
Cosa si fa alla Casa Bianca? Si prega. Le immagini immortalano il momento di quella che appare una preghiera comune tra Donald Trump, al centro, e un gruppo di consiglieri, esperti, pastori: tutti intenti a pregare con lui in occasione della creazione dell’ufficio per la fede che aiuterà, si è detto, a riportare Dio e la difesa dei valori cristiani, che sarebbero al centro di un’offensiva anti-cristiana negli States.
Il Concilio di Washington
Non è forse questa la novità più rilevante sin qui emersa dall’inizio della nuova avventura trumpiana? Nel testo ufficiale sull’istituzione del nuovo ufficio e sul significato si parla di difesa del matrimonio e della famiglia, ovviamente. Ma forse ha ragione un teologo che ha scritto (scherzosamente) sui social che si vede all’orizzonte il primo concilio ecumenico di Washington, convocato dall’imperatore − quanto scherzosamente?
Nelle immagini diffuse dai media americani si vedono i consiglieri più vicini al presidente toccarlo mentre assorto, al centro dell’immagine, sembra proprio pregare. Stando a quanto si legge su MSN come su numerosi altri siti, «Trump ha anche firmato un decreto per creare una task force per identificare i pregiudizi anticristiani».
Cambiamo teatro, cambiamo luogo di osservazione. Poco notato, il patriarca di Gerusalemme, cardinale Pizzaballa, ha dichiarato che si va esaurendo la spinta propulsiva della Nostra Aetate, affermando in una specifica risposta al SIR: «Ciò che è stato fatto grazie a questo documento è importante e non è ancora concluso. Ma credo che abbia finito la sua spinta propulsiva. Ora dobbiamo parlare di altro. In passato abbiamo sempre evitato di parlare di alcuni argomenti per non avere problemi. Ma adesso li abbiamo ugualmente».
Sono due fatti disgiunti, non collegati, ma che sono accaduti quasi contestualmente e che rendono evidente che siamo in una fase di estrema rapidità, di novità così rilevanti e profonde che non si possono assorbire come se fossero destinate a passare, riportandoci presto all’ordine che c’era, che conosciamo, che riteniamo acquisito. Non è così, non sarà così. Un ordine è andato, sta uscendo dal nostro contesto, dalla nostra realtà e sarebbe irresponsabile far finta di niente; un modo di reagire come quello di chi aspetta che la polvere si posi, che tutto torni alla sua dimensione “nota”, sarebbe da irresponsabili.
In un articolo apparso su Avvenire, l’ex direttore de La Civiltà Cattolica, padre Antonio Spadaro, ha affermato che occorre una “teologia rapida”, occorre non solo pensare agli approdi sicuri, ma entrare nelle onde, nei mutamenti profondi che ci stanno prendendo.
L’articolo ha avviato un vivo e dibattito, sono intervenuti grandi firme, e il teologo Giuseppe Lorizio mi ha colpito con un collegamento gastronomico-alimentare parlando di street-food. Non ho mai accostato un testo teologico, non è mia materia, ma le sue parole sono folgoranti: «Mi piace pensare alla figura della teologia rapida come a una modalità di declinare la fede nel «frattempo» proprio perché la presenza sulla strada indica il passaggio, con tutto ciò esso può significare per arrivare alla sincronia con il presente».
Per dare un piccolo contributo sugli argomenti che conosco, e sui quali ritengo di potermi esprimere, voglio dire che una street theology oggi sarebbe indispensabile per un’area del mondo che rischia il collasso ma che potrebbe dare un contributo estremamente positivo al futuro del Mediterraneo, di quel Mediterraneo che deve rinascere dalla dimensione disperante nella quale si trova.
Libano: il tempo che non c’è
Oggi dal piccolo e martoriato Libano, bastione di un cristianesimo arabo che resiste ai marosi del tempo, emerge la possibilità di un nuovo confessionalismo sul quale la street theology mi appare non solo indispensabile ma urgentemente chiamata ad esprimersi. Non c’è tempo per baloccarsi con i ritardi di un cristianesimo orientale che stenta ancora a divenire conciliare, che vive ancora di timori e rimandi a logiche antiche e asfittiche, come la “protezione” da parte dei nuovi sultani. Tutto questo è materiale solido, ma travolto dai fatti.
Il Libano d’oggi, un Paese fallito economicamente, politicamente e anche spiritualmente, propone un nuovo modo di essere Paese strutturalmente complesso, multireligioso. È un fatto sorprendente. È fallita la scellerata opzione teocratica, l’esportazione del khomeinismo, che molti cristiani hanno sostenuto negli anni trascorsi nel nome di un’idea a mio avviso tanto perversa ma oggettivamente fallita: l’alleanza delle minoranze contro la maggioranza sunnita, temuta perché in quanto maggioranza avrebbe imposto la sua «dittatura».
All’ombra di questo, nel piccolo Libano si è affermato un modello che ha fatto dei cristiani i reggi-coda dei potenti di turno, in cambio di una protezione che nel caso di specie voleva dire confessionalismo paralizzato: i blocchi feudali determinatasi ai tempi della guerra civile si eterizzavano in una logica spartitoria e predatoria del potere tra famiglie che rappresentavano l’insieme delle comunità.
E questo alcuni lo hanno fatto anche legandosi ai khomeinisti, come è stato nei tempi recenti. Ora che il khomeinismo è precipitato tra le anticaglie del mondo fallito sta emergendo un nuovo confessionalismo. È un parto complesso ma di estrema importanza perché è il solo che può riscattare non solo il Libano, ma tutta quell’area, cioè Libano, Siria e Iraq, ormai orfani dell’egemonia khomeinista, teocratica e totalitaria, ma privi di una nuova visione.
Ora questa visione emerge con la nascita di un nuovo governo, quello del Libano, che rispecchiando la vecchia spartizione comunitaria tra cristiani, sunniti e sciiti, la sottrae però all’egemonia delle famiglie, dei vecchi blocchi feudali, e l’affida per scelta del Presidente della Repubblica e del Primo Ministro, due figure eccezionali per il Medio Oriente di oggi, a tecnici qualificati, persone vicine alla politica esistente ma non da essa dipendenti. È un fatto sorprendente, al quale ora le comunità sono chiamate a dare un senso: un cambiamento non può dipendere dalle «buone intenzioni» di chi per un caso sorprendente è chiamato a guidare il Paese. Ed è qui che interviene l’esigenza di una teologia rapida.
Unità dei cristiani in Medio Oriente e sinodalità
Non c’è tempo per strutturare un nuovo senso della presenza cristiana nel Levante, non c’è tempo per rispondere in maniera esaustiva alla domanda di tutte le domande: cosa differenzia nel disastro odierno un latino da un maronita, un ortodosso da un melchita? E perché ogni cambiamento va benedetto o indirizzato dalle gerarchie ecclesiastiche? L’unità dei cristiani del Medio Oriente è un’esigenza dell’oggi, non del domani. E questa unità va cercata non nelle gerarchie ecclesiali, ma nella sinodalità dei cristiani del Levante.
Questa sinodalità deve coinvolgere i fedeli cristiani del Libano, quelli veri, le donne, i giovani, i fuggiaschi, cioè quelli che restano ancora ma pensano già ad emigrare, in una risposta che parli al territorio, non soltanto alla «comunità». E deve farlo nell’attenzione a tutto il territorio, non a questa ipotetica «nazione» separata dagli altri.
Infatti questo impegno diretto dei cristiani, non dei capi-bastone, non dei vescovi, ma del popolo di Dio in tutte le sue dimensioni ecclesiali esistenti, può dare un diverso senso al rapporto tra comunità e territorio. Questo senso sta in una nuova forma indispensabile: l’incontro tra individuo e comunità. L’esigenza plurale che emerge va recepita teologicamente, ritengo, in quella che Amin Maalouf ha indicato come la «mancanza impellente»: la mancanza di luogo di «comunità intercomunitaria».
La sinodalità cristiana sarebbe antefatto di una cultura del territorio diversa, nella quale non ci si divide, ma ci si incontra, ci si unisce. Ecco allora l’esigenza di uscire dalle secche di una identificazione della comunità con «una nazione». Questo è il blocco che chiude le comunità di fede in entità autoreferenti, che se minoritarie non possono che cercare la protezione nei nuovi potenti, chiunque essi siano.
Fratellanza e cittadinanza
Il senso sotteso al nuovo governo libanese è il comune servizio delle autorità, espressioni di tutte le comunità, credenti o etniche, allo stesso bene comune. È, nei fatti, la cittadinanza, l’intuizione geniale del Documento sulla Fratellanza che traduce in realtà gli auspici del sinodo sul Medio Oriente di ratzingeriana memoria. Solo quel Documento ha messo nei fatti della realtà mediorientale la prospettiva della comunità cittadinanza, che non può essere conseguita con un confessionalismo chiuso, come quello che vige in tutto il Levante oggi e di cui il Libano è ancora portabandiera.
Di che cosa si tratta? Di un sistema per cui si vota per quote: si eleggono tanti cristiani, tanti drusi, tanti sunniti, tanti sciiti, e così via. Questo sistema chiude la «comunità» in «nazioni autoreferenti», sottoposte a fedeltà feudali, alla logica spartitori, all’asservimento a chi comanda o riesce a essere più potente, con la forza.
Per aprire le comunità serve il riconoscimento dell’individuo, che esiste, c’è. Questo riconoscimento è indispensabile per superare il confessionalismo chiuso, settario, che fa delle comunità delle «nazioni». E questo si fa solo creando partiti interconfessionali.
Ecco allora che il modello che trasforma il Levante, e che funzionerebbe sia in Libano che in Siria e Iraq, è un bicameralismo dai sistemi elettorali diversi, che in una camera darebbe garanzie alle Comunità, votando per quote confessionali, e nell’altra darebbe i diritti agli individui, votando per schieramento come si vota da noi. Garanzie alle comunità, diritti agli individui, liberi di esprimersi sulla base delle loro idee.
Questo metterebbe al riparo la novità del governo libanese, fatto da tecnici di qualità svincolati dai capi-bastone, dal rischio di naufragare se cambiassero le supreme magistrature del Paese. Il bene non si impone dall’alto, ma la chance va sfruttata per strutturare la possibilità in una riforma istituzionale, che dia gamba a una nuova società, quella dei cittadini. È un porto intervento teologico quello che serve per non perdere il momento.
Tutto questo oggi potrebbe partire da un confronto comunitario e nazionale sul Documento sulla Fratellanza Umana, vera bussola per navigare nei marosi del tempo e vedere un nuovo porto nell’attesa che qualcuno sistematizzi la novità.
Questa visione attende da secoli di essere sistematizzata, ma oggi serve una street theology per fare della sinodalità un avamposto di cittadinanza, nei fatti. La novità libanese può essere presa come pista per costruire un nuovo Levante, sfruttando l’opportunità offerta dal fallimento dell’imperialismo teocratico ma aprendo le porte del nuovo a tutti gli individui, che meritano diritti, e a tutte le comunità, che hanno bisogno certo di garanzie.





