaggia di Odessa diventa il luogo in cui la creazione non ha avuto ancora fine; l’acqua – che Quagliozzi rende protagonista, cogliendo i riflessi deformati dalla sua superficie mobile – è il bacino in cui tutte le forme sono possibili fino a che non sarà proferita la parola ordinatrice del creatore. Il tema della creazione è centrale nel documentario e nella stessa operazione artistica di Tosatti: la faticosa installazione dei pali luminosi è da interpretare come una speranza di attivare artificialmente l’attimo creatore per illuminare il mondo affondato nel caos, per ricordare a Dio – così come dice lo stesso Tosatti in uno dei momenti finali del corto – che l’uomo è ancora qui che aspetta di essere visto da Lui.
Seppur composto di soli cortometraggi, il lavoro di Quagliozzi testimonia con forza e chiarezza che il cinema occupa, oltre a un posto centrale nell’economia dell’industria culturale contemporanea, una tappa fondamentale nello sviluppo della coscienza umana. Non ci sembra esagerato dire che quando P. Teilhard de Chardin apriva il suo grande classico, Il fenomeno umano, con l’imperativo vedere o perire, forse si riferiva anche all’importanza che il cinema avrebbe occupato nell’evoluzione della coscienza dell’umanità. Ecco perché «la storia del mondo vivente si riduce all’elaborazione di occhi sempre più perfetti in seno ad un Cosmo in cui è possibile discernere sempre meglio»[1]: in fondo anche Mosè nel libro dell’Esodo sembra fare un’esperienza cinematografica che è una presa di coscienza della sua essenza interiore, della sua vocazione. Di fronte al mistero del roveto ardente il profeta dirà: «voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?» (Es 3,3).

L’opera di Quagliozzi, di cui aspettiamo con interesse le prossime evoluzioni, esprime l’essenzialità del vedere, attività indispensabile alla realizzazione integrale dell’uomo, perché dal vedere, dal discernimento del reale, dipende la bontà di ogni ordinamento giuridico e morale: «Vedere. Si potrebbe dire che, in questa parola, è racchiusa tutta la Vita, se non nella sua finalità, almeno nella sua essenza».[2]
Certamente l’arte di Quagliozzi punta alla messa in scena dell’essenza, all’essere più che all’esistente.
[1] P. Teilhard de Chardin, Il fenomeno umano, Queriniana, Brescia 2020, 27.
[2] Ibidem.





