“Elisa”, il male dentro

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Foto: Oliver Oppitz

Foto: Oliver Oppitz

Il male che sta nell’uomo, la colpa e la pena, la redenzione e il perdono occupano la scena del film «Elisa» di Leonardo di Costanzo, presentato all’82° Festival del Cinema di Venezia. Al suo secondo cimento nel prison movie, ancora una volta il regista non indaga le condizioni carcerarie, la psicologia o la sociologia del crimine o le problematiche della giustizia. Già in «Ariaferma» l’originale angolatura metteva a fuoco, nella lentezza dell’attesa dentro un vecchio carcere in dismissione, lo stemperarsi delle barriere fra guardie e carcerati in un condensato di umanità condivisa.

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In «Elisa», tratto da una storia vera, il regista propone una pellicola rigorosa, senza sbavature estetizzanti, un’ora e mezza di campo e controcampo detenuta – criminologo, con poche ma essenziali intromissioni di due figure iconiche (il padre affettuoso e dolente interpretato da Diego Ribon e la madre di un ragazzino assassinato col volto di Valeria Golino, più che un cameo), e alcune figure di sfondo (il direttore del carcere, la guardia, la compagna di cella) più ampi squarci di passeggiate nel bosco.

Parlare di cella è improprio, perché si tratta di uno chalet nel bosco degno di un resort a 4 stelle, come appare, in effetti, il carcere modello di Moncaldo, affiancato da un istituto universitario che ne fa oggetto di studio. È un sistema strutturato e condotto affinché si creino condizioni ideali per la funzione penale. Conta poco che Moncaldo sia reale e dove si trovi (nella storia l’ambientazione è nella Svizzera tedesca, il film è girato in Alto Adige in un grande albergo dismesso), non c’è alcuna intenzione di innescare un confronto con Rebibbia o San Vittore. L’ambiente-carcere non è in sé claustrofobico e l’isolamento non ha i caratteri della costrizione. Solo a tratti la telecamera e l’occhio vigile delle guardie ricordano che siamo in uno spazio di restrizione.

I colori freddi e l’inverno nordico incarnano lo spazio interiore delle detenute, che si mischiano a studenti e personale distinguendosi solo per l’elegante divisa rosso cupo. Bellissimo e terapeutico è il bosco invernale, in cui la natura assume una funzione depurativa.

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Elisa, 35 anni, interpretata con un’intensità tanto poliedrica quanto sobria da Barbara Ronchi, è in carcere da dieci anni per aver assassinato la sorella (è una Caino al femminile, ma senza competizione né rivalità) e tentato di uccidere la madre. Pur avendo ancora dieci anni di pena può chiedere gli arresti domiciliari, ma non si sente pronta: il processo interiore della sua personale redenzione, ben lontano dal compiersi, si trova ad uno snodo cruciale dopo anni di vera o presunta amnesia riguardo al delitto. Per questo accetta di partecipare allo studio del criminologo dottor Alaoui e di affrontare una serie di colloqui in cui risalire all’origine del crimine.

Il criminologo, figura forse più convenzionale interpretata con grande sensibilità da Roschidy Zem, assume un ruolo maieutico e di affiancamento, partecipe ma da una opportuna distanza critica che impedisce di derubricare gravità e irreversibilità della colpa.

Elisa comincia a ricordare e alcune sequenze in flashback forniscono i tasselli della sua storia criminale maturata in famiglia, in un contesto che non conosce degradazione né odio. Quella di Elisa è una famiglia come tante e come tante nasconde le sue faglie di fragilità e anomalia: una madre ostile avvelenata da una maternità subita, un padre avventato nel caricare la figlia di aspettative abnormi, un fratello ottuso e una sorella – la vittima – che ha l’unica colpa, del tutto inconsapevole, di rappresentare per Elisa un ostacolo.

Movente è la paura – dichiara la protagonista – la paura di non essere ritenuta all’altezza del compito di dirigere l’impresa familiare. I «moventi» condizionano, attenuano forse la gravità dell’azione, senza mai costituirne una spiegazione e men che meno una giustificazione. «Io volevo ucciderla», dichiara Elisa, richiamando il titolo del libro dei criminologi Adolfo Ceretti e Lorenzo Natali cui si ispira la sceneggiatura. Uccidere è una scelta. Condizionata, come tutte le scelte, può avere attenuanti (i rapporti familiari, il formalismo ambientale) che tuttavia non scalfiscono il peso del crimine.

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La genesi del delitto, alla fine, si incunea nell’imperscrutabile e irriducibile unicità della personalità criminale. Quando Elisa chiede ad Alaoui perché vuole indagare il male nell’uomo, il dottore non risponde, in seguito osserva che ci vorrebbe una risposta diversa per ogni soggetto criminale.

D’altro canto la «normalità» del male è sottolineata dallo stupore della guardia che scopre la qualità del crimine commesso da Elisa, la donna che lui conosce come gentile e sollecita cameriera del bar interno all’istituto. La stessa che canta con dolcezza struggente nel coro dell’istituto. Troppo facile ridurre l’omicida a un mostro, è piuttosto una persona che ha tutti i tratti dell’umanità e in un certo momento della sua vita ha lasciato agire il male, ha dato campo libero a una delle irriducibili dimensioni dell’umanità, macchiandosi della colpa.

La colpa comporta la pena, volta alla redenzione. Ma questa, diversamente dal delitto, è un lento processo interiore dalla conclusione non scontata. Non accade di necessità, esige ancora una scelta, sia pure sostenuta e accompagnata dall’esterno. Elisa vi si affaccia dopo dieci anni di detenzione vissuti in un’amnesia che era rifiuto, un volersi esimere dall’orrore del delitto compiuto. I lunghi anni in carcere (espiazione?) preparano la dolorosa riappropriazione della storia personale, il riconoscimento della colpa, che viene metabolizzata, non cancellata. Per il compiersi del processo il tempo è determinante, come il silenzio e l’isolamento.

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Parallelamente la vittima (chi resta, perché la morte è definitiva) può intraprendere la strada del perdono, ma anche in questo caso non si tratta di un fatto meccanico, necessario. La condiscendenza gratuita nell’immediatezza del crimine non può essere perdono, rischia anzi di offendere la vittima.

Per perdonare bisogna fare i conti col lutto, avere la volontà e il tempo di confrontarsi col colpevole e di riconoscerne l’umanità oltre il crimine che ha commesso e che rimane. Brevi e calibrate, ma cruciali nello sviluppo del tema sono le due scene – e qualche fugace inquadratura – in cui Alaoui incontra la madre di un bambino assassinato (Golino), una donna tormentata che non tollera motivazioni e non vuole accedere al perdono.

Per entrambi, colpevole e vittima, ricominciare a vivere è la posta in gioco di una lunga fatica. Sarebbe comunque una convivenza, rispettivamente, con l’irrimediabilità della colpa e col vuoto incolmabile del figlio assassinato.

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