
Ci troviamo di fronte a un evento di dolorosa risonanza: il duplice suicidio assistito di Alice ed Ellen Kessler. Questo gesto, compiuto da figure che per anni hanno rappresentato la leggerezza e lo spirito spensierato, travalica la cronaca e ci pone di fronte a uno specchio implacabile, riflettendo la hybris dell’uomo contemporaneo.
La tragedia delle gemelle, amate come simboli di un’epoca, è stata rapidamente incasellata, quasi pacificata, sotto l’egida dell’autodeterminazione e della dignità. Si è cercato di elevare il suicidio a scelta “libera” e “coerente” con una modernità che pare non tollerare più il limite, la fragilità, o il declino. Ma è proprio in questa fretta di giustificazione che si annida la più pericolosa forma di tracotanza.
La hybris (tracotanza, arroganza) nel pensiero greco classico era il superamento del limite imposto dagli dèi, un atto che invariabilmente portava alla nemesis (la punizione divina). Oggi, abbiamo secolarizzato questo concetto, ma la dinamica rimane. L’uomo contemporaneo, saturato dalla retorica dell’individualismo e dell’onnipotenza tecnologica, sembra credere che non esista più alcun margine o limite alla sua volontà, nemmeno sulla vita e la morte.
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La filosofia sottesa a questa accettazione del suicidio assistito è che la vita sia un bene esclusivo dell’individuo, una merce di cui disporre a piacimento. L’individuo, in un atto di auto-adorazione, si pone come unico giudice e boia della propria esistenza, rifiutando l’idea che la vita sia un “bene di tutti” che va protetto. L’antropologia padronale trasforma l’essere umano da creatura che riceve la vita come Dono a Dominus che ne dispone come merce.
Quando l’accettazione del suicidio, anche se “assistito”, diventa un modello di dignità, si verifica una profonda distorsione etica. Non stiamo solo parlando di singoli drammi, ma di una sconfitta collettiva. È più facile offrire un farmaco letale che garantire una rete di supporto che convinca la persona che “la tua vita vale fino in fondo”.
Rimuovere ogni cautela, ogni verifica che vada oltre la mera “piena consapevolezza della scelta suicida” (come nell’esempio tedesco), rischia di spingere verso un abisso dove la vita fragile non è più un valore assoluto da custodire, ma un onere eliminabile. Questa hybris non è la forza dell’autonomia, ma la fragilità di una società che si arrende al dolore e alla disperazione.
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Se la hybris dell’uomo è la pretesa di non avere limiti sulla propria esistenza, la virtus di una società civile deve essere quella di opporre a questa pretesa l’abbraccio incondizionato della cura e della protezione della vita in ogni sua fase, specialmente quella più precaria. L’essenza stessa della hybris contemporanea va oltre la semplice “scelta” di fine vita per svelare una vera e propria antropologia padronale e dispotica.
Non è sufficiente affermare che vogliamo scegliere di morire; la pulsione più profonda e inquietante del nostro tempo è quella di non permettere che la morte accada come evento naturale o destinale, ma di determinarne noi il momento preciso e sovrano.
Il nucleo di questa mentalità è la pretesa di assoluta padronanza della vita e sulla vita, dal suo evento sorgivo (il nascere, sempre più mediato dalla tecnica) a quello culminante (il morire).
La morte, in quanto fysis, è l’ultimo baluardo del non-dominabile. È ciò che sfugge al nostro controllo, il punto in cui la volontà umana incontra un limite insormontabile. La civiltà tecnica, votata all’eliminazione dell’imprevisto e del non-gestibile, non può tollerare un evento di tale portata che non sia stato precedentemente autorizzato.
Determinare il momento esatto del trapasso significa trasformare la morte da ricevimento (l’accadere) a produzione (il fare). Diventa l’ultimo, definitivo atto di volontà, una firma in calce all’esistenza per certificarne l’autonomia assoluta. In questo modo, l’individuo non soccombe al tempo o al decadimento, ma esercita la sua sovranità finale, trasformando la fragilità in un ultimo, drammatico gesto di potere.
Questa antropologia padronale riflette una visione ontologica in cui l’uomo non è più homo (essere mortale), ma dominus (padrone).
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Affermare il proprio dominio sul nascere e sul morire è l’atto finale di secessione dell’Io dalla comunità. La vita non è un bene comune né un dono che impone responsabilità reciproche, ma una licenza di cui si dispone a proprio piacimento. Il dominus non ha bisogno di testimoni o sostegni, solo di esecutori della sua ultima direttiva.
L’autodeterminazione, da principio di rispetto della persona, si muta in tirannia. Diventa l’obbligo di scegliere, anche quando si è più vulnerabili. Se il decidere è l’unica via per la dignità, implicitamente si svaluta l’esistenza di chi non può o non vuole più decidere, o di chi semplicemente resiste passivamente al suo destino biologico. La disperazione e la fragilità non sono più chiamate a sostegno, ma a giustificazione della propria eliminazione.
Voler “programmare” la morte è un tentativo di espellere il tragico e il mistero dall’esistenza umana. La morte perde la sua funzione di limite che definisce il senso della vita. Essa non è più l’ombra che conferisce acutezza e valore al tempo, ma un fastidioso bug nel sistema, da rimuovere con un comando esecutivo.
Di fronte a questa hybris dispotica, la filosofia ci invita a riscoprire la sophrosyne, la saggezza che riconosce i propri limiti. La vera forza, la vera libertà, non risiede nell’atto di poter disporre della propria fine, ma nella capacità di custodire la vita altrui e la propria (come bene comune) anche quando la speranza svanisce e il corpo cede.
La domanda, dunque, non è “possiamo determinare la morte?”. L’ipertrofia dell’autodeterminazione esige di mettere la morte in scena come ultimo, auto-prodotto, trionfo della volontà.
Se viviamo in una “società dello spettacolo” (per usare una felice espressione situazionista), dove l’essere è indissolubilmente legato all’apparire e all’essere visto sulla scena, è inevitabile che anche il momento supremo – la fine – debba essere trasformato in una messa in scena curata e potente.
Nella logica dello spettacolo, la morte non può essere un evento grigio, anonimo, o, peggio, involontario. Deve essere, al contrario, un gran finale che sigilla e conferisce significato retroattivo a tutta l’esistenza:
L’atto di morire assistito è l’estremo tentativo di teatralizzare il proprio telos (fine). Non si muore per debolezza, ma per scelta risoluta. Si cerca una morte “pulita”, “dignitosa” e “controllata”, che non sporchi la narrazione dell’Io con l’orrore del decadimento, della sofferenza non gestibile o dell’impotenza. È l’ultima opera di self-branding: la mia vita è stata sotto il mio controllo, e lo è anche la mia fine.
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Pensiamo al caso delle gemelle Kessler, personaggi pubblici per antonomasia. La loro “uscita di scena” è stata immediatamente interpretata, celebrata e replicata nei frammenti televisivi. La loro scelta non è rimasta privata, ma è stata assorbita e presentata dal medium (la TV/digitale) come un modello performativo di libertà. Questo trasforma il dramma in un messaggio pubblico, amplificando l’illusione che la morte volontaria sia l’atto di massima autenticità in un mondo altrimenti finto.
La società dello spettacolo detesta l’anti-climax, l’episodio noioso, la dissolvenza lenta e non voluta. La morte naturale, spesso lunga, confusa, e priva di dignità pubblica, è l’anti-climax per eccellenza. L’eutanasia (intesa in senso lato) offre la possibilità di un finale deciso, puntuale e memorabile, un colpo di scena che non lascia spazio all’ambiguità, garantendo che l’ultima impressione sia un’immagine di forza, non di fragilità.
Voler determinare il momento preciso del trapasso è un tentativo di espellere il tragico e l’impotenza, elementi che definiscono la nostra condizione mortale. La morte naturale (spesso lunga e confusa) è respinta in quanto anti-climax.
In sostanza, se il logos della nostra società è la performance, allora anche la morte deve piegarsi a questa logica. L’ultima hybris non è solo credere di controllare la morte, ma di doverla direzionare, coreografare e presentare, affinché abbia un senso compiuto e socialmente accettabile.
Se la morte diventa l’ultimo atto performativo, stiamo davvero onorando la libertà della persona, o stiamo semplicemente obbligandola a produrre un’ultima, necessaria, finzione di dominio per non svalutare la sua intera esistenza agli occhi di una società che premia solo chi è padronale e dispotico persino sulla propria fine?






Sembra un film del terrore. Si stendono assieme, si tengono per mano, ingoiano una pillola a testa, si guardano mentre lentamente se ne vanno per sempre. Orribile, ai miei occhi, disumano. Prima le stimavo ritenendole moderne ed emancipate. Ora mi fanno pena. Avevano la possibilità di essere ancora d’aiuto al prossimo invece con gelido egoismo e paurosa determinazione decidono di andarsene. Nessun elogio, perciò ma solo compassione e compatimento. Ed ora attendiamoci la valanga di critiche ed insulti tipiche di una parte della società che ha smarrito i valori fondamentali della nostra esistenza.
Concordo. E la cosa più spaventosa è stata la cinica pianificazione con anni di anticipo, e la cosa assurda è che lo dicevano in tutte le interviste e gli intervistatori cambiavano discorso per l’orrore che provavano…
Uscita dalla scena mondiale ma entrata nella scena eterna : in cui i parametri non sono li stessi Bellezza ,ricchezza ,successo, notorieta, ‘ non sono valori spendibili sulla scena della vita eterna . Lo sono bonta’ ,umilta’ , fede in Dio . Preghiamo per le gemelle Kessler e per tutti i defunti .
Le parole “Giudizio di Dio” e “Dannazione Eterna”… non pervenute. Ormai i cattolici che si vergognano della loro Fede scrivono anche nei cd giornali cattolici. Rileggere la Divina Commedia.
perchè non sta ai cattolici decidere chi è dannato e chi no, nemmeno a te sta decidere cosa devono dire gli altri.
ricorda che il ladrone è finito in paradiso dopo anni di furti e omicidi per una semplice frase.
Erano famose e gemelle il che rende ancora più eclatante un gesto che a quanto pare però rientra in quanto previsto dalla legge tedesca sul suicidio assistito. Immagino altri nel silenzio dell’anonimato lo abbiano già fatto e altri lo faranno.
Detto questo bisognerebbe prendersela con la legge più che con chi la utilizza. Ma forse essendo un caso eclatante occorre in qualche modo provare ad impedire che diventi un esempio con un tono moraleggiante che secondo me serve a poco.
Non sono d’accordo con l’Autore ma non è importante. Si tratta di scelte e drammi individuali che meriterebbero maggiore silenzio e nessuno che si metta in cattedra a giudicare. Vorrei vedere quando spetterà ad ognuno di noi, allora tocchi con mano paure profonde… Invece mi colpisce il silenzio della Chiesa, dei teologi morali. Avvenire solo due giorni dopo ha costruito una pagina sempre per dire ‘no’ a qualunque scelta che tocchi la ‘sacralità’ della vita. Ma che vuol dire in concreto, che una ideologia/religione/specialista, decide al posto mio? I teologi moralisti dove sono? Che dicono? Eppure alcuni hanno prodotto due testi importanti: Etica Teologica della Vita (LEV, 2022) e il Piccolo Lessico del Fine-Vita (LEV, 2024), anche tradotto in francese. Ma di fronte a casi di cronaca, assistiamo al silenzio (“assistito”????).
Maggior silenzio sarebbe più facile se i giornali non ne parlassero h24. Se ne parli apertamente ci sta che ne parlino tutti.
perchè, cose ci sta da dire?
Ma infatti sono i giornali che ne hanno parlato per giorni, un po’ perchè erano personaggi abbastanza famosi, un po’ perchè culturalmente si discute di fine vita ed eutanasia in vari paesi.
Qualche settimana fa nel mio quartiere un anziano ha ucciso la moglie malata con la pistola e si è sparato. Sui quotidiani se ne è parlato 30 secondi, le dinamiche alla fine sono quelle, malattia, paura della vecchiaia ecc. Se ne parla perchè con l’invecchiamento della popolazione questi casi aumentano, alcuni fanno notizia altri finiscono con tre righe a pagina 10 di un quotidiano locale.
La Conferenza Episcopale Tedesca dei vescovi cattolici (DBK) ha emanato una nota di commento.
Aggiungo ancora una riflessione: da sempre ci sono stati i suicidi, scelte “libere”, di libero arbitrio di chi sceglie di finire una vita che non ha più voglia di vivere.
Ma da sempre, la società, ha letto questi atti come una resa, e semai, come la sconfitta di una comunità non in grado di farsi carico del problema altrui..la Cura..
Ora, la legge del mercato, entra anche qui: le cliniche si fanno pagare, ma l’ipocrisia rimane: il farmaco letale te lo inietti tu ..non ti butti dal ponte, lo fai in un bell’ambiente, o supportato a casa tua, non so, ma il risultato non cambia: hai paura? Sei stufo? La società prende in carico il tuo problema e la tua domanda, e ti offre la soluzione a modico prezzo..e crediamo pure di essere liberi mah..
Quando ho sentito la notizia non ho provato sgomento né sono rimasta scandalizzata.. non posso giudicare.. non conosco i fatti e i cuori.. però mi pongo questa domanda.. cosa e chi avranno trovato dopo? Spero un angelo del Paradiso che dirà loro.. perché avete posto fine alla vita che vi è stata donata? Certamente l’Angelo lo sa già.. ma lo chiederà per farle ragionare.. meditare.. magari non risponderanno subito.. e allora saranno invitate a fare un’altra strada.. dove potranno riflettere bene sul gesto compiuto e giungere alla Verità.
Spero così per ogni persona che decide liberamente al posto di Dio.. senza traumi.. né castighi.. magari in compagnia di quell’Angelo.. che le assiste lungo il cammino.. a far Luce.
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Questo è NEW AGE non cattolicesimo.
Il Cattolicesimo non deve essere una scatola chiusa.. è fatto di persone che camminano.. si aprono ai cambiamenti.. in sintesi SPERANO.. lungo i percorsi sinodali aperti dalla Chiesa.. sta a noi osare.. essere protagonisti.. consacrati e laici.. cogliere i suggerimenti dello Spirito Santo e tradurli in Voci.. Azioni.. Affermazioni.. Cambiamenti.
Questa è la cosa nuova fatta dal Signore.
… e persone che si siucidano?
Mi spiace perché il “diritto a morire”, con una scienza medica che permette di “tenere in vita” in situazioni che di vita naturale non hanno più nulla, è affar serio, di cui le legislazioni certamente si devono occupare.
Ma qui siamo di fronte a qualcos’altro: è la paura, più che la libertà, che determina questo tipo di scelte programmate, secondo me.
E di certo, non l’accettazione del corso naturale e del libero fluire della Vita..
E i condizionamenti sottili a cui siamo sottoposti, ce la fanno leggere come libertà.
A questa società, in fondo, fa più comodo che il fragile si tolga di mezzo. È una scorciatoia, non un affrontare il problema. Ed è un po’ come un forzare la mano per impedire che l’imprevisto e l’inaspettato, possano avere la meglio su di me..Ma una vita senza il rischio, o l’imprevedibilità, cos’è?
Sono i robot che programmano, non gli esseri umani..boh. c’è qualcosa che non mi torna e mi mette a disagio..Questa, effettivamente, è l’apoteosi della dittatura dell’ego: altro che lasciare andare per trovare lo Spirito, come ogni tradizione spirituale ha sempre invitato a fare: così la mia esistenza è circoscritta a me stessa, non appartiene ad un flusso più grande, non fa parte della Vita che tutto riguarda, non si lascia andare nel fluire del Tutto..si chiude e si confina in difesa di se stessa, altro che a espandersi e liberarsi..
Il mondo dello Spirito esiste.. e noi da questa parte siamo un riflesso dell’altra.. ma esiste.. eccome se non esiste.. Il problema è il giudizio che ci attende.. spero.. con la mia preghiera.. continua.. e piena di speranza.. di smussare ogni spigolo.. di addolcire ogni asperità.. in modo da annullare ogni pena.. se non quella di camminare.. camminare.. fino alla meta. Il Signore Gesù è infinitamente buono e ha il cuore aperto.. attingo alla Sua Fonte e spero.
Ognuno è padrone della propria vita e ha il diritto di disporne come gli pare. Le gemelle Kessler hanno compiuto una scelta libera e consapevole: nate insieme, inseparabili nella vita, hanno voluto essere insieme e inseparabili anche nella morte. Non si è affatto una tragedia: tragedia è quella di chi muore senza averlo deciso (un incidente stradale o sul lavoro, per esempio), magari nel pieno della vita e della salute e con tanti progetti per il futuro. Non è il caso delle gemelle Kessler. La loro fine è stato una loro scelta libera e consapevole, che dev’essere rispettata.
Per quel poco coche potevo conoscere di queste due icone del novecento, questa decisione mi ha decisamente spiazzata, le facevo forti e resistenti e destinate al centenario o, comunque, abbastanza intelligenti da sapere che la morte come la vita arrivano quando lo decidono loro e non sono autodeterminabili.
Mi è piaciuto molto questo articolo, grazie all’autore, descrive molto bene lo sgomento che si prova nel constatare quanto la società attuale stia mettendo tutto su un piano inclinato che va decisamente verso un abisso di ignoranza e di superficialità di mancanza di spiritualità e di ipocrisia. Considerare la vecchiaia come una vergogna da nascondere o addirittura da sopprimere è una involuzione e un regresso della civiltà e l’uomo sta suicidandosi in molti modi sia da anziano che da giovane, promuovendo guerre e stili di vita che possono portare alla morte precoce.
Una autodistruzione di cui pare non avere consapevolezza.
Grazie per la riflessione offerta