Tematiche dottrinali e questioni disciplinari
Il concilio di Nicea primo (325), convocato da Costantino il grande in una città vicina a Nicomedia (residenza dell’imperatore e capitale dell’impero) allo scopo di riportare la pace tra i vescovi dell’impero, non fu soltanto un momento di elaborazione e approvazione della famosa formula di fede, ma anche una riunione ecumenica per promulgare ben venti canoni di tenore giuridico-disciplinare.
Insieme con la nuova – ma ben presto controversa – aggettivazione della seconda Persona divina rispetto al Padre (generato, non creato, della stessa “ousìa” del Padre), quel raduno conciliare promulgò, infatti, una serie di puntualizzazioni solenni – ben venti canoni – su varie questioni teoriche e disciplinari, che interessavano allora la vita quotidiana delle Chiese particolari di Oriente e di Occidente.
Esse dovevano preoccupare non solo i vescovi che erano riusciti ad arrivare nella sede conciliare, ma perfino l’imperatore, soprattutto a motivo delle infrazioni disciplinari a quella che potremmo sinteticamente descrivere come territorialità dei ministri ordinati, che davano luogo a veri e propri scontri tra Chiese e pastori di esse.
Diverse, tra le questioni allora affrontate, oggi ritornano attuali, soprattutto quelle che allora erano relative all’importanza della preparazione dei candidati al ministero ordinato, nonché alla vigilanza/esame previo alla cosiddetta imposizione delle mani nei riti di ordinazione episcopale, sacerdotale e diaconale.
Non esistevano i seminari, che saranno un frutto del “moderno” Concilio di Trento; ma esisteva comunque – come si ricava dai canoni approvati a Nicea – una sorta di regolamento di formazione/preparazione, nonché una specie di disciplinare d’idoneità per candidati all’ordine episcopale, al sacerdozio e al diaconato ordinato.
Attualità di antiche istanze
Istanze tardo-antiche, queste appena accennate, che oggi ridiventano urgenti per la Chiesa, se appena si ricorda che il Documento conclusivo del Sinodo dei vescovi tiene d’occhio la formazione specifica necessaria per i singoli ministeri e per le diverse forme di vita.
In particolare, si tenga conto di quanto si legge nel n. 148 del Documento finale della seconda e ultima assemblea della XVI Assemblea ordinaria del Sinodo dei vescovi, là dove si parla esplicitamente di percorsi di discernimento e di formazione dei candidati al ministero ordinato:
«L’Assemblea chiede una revisione della Ratio Fundamentalis Institutionis Sacerdotalis che recepisca le istanze maturate nel Sinodo, traducendole in indicazioni precise per una formazione alla sinodalità. I percorsi formativi sappiano destare nei candidati la passione per la missione ad gentes. Non meno necessaria è la formazione dei vescovi, perché possano assumere sempre meglio la loro missione di comporre in unità i doni dello Spirito ed esercitare in stile sinodale l’autorità loro conferita. Lo stile sinodale della formazione implica che la dimensione ecumenica sia presente in tutti gli aspetti dei percorsi verso il ministero ordinato».[1]
In sintesi, si tratta della richiesta di nuovi percorsi formativi per coloro che si preparano al ministero ordinato, con particolare attenzione alla sinodalità e alla dimensione ecumenica; inoltre, formazione specifica dei vescovi, in vista del loro peculiare carisma di comporre in unità i doni carismatici.
La memoria dei 1700 anni da Nicea, come obiettivo dell’Anno santo comporta, perciò, attenzione anche ai canoni niceni circa la disciplina del clero e dei vescovi del quarto secolo. Come si legge nella Bolla d’indizione, occorrerà, infatti, approfondire insieme «tematiche dottrinali e questioni disciplinari».[2]
La vita della Chiesa e delle sue forme teologiche, liturgiche, pastorali e disciplinari, in cui essa si esprime, restano insomma un punto all’ordine del giorno.
Problemi disciplinari relativi a vescovi e clero
Tra le puntualizzazioni giuridiche del sinodo di Nicea primo, brillano i temi e i problemi dell’ordinazione sacerdotale di vescovi e di membri del clero. In entrambi i casi, il canone nono prescrive un esame previo, finalizzato a verificarne l’irreprensibilità della condotta, pena il non-riconoscimento di già avvenute ordinazioni (il cui rito, come si legge, era già quello dell’imposizione delle mani) di candidati che, al momento dell’esame previo all’ordinazione, abbiano confessato dei falli.
Ciò tanto più che, in alcune zone dell’impero, a motivo di qualche focolaio residuo di persecuzioni di funzionari imperiali locali, venivano talvolta impropriamente ammessi tra il clero dei lapsi, cioè dei battezzati “caduti”, ovvero dei rinnegati, che la disciplina ecclesiastica consolidata riteneva di non poter ammettere al sacerdozio.
Soltanto degli uomini irreprensibili, insomma, erano reputati degni di entrare tra i membri del clero, al punto che il decimo canone niceno prevede che, «se alcuni di quelli che hanno rinnegato la fede cristiana sono stati eletti sacerdoti o per ignoranza o per simulazione di quelli che li hanno scelti, questo non porta pregiudizio alla disciplina ecclesiastica: una volta scoperti, infatti, costoro saranno deposti».
Non siamo di fronte alle premesse remote di quelli che, in età contemporanea, saranno qualificati come delicta graviora che, se provati, comportano oggi la “deposizione” dallo stato clericale?
Condizione e gestione giuridica e pastorale dei vescovi e del clero
Ancor oggi restano all’ordine del giorno le istanze della collegialità e, insieme, dell’autonomia territoriale delle singole Chiese e dei “gruppi di Chiese”. Attualmente, all’antico riferimento alle metropolie, mai cessato o superato, è sopraggiunta l’attenzione per l’ambito della competenza dottrinale e disciplinare delle Conferenze episcopali, sia a livello regionale che nazionale.
Se il già citato documento sinodale chiede oggi di precisare l’ambito della competenza dottrinale e disciplinare delle Conferenze episcopali, diversi canoni niceni, riguardanti l’episcopato e il clero, ragionavano nell’orizzonte della territorialità e della collegialità dei vescovi, in un sapiente dosaggio tra autonomia del singolo pastore e raccordo collegiale in un determinato territorio detto metropolia.
Il secondo canone di Nicea primo inventariava, anzitutto, il caso di coloro che erano ammessi nel clero subito dopo essere stati battezzati, senza un periodo di preparazione e di scrutinio.
Pur non escludendo il battesimo dei bambini (pedobattesimo), infatti, la prassi ordinaria, nel quarto secolo, era quella di ammettere i candidati al battesimo nel ceto dei catecumeni, in vista di un articolato processo penitenziale e dottrinale d’iniziazione cristiana e, poi, ammetterli, previo scrutinio, al rito battesimale degli adulti.
Tuttavia, si stava probabilmente, ai tempi di Nicea, cominciando a verificare che «per necessità, o sotto la pressione di qualcuno» alcuni, seppur venuti da poco alla fede cristiana dal paganesimo e istruiti in breve tempo, venivano subito ammessi al battesimo e, immediatamente, erano promossi anche al sacerdozio o all’episcopato.
Già nel secondo secolo, Giustino, nella Prima Apologia (1,61–63), aveva parlato diffusamente dei riti cristiani d’iniziazione, in particolare del battesimo, descrivendo l’uso di immergersi nell’acqua prima di entrare e dopo essere usciti da un santuario.
Il percorso di conversione dell’adulto, insomma, approdava, già al tempo dell’apologia, al suggello del battesimo solamente dopo un itinerario penitenziale, rituale e catechistico, concepito come un passaggio da un antico modo di vita ad uno nuovo, ovvero come una rinascita dell’individuo: il neo-battezzato diventava un illuminato, cioè una persona nuova, inserendosi pressoché per sempre all’interno di una nuova rete di legami e di responsabilità, segnate dal momento irreversibile e irrevocabile del battesimo.
Nel passaggio tra il V e VI secolo d.C., Cesario di Arles, quasi dando a conoscere certe istanze di Nicea, soprattutto quelle della promessa irrevocabile e dell’esame-scrutinio, scriverà testualmente, anche chiarendo il significato del pedobattesimo:
«E, benché tutto ciò che uno ha promesso, se può, deve metterlo in pratica, tuttavia quella prima e splendida promessa, che al tempo in cui rinasciamo mediante il battesimo noi abbiamo fatto a Dio, con il suo aiuto dobbiamo mantenerla in maniera particolare. Veniamo infatti interrogati al momento del battesimo se rinunciamo al diavolo, alle sue seduzioni e alle sue opere; e noi liberamente rispondiamo che vi rinunceremo. E se i neonati non possono da soli professarlo, i loro genitori si rendono per loro garanti. Se, dunque, noi osserviamo fedelmente questa prima promessa, in cui consiste il fondamento della religione cristiana, è certo che potremo adempiere tutte le altre con l’aiuto di Dio».[3]
Il battezzando rinuncia al diavolo e, dunque, non può che assumere una condotta irreprensibile. Si ricorderà che, nella tipologia battesimale del IV secolo, cioè quello di Nicea primo, risulta significativamente utilizzato il riferimento al lavacro e all’unzione dell’atleta prima dello scontro: una metafora del combattimento contro Satana, a cui ogni battezzando era chiamato, e che ritornerà in seguito nell’etichetta di “soldato di Gesù Cristo” in riferimento ai cristiani cresimati.
Tempi medi e giusti di preparazione prima dell’ordinazione
I padri di Nicea – i cosiddetti 318, come la schiera militare dell’ebreo Abramo nella lotta contro gli Amorrei (cf. Gen 14,13–14) – registrano letteralmente l’esistenza di precise «disposizioni ecclesiastiche», che prevedevano dei tempi medio-lunghi per il catecumenato, prima del rito battesimale; ma, indirettamente, ci fanno capire l’esistenza di qualche prassi ritenuta scorretta, come quella che promuoveva subito dei neo-battezzati «all’episcopato o al sacerdozio».
Di qui un vero e proprio canone ostativo del 325 d.C., che prevede anche un periodo di prova: in futuro non si dovrà verificare nulla di simile, dal momento che «è necessario del tempo, infatti, a chi viene catechizzato, e una prova più lunga dopo il battesimo» per chi è candidato all’ordinazione episcopale.
La disposizione giuridica dei padri di Nicea faceva menzione di una sua precisa fonte biblica nell’epistolario paolino (1Tm 3,6-7): chi aspira all’episcopato o vi è candidato, «non sia un convertito da poco tempo, perché, accecato dall’orgoglio, non cada nella stessa condanna del diavolo».
Una certa eco di questo preciso e severo orientamento niceno, che minacciava addirittura di far perdere la dignità sacerdotale a chi «osasse agire contro queste disposizioni e si ergesse contro questo grande sinodo», persisterà ancora in età moderna, allorché Roberto Bellarmino, in un opuscolo del 1616, diretto al nipote Angelo della Ciaia, prenderà lo spunto per estendere le proprie analoghe considerazioni non ad un singolo problema o ad un singolo caso, ma, anche in funzione anti-riformata, a tutti i vescovi cattolici.[4]
Si è ordinati per una chiesa particolare
Oggi la teologia del collegio presbiterale ha maturato ampiamente che l’ordinazione di un nuovo ministro è in vista di un determinato presbiterio in riferimento a una determinata Chiesa particolare, per cui ciò deve avvenire alla presenza di un collegio episcopale ordinante. Come l’ordinazione episcopale conferisce al singolo vescovo la pienezza del sacramento dell’ordine e, contemporaneamente, lo inserisce nel collegio dei vescovi, così – si dice oggi – l’ordinazione presbiterale conferisce al presbitero l’autorità ministeriale e simultaneamente lo inserisce nell’unico presbiterio, in particolare nel presbiterio diocesano raccolto sotto l’autorità del vescovo. Meno evidente risulta, invece, la competenza territoriale, anche in riferimento alle ordinazioni sacre, del vescovo metropolita.
Il canone quarto di Nicea, nel porre vincoli alla territorialità, cioè alla competenza territoriale del vescovo metropolita, e definendo il momento idoneo per una nuova consacrazione episcopale, sentenziava, per il candidato all’episcopato, che egli venga ordinato, ovvero «istituito da tutti i vescovi della provincia. Ma se ciò fosse difficile o per sopravvenute difficoltà, o per la distanza, almeno tre, radunandosi nello stesso luogo, e non senza aver avuto prima per iscritto il consenso degli assenti, celebrino la consacrazione. La conferma di quanto è stato compiuto è riservata in ciascuna provincia al vescovo metropolita».
Affine risulta la disposizione del canone sesto di Nicea primo, che ribadisce antiche consuetudini e privilegi di certi territori ecclesiali e imperiali: Egitto,[5] Libia e Pentapoli (là dove antiche consuetudini consentivano al vescovo di Alessandria l’autorità su tutte queste province), riconoscendo, peraltro, anche al vescovo di Roma una simile autorità, come ugualmente ad Antiochia e ad altre province.
Anche a Gerusalemme, come ricorda il canone settimo di Nicea, veniva allora riconosciuto un particolare onore, ma ciò, ribadiscono i padri di Nicea, non deve mai accadere a danno della dignità della metropoli.
In sintesi, il sesto canone stabiliva la rilevanza del previo consenso di un metropolita per l’ordinazione episcopale di un candidato, per cui, «se qualcuno è fatto vescovo senza il consenso del metropolita, questo grande sinodo stabilisce che costui non debba esser vescovo».
I “clerici vagantes”
Non mancano, sempre a Nicea, testualmente definito dai Padri santo e grande concilio, stigmatizzazioni di situazioni particolari, che sembrano preludere a quanto, ancora in età medievale, sarà chiamato il caso dei clerici vagantes.
Infatti, il canone quindicesimo fissa un limite agli spostamenti e trasferimenti di membri del clero da una Chiesa all’altra (qui vengono testualmente nominati i tre gradi del sacro ministero: vescovi, preti e diaconi): ogni singolo viene ascritto ad un determinato clero e non può che dimorare nella Chiesa per cui fu eletto.
Circa i motivi di questa disciplina, dovevano essere quelli relativi alla diffusione di teorie e idee eterodosse da parte di clerici che, in seguito, saranno definiti vagantes: dovevano essere molti, come osservano testualmente i vescovi niceni nel canone quindicesimo, i «tumulti ed agitazioni», provocati da una cattiva consuetudine invalsa «in qualche parte contro le norme ecclesiastiche», per cui dei membri del clero si trasferivano autonomamente da una città all’altra: «Che se qualcuno, dopo questa disposizione del santo e grande concilio, facesse qualche cosa di simile, e seguisse l’antico costume, questo suo trasferimento sarà senz’altro considerato nullo, ed egli dovrà ritornare alla Chiesa per cui fu eletto vescovo, o presbitero, o diacono».
E, nel sedicesimo canone di Nicea primo, s’insiste ulteriormente sul divieto di accogliere sacerdoti, diaconi ed ecclesiastici in genere, che si siano allontanati dalle loro Chiese di appartenenza; anzi, costoro non solo «non devono in nessun modo essere accolti in un’altra Chiesa», ma bisogna «metterli nell’assoluta necessità di far ritorno alla propria comunità, altrimenti siano esclusi dalla comunione» (scomunica, ovvero esclusione dalla comunione).
Si parla testualmente di violenza esercitata da qualche ministro ordinato «dipendente da un altro vescovo» che, invece di essere consacrato nella sua Chiesa di appartenenza, lo è altrove, contro la volontà del vescovo, da cui si era allontanato. Del resto, una tale ordinazione sarebbe «considerata nulla».
Un insegnamento per l’oggi
Quello celebrato a Nicea fu un sinodo ecumenico, ovvero convocato per tutti i vescovi di Oriente e di Occidente. Ma tutte le norme disciplinari qui discusse lasciano un grande insegnamento per l’oggi: la disciplina ecclesiale si ottiene meglio favorendo riunioni e collegi di vescovi, se non proprio ecumeniche, almeno a livello territoriale.
Non è un caso che il già citato Documento finale della seconda Assemblea del XVI Sinodo ordinario dei vescovi (peraltro aperto anche a una rappresentanza del laicato e della vita consacrata) domandi di
«rivalutare l’istituzione dei Concili particolari, sia provinciali che plenari, la cui celebrazione periodica è stata un obbligo per gran parte della storia della Chiesa e che sono previsti dal diritto vigente nell’ordinamento latino (cf. CIC can. 439-446). Essi dovrebbero essere convocati periodicamente. La procedura per il riconoscimento delle conclusioni dei Concili particolari da parte della Santa Sede (recognitio) dovrebbe essere riformata, per incoraggiare la loro tempestiva pubblicazione, indicando termini temporali precisi o, nel caso di questioni puramente pastorali o disciplinari (non riguardanti direttamente questioni di fede, morale o disciplina sacramentale), introducendo una presunzione giuridica, equivalente al consenso tacito».[6]
[1] Documento Finale della Seconda Sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (2–27 ottobre 2024) “Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione, missione” e Risultati delle Votazioni, 26.10.2024, n. 148:
https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2024/10/26/0832/01659.html [16.11.2024].
[2] Spes non confundit. Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025, n. 17:
https://www.vatican.va/content/francesco/it/bulls/documents/20240509_spes–non–confundit_bolla–giubileo2025.html#_ftn15 [16.11.2024].
[3] Cesario Di Arles, Sermoni al popolo, edizioni Città Nuova, Roma 2024, pp. 176–177.
[4] R. Bellarminus, Admonitio ad episcopum theanensem nepotem suum […], Romae 1619, in X. M. Le Bachelet, Auctarium Bellarminianum. Supplément aux oeuvres du Card. Bellarmin, Paris 1913, pp. 639–655.
[5] Nel 324, dopo la sconfitta di Licinio da parte di Costantino, l’imperatore decise di far ricadere l’Egitto tra le regioni dell’impero orientale, sulle quali il figlio Costanzo avrebbe esercitato autorità di Cesare (fino al 361). Cf. G. Rinaldi, Roma e i cristiani, Materiali e metodi per una ricostruzione, Edizioni Vivarium novum, Frascati–Napoli 2023, p. 361.
[6] Documento Finale della Seconda sessione della XVI Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, n. 129.





