Le Chiese dopo Gaza

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Dopo Gaza, le Chiese sono chiamate a riflettere sul proprio ruolo: pregare, aiutare e ricostruire, pur nella loro limitatezza e con la consapevolezza di non essere fuori dalla colpa di questa Storia. Un’altra sfida, inoltre, è tenere vivi la fede e il dialogo contro ogni antisemitismo e anti islamismo. Fulvio Ferrario è professore di Teologia sistematica presso la Facoltà valdese di Teologia di Roma. Dal sito della rivista Confronti, 1 dicembre 2025

Tutte e tutti sembrano d’accordo sul fatto che anche per le Chiese, per l’Ebraismo, per il dialogo interreligioso, vi è un prima e un dopo Gaza. Per due anni, la tragedia si è consumata sotto gli occhi di un mondo e di una politica internazionale in parte impotenti, in parte (l’America di Trump) decisamente complici della mattanza compiuta da Israele in seguito alla strage del 7 ottobre.

Lo stesso Trump è poi riuscito a imporre una tregua: precaria e quanto mai equivoca, ma pur sempre una tregua, che anche le Chiese hanno salutato con molta prudenza, ma constatando la diminuzione del numero di vittime della furia scatenata dallo Stato di Israele. Perché bisogna pur dirlo, con grande dolore (almeno di chi si è sempre considerato amico di Israele e acceso fautore del suo diritto all’esistenza): Netanyahu non ha agito da solo.

Ma torniamo alle Chiese. Che cosa possono fare, di fronte alle macerie di Gaza, ai morti, allo scempio di ogni diritto internazionale e al trionfo di una politica brutale, anche quando strappa brandelli di tregua? Le Chiese, anzitutto, pregano. In questo scenario tragico, sembra a chi scrive che ci siano buone ragioni per privilegiare la preghiera silenziosa nella cameretta, della quale parla Gesù (Mt. 6,6), rispetto a manifestazioni spettacolari organizzate da un capo o da una lobby religiosa, con altri e altre a far da contorno.

Constato però che su questo punto non c’è unanimità. Essenziale, comunque, è che la preghiera ci sia, perché la Chiesa non può rinunciare a gridare al suo Signore la propria angoscia e il proprio disorientamento. Le Chiese, in secondo luogo, possono aiutare. In questo, esse dispongono di una secolare esperienza, di collaudate strutture organizzative e, oggi ancora, di una discreta capacità di raccogliere fondi. Il loro intervento, naturalmente, non ha alcuna pretesa di essere risolutivo, ma può essere rilevante ed ecumenico.

In realtà, non sappiamo ancora quando giungerà l’ora della ricostruzione, non sarà in ogni caso domani: ma non può non venire. Sarà carica di speranza, ma a modo suo anch’essa terribile, perché abitata da immane miseria e perché attraversata da odio, terrore diffidente e da un lutto che non sembra estinguibile in tempi storici.

L’opera delle Chiese non sarà inutile. Certo, neppure essa potrà vantare chissà quale innocenza o purezza: nessuno è fuori dalla Storia, e, in questa Storia, nessuno è fuori dalla colpa. Detto questo, tra Hamas e le Chiese, tra Trump e le Chiese, tra Netanyahu e le Chiese, scelgo le Chiese. Infine, le Chiese possono contribuire alla lotta contro antisemitismo e anti islamismo. È fin troppo chiaro, certo, che la loro Storia non fornisce credenziali particolarmente autorevoli, né su un fronte, né sull’altro.

Negli ultimi decenni, tuttavia, almeno nell’ambito del Cattolicesimo e del Protestantesimo, qualcosa è accaduto e sono state poste basi significative per un futuro diverso. La comprensione teologica cristiana di Israele si è profondamente modificata e, per certi aspetti, rovesciata, fino a determinare l’inizio di un ripensamento complessivo dell’autocoscienza della Chiesa.

Karl Barth prima e il Vaticano II poi hanno fornito impulsi teologici che stanno iniziando a produrre frutti: ancora modesti, ma che vanno al di là dell’esercitazione accademica. L’incompatibilità tra la fede in Gesù e l’antisemitismo è acquisita da ogni persona cristiana consapevole, cattolica o evangelica; essa può coesistere (purtroppo è diventato necessario ribadirlo) con la critica anche dura, non solo della politica del governo israeliano, ma anche con l’ideologia a quanto pare dominante in quel Paese.

Per quanto riguarda l’anti islamismo, le Chiese cristiane sono impegnate su due terreni in particolare. Uno è quello della conoscenza della pluralità e della ricchezza dell’Islam, contro semplificazioni grossolane; il secondo, più visibile, è l’incontro concreto con le persone islamiche che vivono nel nostro Paese o vi transitano, con l’impegno sociale che ne deriva e che non sempre incontra consenso sociale. Preghiera, solidarietà, sensibilizzazione: non è molto e non sposta gli equilibri della politica mondiale, ma è la sfida del presente, al di là delle chiacchiere.

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