Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola. (Gv 10,27-30)
La IV domenica di Pasqua, tradizionalmente chiamata la domenica del buon pastore, segna il passaggio dalla lettura dei vangeli con a tema la manifestazione di Gesù risorto ai suoi, alla lettura di testi di carattere più mediato. Sono stralci di discorsi di Gesù, tratti dal vangelo di Giovanni che mettono a fuoco, in particolare, il significato dell’essere discepoli e dell’essere in relazione con Gesù e, contemporaneamente, preparano alle feste dell’Ascensione e di Pentecoste.
Il brano di questa domenica, molto breve, fa parte del più lungo discorso di Gesù sul pastore e, anche se non parla esplicitamente di questa figura, utilizza, proprio in apertura, l’immagine delle pecore.
Rispetto a quanto precede, Gesù non aggiunge niente di nuovo, ma ripete, sintetizzando in frasi molto brevi, l’essenziale del lungo discorso. La ripetizione ha la funzione di esprimere sia la coerenza della Parola, cioè la fedeltà di Dio alla storia dell’uomo, sia di rivelare il non ascolto dell’uomo e dunque la fedeltà di Dio nella resistenza dell’uomo, sia la fedeltà di Dio fino alla fine: il Signore non ha un’altra parola da comunicare.
Questa Parola continua a essere scritta e letta all’interno della storia come paradossale germe di speranza per il presente e per il futuro e anche noi, facilmente, possiamo memorizzare questi pochi versetti e ripeterli, perché alimentino i giorni del nostro vivere, infondendo coraggio e speranza.
La speranza e il coraggio vengono dalla promessa che Gesù fa alle sue pecore di non andare perdute, di non essere strappate dalla sua mano.
I primi cinque verbi sono tutti uniti dalla congiunzione “e” (anche «io do»); questo vuol dire che le cinque azioni sono strettamente collegate tra loro, alcune da rapporti di conseguenza, altre da rapporti di esplicitazione.
Ascoltare e conoscere
Innanzitutto, le pecore e il pastore sono caratterizzati da due azioni, rispettivamente ascoltare e conoscere. Quindi, il conoscere è posto al servizio del seguire e il seguire è in vista del donare la vita eterna, mentre «non andranno perdute» e «nessuno le rapirà dalla mia mano» sono affermazioni che vogliono spiegare cosa sia la vita eterna.
Le pecore sono coloro che ascoltano la voce di Gesù, la riconoscono tra altre voci come quella che è autentica. Le pecore accolgono quella voce e si lasciano guidare da essa, fidandosi.
Se le pecore ascoltano, Gesù le conosce. Non si dice da dove derivi questa conoscenza, ma si possono ricordare le parole di Pietro del vangelo della scorsa domenica: «Signore tu sai tutto, tu conosci che ti voglio bene».
Pietro ha sperimentato quanto profondamente Gesù lo conosca, quanto totalmente abbia imparato a conoscerne tutti i tratti, raggiungendo le pieghe più nascoste del suo cuore. Pietro ha sperimentato che la conoscenza di Gesù nasce dall’amore e dal perdono.
Anche qui si può pensare che il conoscere di Gesù nasca dal suo amore per le pecore, dalla sua cura disinteressata per loro. Come nel vangelo della scorsa domenica, anche qui la conoscenza di Gesù determina la sequela. Pietro, che dichiara quanto Gesù lo conosca, è invitato a seguirlo.
Non solo l’ascolto, dunque, ma anche la conoscenza di Gesù determinano la sequela. Si segue colui dal quale ci sentiamo profondamente conosciuti e perciò amati; la sequela nasce da un incontro e da una relazione di reciprocità. Non si dice quale sia la meta di questo andare, non importa. Si va dietro al pastore perché, avendone ascoltato la voce, ci si fida di lui, perché ciò che davvero conta è seguire lui, non dove si va o cosa si va a fare.
La vita “per sempre”
Il frutto della sequela è ricevere la vita per sempre, che il pastore dona alle sue pecore. È difficile dire cosa sia la vita per sempre. “Per sempre” è una categoria che va oltre la nostra possibilità di comprendere il tempo, perché per noi esiste sempre un limite, se non altro quello rappresentato dalla morte.
Gesù, allora, cerca di spiegarlo usando due immagini, tratte, ancora una volta, dal mondo pastorale: non andare perdute, non essere strappate.
Le due immagini evocano – la prima – il pericolo in cui possono incappare le pecore di perdere la strada e, di conseguenza, smarrirsi trovando la morte; la seconda il rischio sempre presente di essere preda di animali feroci o di ladri, facendo la stessa fine.
Attraverso queste immagini è così annunciato che la vita “per sempre” è una vita in cui non si hanno da temere quegli aspetti che richiamano o fanno sperimentare la morte in tutte le sue mutevoli dimensioni. Nessuno può infatti strappare le pecore dalla mano del pastore.
Stare nella mano del pastore evoca l’immagine del pastore che tiene ciascuna pecora con sé, stretta a sé, come fosse l’unica, che la protegge e la difende.
Stare nella mano di Gesù è identico a stare nella mano del Padre. La mano di Dio è spesso il simbolo della sua provvidenza e del suo disegno; ogni pecora è all’interno di un disegno provvidenziale, di una cura che non permetterà che si smarrisca su vie che non conducono alla vita.





