La Chiesa cattolica in Thailandia

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La storia della Chiesa delle origini mostra come le piccole comunità sparse sulle sponde del Mediterraneo sentissero il bisogno di avere un contatto tra loro, di relazionarsi e di confrontarsi tanto sul messaggio evangelico, quanto sulle pratiche di vita quotidiana.

I primi racconti di questi viaggi e scambi sono contenuti già nel canone neotestamentario: pensiamo agli Atti degli Apostoli e alle lettere. Non solo Paolo, ma anche Priscilla e Aquila, Febe e con loro molti e molte altre: nella storia della Chiesa questi sono spesso rappresentanti di un ministero, ma sempre figure portatrici di una testimonianza.

L’immagine di Paolo, proprio perché fondamentale nella costruzione dell’identità delle comunità cristiane e nella trasmissione del Vangelo, rischia oggi di portare a un fraintendimento nelle dinamiche e nel ruolo che si ricopre quando si entra in contatto con una comunità credente giovane e appartenente a un contesto socioculturale differente dal nostro.

Con uno sguardo forse poetico, mi piace immaginare Febe che arriva nella comunità di Roma per trasmettere il Vangelo ma che con il passare dei mesi si rende conto che è più quello che lei sta imparando da questa giovane comunità di ciò che lei ha offerto ad essa.

Queste riflessioni nascono in me da un’esperienza concreta, ovvero un periodo di due mesi come Visiting Professor presso il Saengtham College University di Bangkok, che è anche l’unico seminario presente sul territorio thailandese.

Per sintetizzare il frutto di due mesi di insegnamento, dei viaggi tra le piccole comunità cristiane presenti nel nord del paese e degli incontri con gli esuli birmani e laoziani, lo strumento che trovo più funzionale sono i quattro principi orientativi contenuti in Evangelii Gaudium. E non è un caso che siano stati pensati come principi per la guida della vita sociale della Chiesa e che abbiano uno stretto legame con il processo di evangelizzazione.

Il seme e la foresta

Il primo principio afferma che “il tempo è superiore allo spazio” (EG 222-225) o, per dirlo altrimenti, che anche da un singolo seme con il tempo può nascere una foresta. Nella società thailandese i cattolici sono non solo una minoranza (di circa lo 0,5% della popolazione) ma rappresentano una vera e propria minoranza nella minoranza essendo in buona parte persone con un passato di emigrazione dalla Birmania, dal Laos e dalla Cina e vivono in buona parte ai margini della società – lontano dalle grandi città – nelle foreste del nord.

Fare proprio questo principio significa «lavorare a lunga scadenza […] e sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei piani che il dinamismo della realtà impone». Se lo spazio come principio chiede di imporsi, di ottenere una veloce rilevanza sociale, il tempo invece insegna come sia necessario seminare, preparare il terreno.

Ed è un insegnamento che la chiesa thailandese sembra avere colto, investendo buona parte delle sue energie nell’istruzione e nella formazione. Con l’attenzione da un lato alla dimensione intra-ecclesiale, quindi sulla formazione dei futuri presbiteri e dei catechisti. Dall’altra su un’istruzione che corrisponde anche all’evangelizzazione. Infatti, nonostante questa comunità rappresenti una minima percentuale della popolazione, ha fondato e gestisce scuole e università aperte a persone di tutte le fedi religiose e riconosciute da tutto il tessuto sociale per la qualità dell’istruzione offerta.

La chiesa thailandese conserva la propria cultura di origine e le tradizioni locali, spesso reinterpretandole in forme originali a partire dalla propria esperienza di fede. È questo il caso della meditazione buddista che, lungi dall’essere rifiutata in ambito ecclesiale, ha visto invece a partire dagli anni Novanta un processo di riscoperta e di rielaborazione alla luce del Vangelo.

Sono stati avviati infatti progetti a cui hanno partecipato docenti di teologia spirituale, laici e teologi allo scopo di ripensare in ottica cristiana questa pratica, legandola alla meditazione e alla spiritualità cristiana occidentale e il particolare a figure quali San Giovanni della Croce e Teresa di Lisieux. Ad oggi questo processo è ancora in corso e vari centri e comunità religiose locali offrono corsi di meditazione secondo questo modello innovativo.

Vi sono anche percorsi interreligiosi con monaci buddisti. In questo modo la comunità credente locale si inserisce all’interno della chiesa universale con una specificità propria, tratta dalle proprie origini. Qui si esprime la tensione tra locale e universale a cui si riferisce anche il secondo principio di EG: “l’unità prevale sul conflitto” (EG 226-230), ovvero la consapevolezza che «il conflitto non può essere ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato» (EG 226).

Ma questa tensione può essere letta anche in un’altra direzione: quella tra comunità credente e contesto socioculturale. Questa seconda tensione presenta una comunità credente che seppure ai margini della vita sociale e pubblica (basti pensare che è ancora in vigore una legge che proibisce alle persone di origine thai – la principale etnia del paese asiatico – di convertirsi alla “religione occidentale” e ogni incarico di potere è ricoperto da persone appartenenti a questa etnia) la comunità è attiva su tutto il territorio con opere di carità e assistenza e, oltre a questo, è integrata senza tensioni all’interno del tessuto sociale locale.

Il concreto della fede

Un esempio del ruolo sociale della chiesa locale è rappresentato dagli orfanotrofi aperti nel nord del paese a partire dagli anni ’90. È una storia che nasce con la figura di un prete missionario italiano che, inviato in Thailandia e arrivato nel nord del paese si rese conto ben presto delle condizioni di precarietà in cui versava parte della popolazione nella zona del Triangolo d’oro.

Rimase colpito soprattutto dai bambini abbandonati a sé stessi nei paesi di montagna (quando i genitori andavano verso sud per cercare lavoro, finivano in carcere o erano tossicodipendenti), e dal fenomeno ancora presente in quegli anni della vendita dei bambini nei mercati. Questo parroco decise di raccogliere il numero più alto possibile di questi bambini e di aprire degli orfanotrofi in cui accoglierli, offrirgli un’istruzione e un posto sicuro in cui vivere.

In una situazione di tensione tra il messaggio evangelico e la realtà questo esempio mostra il potenziale trasformativo che il Vangelo ha sul reale e nella società.

Non a caso Papa Francesco afferma che “la realtà è più importante dell’idea” (EG 231-233); il punto di partenza per la riflessione evangelica deve sempre essere il concreto, il mondo che siamo chiamati a vivere. Certo, anche l’idea astratta è sana e positiva e può essere interpretata come una tensione verso cui giungere, ma il punto di riferimento primo è il reale.

Ho visto questo principio messo in pratica in una molteplicità di situazioni e casi ma la dimensione in cui mi ha maggiormente colpito la sua attuazione è quella ecclesiologica. Partendo da una realtà in cui la comunità credente è piccola e collocata in maniera disomogenea su un territorio molto ampio fatto di villaggi collegati con strade di terra battuta non percorribili in caso di intemperie, e con un clero che non conta altissimi numeri, la Chiesa thailandese ha deciso di rispondere a questa sfida con una proposta diversa da quelle su cui investono le chiese occidentali per rispondere al numero sempre più basso di membri del clero.

Questa chiesa asiatica ha infatti istituito dei percorsi di studio triennali per laici e laiche che, una volta concluso il percorso, vengono incaricati di gestire una piccola comunità o un villaggio. Il parroco, in questo modo, può essere a capo di un numero alto di parrocchie (anche 9-10) ma non è chiamato a recarsi tutti i giorni o tutte le settimane in ognuna di esse. Questa figura viene chiamata “catechista” e si occupa della gestione quotidiana della parrocchia e delle situazioni di emergenza, lavorando sempre in stretto contatto con il parroco di zona, che cerca di essere presente nella singola parrocchia almeno una volta al mese.

Il comune cristiano

L’ultimo principio, secondo cui “il tutto è superiore alla parte” (EG 234-237) permette di chiudere le fila di questo spaccato di una chiesa lontana geograficamente ma che vive problemi che sono globali e a cui cerca di rispondere con le sue forze e seguendo l’esempio evangelico.

La consapevolezza di una tensione tra globale e locale insegna la necessità di tenere unite queste due dimensioni: la quotidianità delle comunità locali, i loro bisogni e la loro storia sono interconnesse e costruiscono la realtà della chiesa globale di cui fanno parte. Anche il tempo gioca un ruolo fondamentale, quello di permettere a esperienze diverse di Vangelo di incontrarsi, confondersi e coinvolgersi, andando a costituire un’unità sfaccettata ma coerente nei suoi volti. Un’unità che è reale, che è esperienza quotidiana della Chiesa universale e si costituisce in un’immagine poliedrica.

Sono questi spaccati di vita comunitaria quotidiana, di risposta alle esigenze del luogo e del tempo che portano alla luce quanto nella Chiesa «il tutto, è più della parte ed è anche più della loro semplice somma» (EG 235), ma anche quanto l’insegnamento e la testimonianza siano il frutto di riconoscimento, reciprocità e di un cammino condiviso.

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