Grembi e grembiuli

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Qualche settimana fa con il coro della mia parrocchia abbiamo imparato l’Inno del Giubileo, Pellegrini di speranza.

Come spesso mi succede dopo serate di prove intense, soprattutto quando, per imparare dei brani polifonici, è necessario ripetere più e più volte i singoli fraseggi musicali, l’eco del nuovo canto mi ha accompagnata per giorni, come una sorta di sottofondo interiore continuo e involontario che dalla testa si portava a fior di labbra nei momenti più impensati della giornata.

Un grumo di parole del ritornello, in particolare, tornava continuamente a risuonarmi dentro: Grembo eterno d’infinita vita/nel cammino io confido in Te.

Perifrasi

La perifrasi è una figura retorica che, come dichiara la parola stessa, perì frazei, dice le cose non in modo diretto, con nominazioni esplicite, ma girandovi intorno, procedendo attraverso circonlocuzioni. La si usa, in genere, per ragioni stilistiche – è un modo elegante per evitare ripetizioni della stessa parola a distanza troppo ravvicinata – o a scopo esplicativo, per spiegare concetti e rendere più chiari singoli termini.

Poiché non avanza a gamba tesa verso la cosa da nominare ma, nel suo scegliere tracciati non rettilinei, riesce a prendere e mantenere le distanze, la perifrasi può essere utilizzata per esprimere rispetto e una confidenza capace di non debordare.

Nella lingua della liturgia e della preghiera è alla perifrasi che spesso viene affidato il compito di dare corpo a quel “non nominare il nome di Dio invano” che ci è stato consegnato come indicazione di vita dal secondo comandamento.

Proprio in ottemperanza al secondo comandamento l’ebraismo sostituisce il Nome di Dio, rivelato nel tetragramma YHWH, con il titolo Adonai, che il greco dei Settanta traduce Kyrios e la Vulgata di Girolamo Dominus, “Signore”; ma la lingua della poesia sa andare oltre la semplice sostituzione a mezzo di titoli ed epiteti, per attingere con creatività alla freschezza di un repertorio vivo di immagini sempre nuove.

Basta una rapida ricognizione fra le numerose perifrasi utilizzate da Dante per indicare Dio nella Divina Commedia, per rendersi conto di quale forza immaginifica possa avere la parola poetica. Attraverso perifrasi Dante parla di Dio come potenza e regalità (quello Imperador che lassù regna; il Re dell’universo; lo Rege eterno; l’alto Sire), come bontà (quei che volontier perdona; la divina Bontà che ‘l mondo imprenta), come tempo infinito senza tempo (il Punto a cui tutti li tempi son presenti), come trinità (Quell’uno e due e tre che sempre vive/ e regna sempre in tre e ‘n due e ‘n uno,/ non circunscritto, e tutto circunscrive). Senza contare che proprio nel segno di una meravigliosa perifrasi si chiude l’ultimo canto del Paradiso, che ci consegna l’immagine di Dio come Amor che move il sole e le altre stelle.

Con la forza dell’evidentia, la perifrasi dà concretezza visiva alle sfumature concettuali. Non supera e non risolve l’ineffabilità divina, ma rende possibile l’avvicinamento progressivo al cuore del dicibile: attraverso le perifrasi che usiamo per dire Dio, qualcosa di Dio arriva a lambirci. E non solo ci lambisce e ci tocca, ma lavora anche sulla costruzione del nostro immaginario.

Anche in questo possiamo misurare la forza delle parole, perché non tutte le perifrasi che utilizziamo per “dire Dio” si equivalgono, è evidente: pensare Dio come l’Imperador che lassù regna o pensarlo come l’Amor che move il sole e le altre stelle non è la stessa cosa.

Il maschile è il genere più nobile

Sono state in primis le filosofe e le teologhe ad aiutarci a decifrare i condizionamenti, spesso inconsapevoli, veicolati dalla frequentazione e dall’uso di immagini, perifrasi, parole – sostantivi, aggettivi, pronomi – che declinano Dio in senso esclusivamente maschile.

I proclami di principio ci consegnano un Dio non toccato dalla differenza sessuale: come si legge nella definizione del Catechismo della Chiesa cattolica, Dio non è a immagine dell’uomo. Egli non è né uomo né donna. Dio è puro spirito, e in lui, perciò, non c’è spazio per le differenze di sesso. Ma il fatto stesso che il sostantivo e i pronomi personali utilizzati per formulare la definizione siano inequivocabilmente di genere maschile (Dio, Egli, lui) non è per nulla neutro rispetto all’interiorizzazione di una certa idea di Dio.

Perché hai un bel dire che Dio non è né maschio né femmina, se poi, per parlarne, devi usare il pronome “lui” e se il solo accenno ad un possibile pronome femminile diventa un azzardo dal sapore di eresia. E perché mai il genere femminile fa problema, perché mai ha sapore di eresia?

Per trovare risposta a questa domanda si può tranquillamente fare riferimento alla pagina 220 della grammatica latina dei miei anni ginnasiali, il Tantucci di veneranda memoria. Qui si legge, a chiare lettere e senza ipocriti infingimenti, che, in caso di concordanza del predicato nominale con più soggetti, qualora i soggetti siano esseri animati di genere diverso, il genere più nobile ha la prevalenza (il maschile su tutti gli altri).

Oggi che c’è un po’ più di attenzione al sessismo nella lingua e nei libri di testo, le grammatiche latine si guardano bene da utilizzare formulazioni di questo tipo e si servono di altre parole per esprimere la regola che, a suo tempo, proprio in quei termini sfacciatamente maschilisti avevo dovuto imparare a memoria.

L’idea di fondo del maschile come genere più nobile è, però, ancora saldamente arroccata nella testa di molte persone e, benché in forma subdola, continua ancora ad ammorbare l’aria.

Anche se, dopo papa Luciani, abbiamo potuto cominciare a pensare che Dio non è solo padre ma, più ancora, è madre; anche se qualche aggiustatina al linguaggio liturgico l’abbiamo vista e ogni tanto anche nelle nostre chiese ci si premura di ricordare che l’assemblea è fatta non solo di fratelli ma anche di sorelle; anche se, come lo stesso papa Francesco più volte ha ricordato, sono soprattutto le madri a trasmettere la fede – nei formulari e nelle preghiere delle nostre liturgie Dio resta sempre e comunque “il Dio dei nostri padri”. Meglio ancora, il Dio Onnipotente, Padre dei nostri padri.

Le donne, com’è naturale, scompaiono alla vista e nessun accenno di femminile scalfisce quel Dio cui ci può rivolgere solo al maschile – il genere che, grammaticalmente e non solo, l’inconscio collettivo continua a percepire e a vivere come il genere più nobile.

Grembo eterno d’infinita vita

Ma le filosofe e le teologhe hanno cominciato a leggere la Scrittura, e nella Scrittura hanno trovato parole e immagini che rimandano al volto femminile di Dio – parole e immagini rispetto alle quali il contributo di secoli di esegesi maschil(ista) è stato più nella direzione del celare che in quella di portare alla luce.

Lo spirito di Dio aleggiava sulle acque, dice Genesi. In ebraico spirito è rûah, un sostantivo femminile, con buona pace di Michelangelo che nella Cappella Sistina rappresenta Dio creatore come un maschio nerboruto e autorevole, dalla virile barba brizzolata.

In rûah la teologia femminista ha recuperato il femminile del gesto che crea e vivifica, così come ha recuperato il senso materno della misericordia divina andando alla radice etimologica del verbo splanchnízomai, usato nei vangeli per esprimere i sentimenti di compassione provati da Gesù.

Splanchnízomai trae origine dal sostantivo splánchna, le viscere materne, l’utero, il grembo che genera vita: provare misericordia significa aprire dentro di sé il vuoto accogliente capace di con-capere, di concepire, com-prendere e custodire l’alterità. Il Dio di misericordia è un Dio dalle viscere materne, un Dio che si intenerisce come una madre e come una madre prova tenerezza per tutte le sue figlie e i suoi figli. Un Dio che custodisce e genera la vita.

Di Dio Madre già parlava Giuliana di Norwich agli inizi del Quattrocento: «È dunque logico che Dio, essendo Padre nostro, sia pure nostra Madre[1]».

E, mentre i filosofi (maschi) si sono concentrati sulla questione della morte e del morire, tanto che la filosofia occidentale nella sua forma metafisica può essere definita tout court come “filosofia della morte”, il pensiero delle filosofe ha rivolto lo sguardo non all’atto conclusivo del vivere ma al suo momento iniziale, portando a tema la questione della nascita, della generatività e del “mettere al mondo il mondo”– penso a Hannah Arendt, a Maria Zambrano, ad Adriana Cavarero e a tutto il decennale lavoro della comunità filosofica Diotima di Verona.

Canticchiando fra me e me a fior di labbra Grembo eterno d’infinita vita/ nel cammino io confido in Te, ho sentito tutta la fecondità del pensiero femminista: perché, pur operando spesso nel misconoscimento da parte dei luoghi depositari dell’ufficialità del potere culturale, le filosofe e le teologhe sono riuscite a far emergere – a portare alla luce, a mettere al mondo –, l’immagine del grembo, e del grembo di Dio, come simbolica potente di misericordia e generatività.

E che il testo dell’Inno del giubileo sia stato scritto da un teologo come Pierangelo Sequeri, autore, per altro, di un saggio edito recentemente dal titolo Il Grembo di Dio, mi è sembrato, in questa prospettiva, ancor più decisamente significativo.

 Un grembiule, per concludere

Dal grembo al grembiule il passaggio è molto più che una semplice figura etimologica. Se “grembo” è chiara immagine femminile della concavità accogliente che si forma tra seno e ginocchia quando ci si siede e un modo elegante per dire la concretezza dell’utero materno, con “grembiule”, in quanto telo che copre il grembo, immediata è l’associazione ai gesti del servizio domestico compiuto dalle donne, che si mettono o stanno in grembiule quando sono in casa.

C’è un bel canto del Gen Verde che facciamo con il nostro coro la sera del Giovedì santo. Si intitola Servire è regnare:

Guardiamo a te che sei
Maestro e Signore:
chinato a terra stai,
ci mostri che l’amore
è cingersi il grembiule,
sapersi inginocchiare,
c’insegni che amare è servire.

Fa’ che impariamo, Signore, da Te,
che il più grande è chi più sa servire,
chi s’abbassa e chi si sa piegare,
perché grande è soltanto l’amore.

E ti vediamo poi,
Maestro e Signore,
che lavi i piedi a noi
che siamo tue creature
e cinto del grembiule,
che è il manto tuo regale,
c’insegni che servire è regnare.

Che dire? L’immagine di Gesù cinto del grembiule mi ritorna davanti con insistenza in questi giorni in cui le notizie relative all’elezione del nuovo papa sono costantemente accompagnate da svolazzi di talari e pellegrine purpuree.


[1] https://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010807_giuliana-norwich_it.html

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2 Commenti

  1. Maria Laura Innocenti 15 maggio 2025
  2. Laura 7 maggio 2025

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