
Porta la data del 2 dicembre 2024 ma è stata presentata il 7 febbraio la nota pastorale dei vescovi svizzeri sul possibile uso delle chiese non più proporzionate alle comunità che le abitano. Il titolo suona: Quando lo spazio della chiesa non è più adatto. Una ventina di pagine per riflettere sull’uso condiviso o alternativo di strutture finanziariamente costose.
Nelle chiese svizzere la proprietà degli edifici è, in generale, in capo alle comunità locali e non alle diocesi perché la gestione amministrativa ed economica non è affidata ai parroci o ai sacerdoti.
I vescovi scrivono: «Con queste linee-guida, noi, vescovi e abati territoriali, vogliamo soprattutto offrire un aiuto alla gestione di spazi ecclesiali (chiese, cappelle, centri parrocchiali) che sembrano, sempre di più, troppo grandi. In questo contesto il termine “destinazione d’uso allargata” evoca apertura. Si intende incoraggiare un’ampia esplorazione delle opzioni di ciascuno di questi casi, al fine di trovare la migliore soluzione possibile. Si può spaziare dall’uso proprio esteso dello spazio sacro, all’affitto o alla vendita, all’uso misto con altri partner. Incoraggiamo tutti gli interessati a impegnarsi seriamente in un processo di riflessione comunitaria».
Il problema del sovrabbondante patrimonio degli edifici delle chiese attraversa tutte le confessioni cristiane in Occidente, soprattutto nelle aree più segnate dalla secolarizzazione.
Inoltre, il flusso consistente degli immigrati, se ha fatto crescere i numeri nelle Chiese ha però richiesto un utilizzo diverso delle strutture, anche in relazione alle altre confessioni cristiane, in particolare quelle ortodosse e neo-protestanti.
Molte conferenze episcopali in Europa hanno promosso linee-guida per indirizzare al meglio il fenomeno: dalla Germania alla Francia, dal Belgio all’Olanda, dalla Gran Bretagna alla Spagna o all’Italia (cf. SettimanaNews, qui).
Anche la Santa Sede ha provveduto, tramite l’allora Pontificio consiglio per la cultura, a fornire nel 2018 un quadro comune di comportamenti e di valutazioni (cf. SettimanaNews, qui).
I muri e i sentimenti
Il documento svizzero registra i cambiamenti urbanistici (chiese in quartieri centrali occupati da uffici e commerci) e demografici (cala la popolazione residente e cresce l’immigrazione), come anche la permanenza del legame affettivo e culturale con l’edificio sacro che va ben oltre il cerchio dei frequentanti. Soprattutto se si tratta di chiese storiche.
La logica identitaria di quelle più centrali o dei paesi delle valli si accompagna alla logica più diffusiva e compatibile con l’ambiente urbanistico delle costruzioni più recenti nelle periferie.
L’edificio religioso è avvertito come spazio pubblico e il suo ruolo simbolico è assai più resiliente dei materiali con cui è costruito e modificato dalle successive generazioni. «Questi luoghi di “alta inutilità” (W.M. Förderer) sono cari e hanno quindi un grande valore sociale».
Ancora più preziosi sono per le comunità che li abitano e li utilizzano. È il luogo della preghiera e della celebrazione dei misteri della fede. Porre mano al loro uso e modificazione è un processo delicato che coinvolge il diritto civile, il diritto canonico, il diritto edilizio e la legge che tutela i monumenti storici. Anzitutto, «si dovrebbe fare ogni sforzo per garantire un uso ecclesiale locale» e per la liturgia. Ma si può pensare anche a un uso parziale o a un uso per terzi dello spazio e nel tempo.
Cambiamento, continuità e Vangelo
Ma niente deve essere occasionale. Ogni modifica ha a che vedere con una concezione pastorale complessiva: «come vogliamo testimoniare il Vangelo nella nostra parrocchia o comunità in futuro? A quali immagini della Chiesa ci ispiriamo? Come organizziamo la nostra collaborazione con i nostri fratelli e sorelle delle altre Chiese locali, con i cattolici di lingua straniera e con i nostri vicini della zona pastorale?». Si possono usare in maniera diversa gli spazi esterni o interni?
È bene, anzitutto, costituire un gruppo di esperti che instaurino al meglio la pratica e poi operare con queste priorità: privilegiare una destinazione ecclesiale (si sconsiglia di passare l’edificio ad altra religione); esplorare i possibili utilizzi culturali e sociali compatibili; nel caso di scarso valore artistico dei manufatti è possibile passare a unità residenziali. È bene privilegiare l’affitto alla vendita, una temporanea chiusura alla frettolosa decisione di vendere. Solo in casi eccezionali si può arrivare alla demolizione. Sempre in contatto con i responsabili diocesani. Particolarmente attenta dovrà essere la comunicazione all’esterno dei singoli passaggi.
Nella fase preparatoria è prevista la formulazione di un profilo attuale e futuro della comunità, il diverso utilizzo dello spazio, la creazione di un gruppo di lavoro, il quadro di riferimento (obiettivi, compiti e responsabilità) e il mandato per il progetto.
Una seconda fase, quella dello sviluppo, prevede: la determinazione dei dati di base, il coinvolgimento della comunità e del territorio, le possibili opzioni, il progetto concreto e la sua comunicazione, la decisione.
A questo succede la fase di implementazione: il concorso, l’avvio del riutilizzo, la conclusione del progetto.
Importante è il ruolo dell’équipe pastorale che accompagna il percorso, chiamata ad alleviare i sentimenti di sofferenza e di perdita che il processo può provocare. «Ogni trasformazione va vissuta come un rito per i parrocchiani. Bisogna rendere percepibile l’idea fondamentale che il cambiamento è anche continuità e che il messaggio del Vangelo perdura».






È bene farne un santuario per la città, una cappella per la preghiera, la direzione spirituale, le confessioni… Se ci sono comunità di altra confessione cristiana, è bene condividere. Diversamente utilizzare le chiese troppo grandi per scopi culturali: conferenze, concerti, mostre, archivi, biblioteche e musei… O come sala della comunità… Non venderei assolutamente né abbatterei edifici.